di Marco Candida
Questo è un libro anomalo. E chi l’ha fatto arrivare manda i suoi avvertimenti. Prezzo altissimo. Copertina al contrario. Il retro davanti, il davanti sul retro. Sono avvertimenti. Siete sicuri di voler entrare? Sicuri di voler essere scossi fino al più tetro presagio di presa in giro? Fino a che non vi si incrosterà sul volto un sorriso sghembo con la bocca un po’ troppo aperta?
Antonio Moresco ci trascina, negli Increati, all’interno di un’antiutopia nella quale non vorremmo finire mai. Grattacieli spaccati. Strade percorse da crepe infinite. Automobili scassate. Morti che urlano di strazio. In marcia. Camminando. E poi di corsa. Sono tutti di corsa. La Suora Nera. Lazzaro. Il resurettore. Il Gatto. La Pesca. Corrono e parlano. S’incontrano correndo. Corrono a perdifiato circondati da grattacieli a pezzi, strade sbrecciate, cieli ulcerosi. Un mondo buio, scardinato. E poi i terremoti. Sconquassi che si accaniscono su una carcassa maciullata, un rottame di mondo inguardabile.
Lo stesso linguaggio è un pezzo di lamiera divelto che viene calato sulle cose per fratturarle ancora di più. Il linguaggio, nella grande opera moreschiana, non si limita a giudicare, ma punisce quanto più possibile. Ogni nominazione è un macigno che si abbatte sulla cosa nominata schiacciandola e scassandola. Nell’epicentro di ogni terremoto, tuttavia, fulgido riluce un residuo scintillante. Tra vortici oscuri non sarà difficile per il lettore riconoscere questa improvvisa emorragia radiosa.
Cosa possiamo dire di questo quid policefalo e pluritentacolare? Non esiste modo adeguato di parlarne. Aprire le pagine di questo cosa significa lasciarsi inghiottire in una frastornante dimensione d’ineffabile. Non si può dire l’indicibile; ma, questo appare evidente perdendosi tra le pagine dell’opera di Antonio Moresco, non si può nemmeno ridire ciò che tenta di dire l’indicibile. Ci si accorge presto che il discorso che tenta di esprimere l’inaudito è parola non spendibile. Non barattabile. Quindi per ciò stesso irrinunciabile. La visione che Moresco ci consegna non possiamo far altro che custodirla. Pressoché impossibile è cercare di offrirla al prossimo. Come uno scrigno che irradi violenti bagliori aurei, ma che una volta aperto appaia pressoché vuoto. Parlare di un romanzo come Gli Increati significa giocarsi la reputazione. Si rischia solo di capitombolare producendo uno schianto fragoroso. Tuttavia, è giusto, con coraggio, parecchio coraggio, provare a condividere ugualmente.
Quando veniamo risucchiati in modo così soffocante dentro un universo tanto allergenico la prima cosa che la ragione cerca di fare è trovare un appiglio. Cerchiamo qualcosa di familiare e scaviamo, scaviamo questa scaglia di specchio alla ricerca di un brandello di perché. E col perché cerchiamo di rappezzare il vortice di terribilità che ci viene aperto sotto i piedi. Perché consegnarci una visione così dura e disperata? Perché farci leggere proprio questo? E’ con noi, l’opera, che se la sta prendendo? Vuole punirci? O vuole aiutarci? Annaspiamo per più e più pagine. Ernesto Che Guevara. Mohammad Reza Palhavi. Mariam di Magdala. Lenin. Santa Lucia. Kennedy. Anna Maria Cecilia Sophia Kalogeropoulou. Eviscerati. Immortali. Evidenziati. Addormentati. Insorti. Franiamo in un turbine dove la parola non è più veicolo di senso, simulacro, evento fonetico, rappresentazione. Diventa sassata. Diventa sputo. Quella di questo cosa è una parola sputata. Gli increati va letto immaginando uno sputazzamento pressoché ininterrotto. Il narratore ci parla sputacchiando. Non parla delle cose; ma parla alle cose, sbattendo loro addosso fiato, saliva, bile collerica e malinconica.
Solo che le parole sono organismi vociferanti. Sembra quasi una tautologia, ma non esiste nulla più verboso dei segni che osserviamo distesi su un foglio di carta. Ogni lemma, se fosse dotato di parola, forse non smetterebbe mai di parlare, mai. Per questo è impossibile orchestrare questo concerto di voci inesauste. Da questo coro discorde captiamo quello che riusciamo. E captiamo anche quello che vogliamo. E’ questo, forse, quando leggiamo, a offrirci un’ancora di salvezza.
Lo è viepiù in un’opera come quella di Antonio Moresco. Il verbo sputacchiato degli Increati prende fortunatamente la parola mettendosi a bisbigliare e vociferare e ci rendiamo presto conto che non può essere solo oggetto contundente, sputacchio, punizione, coltellata. Ci sono le gemme, nei punti di spaccatura più fondi; e poi ci sono le scaglie di specchio, e i brandelli di perché.
Dicevamo, difficile condividere. Difficile indicare una pagina e commentare. Aprire una pagina degli Increati, anche solo un paragrafo, significa aprire tutto quanto il libro. Mostrare una parte significa mostrare tutto. Così tanto questo organismo polimorfo è ripiegato su se stesso e auto-saldato. Reiterante allo spasimo. Geremiade esorcizzante. Rosario eretico. La nenia ripetitiva sfonda immediatamente ogni evento, personaggio. Ecco che appare Aldo Moro, o Sempio, o Bindra, ma gli eventi vengono bucati in fretta dall’ondata di sputacchi ossessivamente replicati. Un’inondazione di parole e frasi che diventano canto magico, incantatorio, esorcismo. “Tracimazione”. “Incernierato”. “Vita nella morte che viene prima e che viene dopo”. “Vita dentro la morte o morte dentro la vita”. “Tracimazione dentro la morte che viene prima o dentro la morte che viene dopo”. Espressioni che ingolfano e distorcono senza sosta ogni possibile sintonia. Le lunghezze d’onda si dilatano e restringono, si alterano, le frequenze subito impazziscono.
Ormai il Moresco agens non è più in grado di tenere a bada la voce mostruosa che lo abita. Non riesce più a venire a patti. Il lettore non c’è più. Solo così è possibile dire la verità. Sputacchiando. Masticando. Deragliando. Il treno della comunicazione collassa. Fischi di freni. I bagagli cascano. I finestrini esplodono. Il treno, fuori dalle rotaie, si contorce in stridii lancinanti. Ogni paragrafo. Ogni periodo. Ogni frase. C’è questa scarica distorcente. Questo conato alfabetico. Se si tiene conto di questo, se questo it di 1023 pagine si vede così, è persino possibile cercare di orientarsi all’interno del suo idioletto demonico. E si vedrà che non sono i fatti a contare: quel che conta, negli Increati, è proprio la lingua espressione del cogito più infero. La lingua liberata dell’Io: la lingua dell’assoluta alterità. Un linguaggio scollegato. L’impressione che se ne ha leggendo genera meraviglia. Paura e incantamento. Si rimane imbambolati e instupiditi. Però avvinghiati. C’è qualcosa in questa reiterazione ostinata e instupidente che tiene lì. Perché è giusta. Corallina. Uno sbrego di verità gemmea.
Poi nell’occhio del ciclone, dicevamo, ecco la perla. Scintilla. E’ lì. Il lettore la raccoglie. La custodisce. Non può non vederla. Superfluo persino condividerla. Indicarla. Se si potesse disegnare Gli increati sarebbe un libro dalle pagine nere e per ciascun capitolo un punto luminosissimo, d’accecante intensità. Qualcosa da raccattare subito, immediatamente fruibile e spendibile. Assolutamente barattabile. Perle, appunto. Gemme.
E ci sono anche, dicevamo, le scaglie di specchio. E’ vero che la morte viene prima della vita. Vero che la morte fonda la vita. Siamo in vita grazie ai morti. Camminiamo su strade costruite dai morti. Abitiamo case di morti. Quando veniamo al mondo c’è la morte che viene prima ad attenderci – ed ecco che il mostro s’impadronisce anche di chi scrive, la comunicazione già si altera, si pasticcia, il treno traballa pericolosamente. I morti hanno fondato la nostra civiltà. I vivi devastano. Eccole, le scaglie dello specchio. Il continente dei morti moreschiano è fatto di oggetti presenti anche nel nostro mondo. Pertanto guardando ciò che è familiare di quel mondo non possiamo fare a meno di pensare al nostro. I morti di quel mondo morto sono i morti di questo mondo morto: che noi, più sbrigativamente, ancora disposti a scendere a patti, non cedendo alla sincerità sciolta, diciamo vivo.
E come vengono rappresentati quei morti che sono anche questi morti, noi? Corrono. Corrono. A piedi. Su automobili fracassate sparate a velocità folli. A cosa vorrà alludere Moresco? Perché i morti sono di corsa? Forse perché siamo sempre e universalmente di corsa e in affanno? Ecco emergere un’interpretazione. Un appiglio. La ragione affonda ma ecco che trova un pezzo di legno e ci si aggrappa. Quantomeno la ragione di chi sta scrivendo queste parole. Altri per non annegare troveranno appigli differenti. Ma non ha molta importanza. Ecco cosa sono e a cosa servono le interpretazioni. A cosa servono le metafisiche e a cosa serve la pratica della trasfigurazione. Ritagliare un brandello di perché. Se non si può trovare all’interno, il brandello si strappa al di fuori. Altrimenti salta tutto. E’ il blackout di senso. La fine.
Perché nel continente dei morti i morti vengono fotografati dalla fotografa dei morti? Perché deificarla? C’è un messaggio, anche qui, che questa figura vuole suggerirci? Negli Increati ci sono messaggi semplici e ci sono messaggi più sottili: e va detto che i messaggi più evidenti vengono di solito esplicitati nel corso dell’opera stessa. Come qui: “Quando ero tra i vivi e mi muovevo nel mondo con il mio corpo che percepivo di tanto in tanto come vivo, mi sembrava sempre di venire da un’altra parte, da un’altra parte e da un altro mondo. Adesso che sono morto mi sembra ancora di venire da un’altra parte, da un’altra parte e da un altro mondo. Ve l’ho già detto: allora mi sembrava di vivere in un mondo di morti, adesso mi sembra di vivere in un mondo di vivi. Allora mi sembrava di combattere contro dei morti, adesso mi sembra di combattere contro dei vivi”. Perché la figura di Lazzaro si confonde con quella di Gesù? Perché il resurrettore non vuole risorgere? Perché La Pesca viene di nuovo abbandonata? Perché? Perché? Domandarsi il perché significa cercare il senso ovvero la direzione, la freccia. Ma in una costruzione gigamentale e consapevolmente multi direzionale come quella moreschiana la risacca schiumante di vettori si gonfia a ogni nuovo paragrafo. Ecco perché, dicevamo prima, quest’opera imbambola e instupidisce. Imbambola perché presumiamo subito a che cosa l’opera stia alludendo. Instupidisce perché questa stessa allusione ci lascia l’ombra del sospetto, abbisogna una rilettura, va addomesticata meglio.
Cosa possiamo dire che dia parvenza conclusiva a questo insieme di parole inerenti a parole che tentano di esprimere l’inesprimibile? Categorie di bello o capolavoro esplodono e si svuotano di significato difronte a romanzi come Gli increati. Ma noi, uomini e donne collocati nel tempo del postmodernismo, abbiamo imparato, forse ancora un po’ macchinalmente, a confrontarci con opere come queste. Non che Gli increati possa essere assimilabile ad altro. Non può esserlo in quanto, come detto, voce di una cogitazione unica. Perché postmodernismo significa post-linguismo, io assoluto, linguaggio scollegato: e in questo senso il genere dell’autofictiòn rappresenta forse l’esito più compiuto del cosiddetto postmodernismo. Tuttavia, come uomini e donne del tempo del cosiddetto postmodernismo, si è sedimentato in noi l’insegnamento che queste opere non sono belle in sé (e Antonio Moresco, va pur riconosciuto, è autore di tante opere belle in sé), ma il bello sta nel fatto che esistano e che con esse possiamo confrontarci. Ci vorrà tempo. Ci vorrà coraggio. Ma lo sappiamo. Ormai lo abbiamo imparato.
Pertanto, ecco, forse, un’affermazione che ha parvenza conclusiva: ogni uomo occidentale di questo tempo deve avere nella sua libreria Gli increati di Antonio Moresco. Ogni uomo che aspira a vivere in Occidente deve necessariamente possedere una copia da consultare nella propria libreria degli Increati di Antonio Moresco. Non può, un’opera come questa, essere presa a prestito da una biblioteca comunale e restituita dopo un mese. Va acquistata. Tenuta in casa. Per leggerla anche in anni e anni. Affrontarla in più momenti, nei giusti momenti.
Tag: Antonio Moresco, Marco Candida
1 aprile 2015 alle 09:09
Non si può non cedere ad un libro così. Ma visto che costa un botto XD per ora ho scaricato l’estratto. In ogni caso, da parecchio tempo un libro non mi intrigava in questo modo. Tornerò presto con le emozioni.
1 aprile 2015 alle 10:24
mi basta l’estratto sono uscita da parecchio dalla palude senza nome o forse lo credo ma fa lo stesso non mi va di atteggiarmi ad intellettuale d’élite in omaggio all’opera ometto la punteggiatura in segno di caos residuo sono la Matta e mi sta bene
1 aprile 2015 alle 10:55
Nella conclusione, Marco, ti sei fatto trascinare un po’ troppo: da commesso viaggiatore. Tu dovessi fare una raccolta di tue recensioni, rivedila: è un brutto panegirico. Con affetto.
1 aprile 2015 alle 11:04
Posso rimanere leggermente perplesso?
1 aprile 2015 alle 11:25
L’ho preso ieri, dopo aver risparmiato e risparmiato.
1 aprile 2015 alle 12:14
“ Giovedì 27 febbraio 1997 – « Dopo la fine », caro professore, si pubblicano anche libri come queste Lettere a nessuno di tale Antonio Moresco, che sarebbero i documenti della decennale odissea epistolare di uno scrittore che ha scritto a tutti per farsi pubblicare e alla fine comunque, dice, c’è anche riuscito. (Dice su Panorama Maurizio Bono – toh, conosco anche lui – che « Alfonso Berardinelli, che ha deciso di pubblicare il diario, lo giudica “ uno straordinario libro involontario “ “. » Dopo la fine “ succede anche questo) “ [*]
[*] La s-formazione dello scrittore / 255
1 aprile 2015 alle 12:28
Moresco è uno scrittore che avrebbe tutto per piacermi.
Eppure, ogni volta che apro un suo libro, dopo venti pagine mi vien voglia di scagliarlo dalla finestra.
Non riesco a comprendere bene questa sindrome da defenestrazione dei libri di Moresco che mi ha contagiato in primis con I canti del caos, poi con Gli esordi, poi con La cipolla, infine con l’orribile Gli Incendiati.
Desso non mi faccio più fregare, manco morto.
1 aprile 2015 alle 12:35
Nipote scriteriato, un giorno Moresco parlerà male di te e defenestrerà i tuoi libri.
1 aprile 2015 alle 12:56
Mi accontenterò di un posto negli ordini intellettuali inferiori, ma io il pensiero di leggere 1032 pagine di ‘sto libro mi prende la brucellosi, l’afta epizootica e anche un accenno di herpes zoster.
1 aprile 2015 alle 13:01
Non lo leggerò, Preferirei davvero leggere, che so, la Kinsella, o Danielle Steel, che non Moresco.
1 aprile 2015 alle 13:03
@ Gian Marco
“”Mi accontenterò di un posto negli ordini intellettuali inferiori” scrivi
Beh tieni un posto anche per me .
Moresco,lo scrittore più sopravvalutato di tutti tempi(al pari di V.S Naipaul)
1 aprile 2015 alle 13:29
Serena, ti capisco. Anch’io ho provato un senso di grande attesa.
Liliana, atteggiarsi è l’unica vera prova di aver fatto esperienza di un’opera letteraria. Non conta davvero saperla raccontare. Non conta davvero saperla analizzare. Quello che davvero conta è l’invasione che ne deriva. Pensa a quel che ci racconta Flaubert di Madame Bovary. O Dante di Paolo e Francesca. Pensa a cosa succede quando, finito un film che ci ha colpiti, usciamo dal cinema. Parliamo diversamente. Ci atteggiamo, appunto, differentemente. Dura un po’ e poi va via. Oppure rimane a lungo. Perciò non bisogna provare vergogna della metamorfosi che ci prende quando abbiamo finito di leggere un’opera. Anche se ci mettiamo a parlare in modo inusuale e a fare cose strane. In modo goffo, inadeguato.
Caro Bartolomeo, presumo di sapere cosa non ti piace del finale. L’espressione “biblioteca comunale”. La parola “biblioteca” è una delle più belle parole; ma l’aggiunta di “comunale”… beh, cosa dire? A me, però, ricorda anche il verso di una bella canzone di Ivano Fossati: “E’ cultura universale o biblioteca comunale?”.
Stefano Trucco, sì, a patto che ci spieghi perché.
Acabarra, “straordinario libro involontario”? C’è ben poco d’involontario in quello che scrive Antonio Moresco.
Gian Marco, Roby e Ludovico, non è mia intenzione fregare il lettore dandogli suggerimenti sbagliati. Mi pare che il testo lo lasci intendere.
Grazie dei commenti.
1 aprile 2015 alle 13:30
Aggiungo: “Gli incendiati” si è brutto,ma mai quanto “Lettere a nessuno”
1 aprile 2015 alle 13:35
Nelle biblioteche comunali si fanno un sacco di cose carine. Cose che non si potrebbero fare altrove. Cose che se no non si farebbero proprio 😉
1 aprile 2015 alle 13:40
@Marco
No, Marco, non è il “comunale” o il termine “biblioteca” che mi hanno dato fastidio, ma il tono di colui che, dopo aver recensito il libro, lo mercifica, come fa un “piazzista” che esibisce al negoziante i propri prodotti e li elogia affinché vengano acquistati.
Infatti scrivi:
“ogni uomo occidentale di questo tempo deve avere nella sua libreria Gli increati di Antonio Moresco. Ogni uomo che aspira a vivere in Occidente deve necessariamente possedere una copia da consultare nella propria libreria degli Increati di Antonio Moresco. Non può, un’opera come questa, essere presa a prestito da una biblioteca comunale e restituita dopo un mese. Va acquistata. Tenuta in casa. Per leggerla anche in anni e anni. Affrontarla in più momenti, nei giusti momenti.”
Ma posso, ovviamente, sbagliarmi. Ti leggo sempre volentieri, comunque.
1 aprile 2015 alle 13:52
Moresco, ho letto parecchi anni fa Gli esordi, non tutto, poi un libretto, La cipolla, e avevo trovato una parola per lui che mi sembrava andasse bene: greve. E dopo greve, dopo aver letto qualche cosa su questo Gli increati, penso che Moresco sia uno di quegli scrittori che si credono molto, tanto, particolari perché di più, contorti in quanto sanno … Ecco questi scrittori così non mi piacciono niente, mi piacciono quelli che sembrano dirti invece: guarda, cosa vuoi, io non so niente, ho scritto sì ma per mostrarti quanto sono poco, … ( e mi sto chiedendo adesso di chi mai io stia parlando). Sospetto comunque che Lodovico qui sopra abbia ragione.
1 aprile 2015 alle 14:23
Grazie Cristian e non per ricambiare il favore,ma perchè ci credo davvero:si,credo anche tu abbia ragione sul serio
Io non userei solo la parola greve:io userei davvero la parola SOPRAVVALUTATO(Moresco)
E ora un allegro parallelo:
i libri di Moresco sono un po come l’aereo russo Mig-25 di fine anni 60:talmente grosso (23 metri)e veloce (mach 3)che popolava gli incubi dei pianificatori occidentali :quando qualche anno dopo lo si affrontò nelle solite guerrettine mediorientali,si capì cosa era in realtà :una cosa talmente gigantesca ma senza accelerazione che ci metteva un ora(!!!)ad arrivare alla velocità massima(cosa che peraltro non permetteva neanche di vedere gli aerei avversari..),e con così poco carburante trasportabile per far spazio ai grossi motori da rimanere in volo solo meno di un ora:. quando finalmente il Muro cadde e poco tempo dopo con essa l’Urss, in breve si riuscì a chiedere a qualche vecchio generale ex sovietico perché avevano profuso così tanto tempo e energie in un progetto così velleitario:la risposta fu:
“beh,ma sui radar e l’elettronica noi russi eravamo indietro,il mig 25 aveva le valvole termoioniche invece che transistor e microchip che gli occidentali iniziavano gia a usare..perché costruimmo quel mastodonte allora ?beh in qualche modo dovevamo pure diversificarci..:( e il gigantismo,si sa, all’inizio,si fa notare..” 😦
A buon intenditor…
1 aprile 2015 alle 14:40
E al di la della mini polemica sulla battuta sulle biblioteche (vera istituzione italiana,le ringrazio ogni giorno)come rimanere impassibili di fronte a una frase come la seguente dall articolo di MC?
“””“ogni uomo occidentale di questo tempo deve avere nella sua libreria Gli increati di Antonio Moresco. Ogni uomo che aspira a vivere in Occidente deve necessariamente possedere una copia da consultare nella propria libreria degli Increati di Antonio Moresco.”
Ma anche no,dico io,capisco sopra sia un iperbole,ma piuttosto che tenere un libro di Moresco preferisco diventare Teocon, o arruolarmi nella Legione Straniera,o cose simili
..quando mai il mondo culturale italico smetterà (parlo della forma)questi vezzi didattico -malinconico-crepuscolari-para religiosi che sono solo un peso?
1 aprile 2015 alle 15:02
“ Martedì 8 settembre 1998 – « Giramenti di testa improvvisi. Che è? La suggestione del Diario di K.? [1954] » (Ottiero Ottieri, La linea gotica / Taccuino 1948-1958) “ [*] [**]
[*] La s-formazione dello scrittore / 257
[**] “ Involontario “ l’ha detto Beradinelli.
1 aprile 2015 alle 15:30
Caro Bartolomeo, uno dei modi per concludere un testo è usare toni enfatizzanti. Ho scelto questo modo. Però il lettore viene informato con quel: “abbiamo trovato un’affermazione che ha parvenza conclusiva”. Vale a dire: ora dirò qualcosa con tono enfatico, ma lo faccio consapevolmente; e vi informo. Il che significa che non sto cercando di far passare qualcosa di falso attraverso l’enfatizzazione dei toni (tipica, è vero, di “piazzisti” e “venditori”). Uso un tono enfatico pur affermando qualcosa di vero. Ovvero che ognuno di noi dovrebbe avere in casa il romanzo di Antonio Moresco.
Serena, Ludovico, le biblioteche civiche sono luoghi che frequento, con i miei migliori amici, pressoché quotidianamente. Lungi da me parlarne male. Mi riferivo alla presenza dell’espressione “biblioteca comunale” nel contensto e solo nel contesto in cui si trova.
Stefano, sarebbe bello ci spiegassi cosa ti perplime.
Cristian, la trilogia moreschiana è importante. Tra l’altro, la chiamiamo “trilogia”, ma forse sarebbe meglio chiamarlo “trittico”. Come il trittico di Bacon, per intenderci agevolmente. Soltanto componendo le tre parti si comprende il senso di ognuna di esse.
1 aprile 2015 alle 15:30
Marco.
“… o Dante di Piero e Francesca”.
?
1 aprile 2015 alle 15:40
Maria Luisa, grazie.
1 aprile 2015 alle 16:02
..mai trovato nessuno che usi il tono enfatico NON consapevolmente(a parte qualche poetessa, vabbè..):e trovo poco funzionale il parallelo con “piazzisti” e “venditori” (questi almeno un filo di ironia o di efficienza la hanno,cose concrete,insomma):il problema è che nel dibattito culturale i toni enfatici assumono quell’aura malinconica( di cui dicevo sopra e poco giova provare a ribaltare con “Uso un tono enfatico pur affermando qualcosa di vero”..?ovvero,dico io?
Probabilmente si usa un tono enfatico per dare qualche importanza a ciò che si dice (legittimo-vedere anche i dibattiti al Parlamento italiano,in questo senso..)-ma in questo caso sopra è un boomerang:da li qui a dimostrare il valore delle opere di Moresco, ce ne stracorre
1 aprile 2015 alle 16:59
Moresco pone qui la barra ad un livello molto alto, sia per chi scrive che per chi legge. Non c’è prescrizione medica ma non può essere evitato da chi cerca in letteratura materiali che vadano ai confini del dicibile. Ha inoltre il merito di cuocere dentro il suo calderone non solo la mitopoiesi letteraria ma anche quelle economica, scientifica, antropologica e tecnologica. Il tutto per via di intuizione o di ispirazione, non di conoscenza, come un “asino che trascina il carretto”, secondo le stesse parole dell’autore.
1 aprile 2015 alle 17:07
a far opere monstre si rischia piu spesso il polpettone che non il grande capolavoro:i capolavori stessi devono esser ben calibrati,non solo crescere per accumulo con quella specie di retorica che qualcuno ha definito “apocalittici da sofà” -questo è solo un mio rilievo formale,se poi dovessi passare al livello contenutistico,beh altro che blog mi ci vorrebbero una decina di post come minimo
(“sapete quanto io mi annoi con gli apocalittici da sofà” scriveva Baricco anni addietro-non so chi si riferisse,però la battuta,è invero godibile.. )
1 aprile 2015 alle 17:14
da sopra :
“…ma non può essere evitato da chi cerca in letteratura materiali che vadano ai confini del dicibile”
a me questa sembra una frase a effetto ,innocuqua,e molto retorica (la retorica non è illegale,ad ogni modo, ma nelle patrie lettere ce n’è gia troppa)
Ordunque, “confini del dicibile”-ma che vuol dire
(già nel 1993 Nanni moretti se la prendeva in un momento di un suo famoso su certi vezzi di critica e culturame…sopratutto sulle opere pretese come “estreme,apolidi,borderline”)
1 aprile 2015 alle 18:00
30 euro sono tanti, ma leggendo “costa un botto” pensavo peggio, del resto sono 1013 pagine. Su ibs è scontato del 15%. Comunque non lo comprerei neanche se costasse 5 euro, perché i libri io li prendo in prestito dalla biblioteca (grazie, grazie e ancora grazie al comune di Modena, ai bibliotecari e alla loro professionale disponibilità). I libri li compro solo se sono capolavori che voglio tenere sempre con me. Seguirò il consiglio di lettura, vediamo se è davvero così bello.
1 aprile 2015 alle 18:04
Ludovico: significa che non è una narrazione piana, non si sviluppa secondo il tempo lineare, fa uso di distorsioni di tempo e di senso che rendono difficoltosa tanto la fruizione logica quanto quella consequenziale. Il rischio di fronte a questo oggetto, come già si vede dalle prime reazioni, è che da un lato si crei una morescosi di rifiuto dell’enormità, che è comunque indiscutibile per semplice comparazione rispetto al 99% delle opere narrative pubblicate in Italia (tutte le opere non-monstre, per intenderci), dall’altro un moreschismo imitativo-epigonale da tana libera tutti, per cui assisteremo ad una crescita di narrazione più o meno sbilenche o balorde fondate sulla pretesa di fare qualcosa a la Moresco.
1 aprile 2015 alle 18:25
“ 19 aprile 1991 – Andavo in biblioteca ma guardavo le donne (anni Sessanta). “ [*]
[*] La s-formazione dello scrittore / 258
1 aprile 2015 alle 18:28
La mia perplessità viene dalla recensione stessa che mi pare tenti di replicare lo stile del recensito, un procedimento spesso rischioso. Di recente ho letto una recensione del genere di Matteo Marchesini su Arbasino ma lo stile di Arbasino, tanto vicino già di suo alla parodia consapevole, si presta mentre quello di Moresco mi sa di no. Una simile portentosità sembra porsi di fronte alla porta d’ingresso dell’opera sfidando chiunque ad entrare – e può far dubitare dell’opportunità dell’impresa.
L’unico libro di Moresco che ho davvero apprezzato è stata un’opera dichiaratamente minore come Lo Sbrego, ma tanto minore forse non è dato che di recente ho ascoltato Moresco stesso leggerne pubblicamente dei brani. Un breve romanzo-saggio pieno di misura da parte di un autore che si vuole smisurato e che di certo è così considerato dai suoi ammiratori.
Comunque massimo rispetto da parte mia: non ho dubbi sulla sua serietà e nemmeno sul suo talento. Semplicemente non è un talento di mio gusto.
1 aprile 2015 alle 19:00
è in scaletta. Uno dei pochi autori che ammiro spudoratamente. Stampo e leggo con calma la tua (immagino bella) recensione, anche se, per vezzo, evito sempre di leggerle prima del testo in parola. Grazie per la segnalazione.
1 aprile 2015 alle 19:43
A me pare evidente che se un’opera, in un dato tempo, è stata letta e lodata da molti (e quei molti lo hanno fatto in modo piuttosto convincente, almeno dando prova di buona fede, e quei molti sono interlocutori di buone letture e di raffinati strumenti culturali), sia necessario prendere in considerazione l’ipotesi che quell’opera, elaborata dall’immaginazione di molti lettori, sia effettivamente bella.
Dare della schifezza – e sinonimi – a un’opera contemporanea che ha avuto, in questo senso, fortuna, mi pare un atteggiamento di scarsa maturità, il buon lettore sa che ogni immaginazione è a sé, e che quindi non è un fatto di chi ce l’ha più lungo (il giudizio, l’intelletto, l’orecchio) ma solo di compatibilità fra testo, lettori e insomma tra persone.
Per dire: se a me Gli incendiati è parso un buon libro (soprattutto nella prima parte, molto convincente e immaginifica) e a Ludovico e Gian Marco è parso bruttissimo; non credo che questo significhi che dm legge meglio di Ludovico e Gian Marco, né che Ludovico e Gian Marco leggono meglio di dm, ma che le immaginazioni di Ludovico e Gian Marco sono incompatibili nei confronti di un testo con cui l’immaginazione di dm è abbastanza compatibile e che, probabilmente, pensiamo in modo diverso (non la pensiamo in modo diverso, ma pensiamo).
Sicuramente qui tutti avranno pensato o diranno che questo discorso è ovvio, il problema è che non lo sono tutte le conseguenze pratiche che vengono dall’accettazione di questo discorso. (C’è anche una piccola percentuale che vede invece l’immaginazione propria nel centro dell’universo… Ma non è il nostro caso, e poi non è il caso di far pubblicità occulta agli strizza-cervelli…).
Be’, scusate il semifuoritema.
1 aprile 2015 alle 22:20
Stefano Trucco, ho capito.
2 aprile 2015 alle 06:51
“ Giovedì 2 aprile 2015 – « Lettere a nessuno ». Come se Nessuno fosse uno che legge… “ [*]
[*] La s-formazione dello scrittore / 259
2 aprile 2015 alle 07:04
GiuseppeC, condivido quello che hai scritto.
Ludovico, esiste una grande tradizione occidentale che si occupa dei “confini del dicibile”. La mistica. La cosiddetta mistica speculativa, in particolare. Facciamo attenzione. Le parole hanno una loro storia. E le parole sono mobili. Frequentano luoghi diversi, ma, come dire?, sono sempre se stesse: e vanno rispettate. A volte le vedi al bar. A volte nei migliori contesti. Ma rimangono se stesse, e vanno rispettate. Pertanto, GiuseppeC, in questo thread di commenti di livello assai basso, quando usa “confini del dicibile” non sta usando una semplice “frase ad effetto”. E direi che sono assolutamente d’accordo sul fatto che calzi in riferimento al romanzo di Antonio Moresco.
Carla, amo le biblioteche comunali. Come tutti.
Caro Cletus, molto bene.
Acabarra, sì, lo so che “involotario” l’ha detto Berardinelli. Ma sei stato tu a far entrare nella discussione la sua definizione.
Daniele, un fuoritema molto gradito.
E’ interessante notare come certe dinamiche si ripresentino. Qualcuno scrive un’opera ambiziosa e grande. Quest’opera arriva nelle librerie. La reazione di chi legge e di chi si occupa di libri è di sospetto. Trent’anni fa Carmelo Bene. Joyce se le sente ancora adesso per aver osato quello che ha osato. Il Dante di cui ci riempiamo la bocca era nell’Indice dei Libri Proibiti, eccetera. L’accusa fondamentale qual è? E’ sempre quella. La cosiddetta grande opera sarebbe invece soltanto una vana pretesa. Il confine tra ambizione e pretenziosità (questo sì, Ludovico) è molto sfumato. La verità è che “ambizione” significa puntare in alto. Non necessariamente arrivare in alto. Harry Fox, in un libretto di mille e cinquecento lire di parecchi anni fa, diceva: “Bisogna puntare a diventare Presidenti degli Stati Uniti, se si vuole diventare Sindaci della propria città”. Noi siamo qui, e il sospetto è chiaro: Moresco è all’altezza? E a chi pensiamo, mentre ci poniamo questo dubbio? Ci vengono in mente Joyce, Shakespeare, Dante, Thomas Mann. Forse Moresco appare pretenzioso perché pretende di essere Shakespeare, ma nel gesto di questa pretesa, mentre si tende tutto per arrivare a essere come Shakespeare o Dostoevskij o Proust, supera di slancio una serie di altri autori coi quali diventa persino impensabile paragonarlo. Ecco. Questa è un’immagine, un pensiero, che invito Stefano Trucco o qualsiasi altro scrittore a meditare.
Ciò detto, la recensione sta rimbalzando dappertutto sui social. Segno, a parer mio, che di libri così c’è bisogno. Altro che Kinsella o Judith Krantz.
2 aprile 2015 alle 07:22
Ma io pensavo proprio a una certa qualità dell’immaginazione. Ci sono opere ‘smisurate’ che mi attraggono e altre no o meno.
L’Ulysses per esempio sì. La differenza è che il titanismo di Joyce, che certo come ambizione non era secondo a nessuno, era intrecciato di umorismo, enigmistica, cialtronaggine irlandese da palcoscenico e desiderio di far vedere quanto era bravo. Joyce era un entertainer, a suo modo.
Quanto a Shakespeare c’è un discorso diverso da fare: in lui non c’è, come dire, paratesto. Le poche notizie che abbiamo di lui come persona insistono sul suo buon carattere e la sua professionalità di attore-manager, uno dei tanti – solo che era Shakespeare. Ai suoi tempi era un autore di successo commerciale e lo è clamorosamente rimasto. Insomma, il suo titanismo è tutto a posteriori, frutto dei secoli. Da parte sua, non una parola.
Sono d’accordo che autori come Moresco ci vogliono se non vogliamo rimanere tutti inscatolati in generi asfittici e regole di scrittura per nicchie di snobismi low-cost, e gli sono grato perchè fa quel che fa – ma rimango perplesso lo stesso, come rimanevo perplesso per Gaddis e Wallace e D’Arrigo (Joyce, Perec, Pynchon – ecco, quelli sì, per me).
2 aprile 2015 alle 07:44
Ecco, mettiamola così: opere smisurate (opere mondo) in cui si possa riconoscere la famigerata leggerezza delle Lezioni Americane di Calvino.
2 aprile 2015 alle 07:53
Per chi non ne fosse a conoscenza: potete leggere il primo capitolo de “Gli Increati” qui. Sono una novantina di pagine nelle quali Moresco “costruisce il lettore”.
Infine, poiché proprio ieri pomeriggio il Moresco era ospite intervistato a Fahrenheit (Radio 3) dovrebbe essere possibile rintracciare l’intervista sul sito di RAI Radio3 (ancora non l’ho fatto, se riuscirò a recuperare il link lo posterò più avanti).
2 aprile 2015 alle 08:02
Mi viene in mente anche ‘Gli ultimi giorni dell’umanità’ di Karl Kraus, che mi piace immensamente benchè sia estremamente passionale e dolorosa – un’opera, per certi aspetti, se ho capito bene, che si potrebbe accostare agli Increati.
Forse lì dipende, sempre per me, non solo dalla struttura teatrale e da vaudeville ma anche dall’uso satirico di persone al tempo fin troppo vive e vegete, oltre che dal fatto che Kraus utilizza una miriade di voci che sa riprodurre come un favoloso imitatore e non solo e soltanto la sua – un immenso teatro dei pupi.
2 aprile 2015 alle 08:03
E comunque s’è capito fin troppo bene chi è ‘Ludovico’. Quell’ortografia disastrata e quella ripetitività negli argomenti sono inconfondibili…
2 aprile 2015 alle 09:08
“ Giovedì 2 aprile 2015 – Ieri sono andato alla libreria dell’A(ppla)uditorium e ho chiesto il libro di Moresco. Quando me l’hanno dato ho visto che è un libro grosso, un librone, ma, soprattutto, è strano. Guarda che cosa bisogna fare per vendere, ho pensato. Come se un libro non fosse strano di per sé, in quanto tale, in quanto libro. Strano come un libro, bisognerebbe dire così. In quanto a leggerlo… Ora non esageriamo con la stranezza… “ [*]
[*] La s-formazione dello scrittore / 260
2 aprile 2015 alle 16:03
Ammetto di non aver mai letto il libro Marco, ma dalla tua competente recensione si capisce che deve essere qualcosa di raro, anzi qualcosa di prezioso. Io penso che ogni libro sia la foto di una realta’ e se quindi, la recensione e poesia densa e ricca, il libro non puo’ che essere (quasi sicuramente) un capolavoro intenso e pieno. Se poi quella recensione densa e ricca e’ fatta da Marco Candida si puo’ anche togliere (io penso) quel: quasi sicuramente. Dal titolo gia’ si capisce che si tratta di un libro anomalo… bizzarro: GLI (IN)(CREATI) – (IN) = sta per il contrario della parola che seguira’, es. (in)adatto, non e’ adatto, (in)fermo, non e’ fermo. (CREATI) = chi e’ stato creato. Quindi per analitica scomposizione deduttiva ne consegue che: chi legge il libro non guarda la foto creata dal creatore (dallo scrittore), ma crea quello che non e’ creato dal creatore. Perche’? Perche’ chi scrive non crea il libro, ma crea le creazioni di chi legge, perche’ non esiste un unico mondo oggettivo, ma tanti mondi soggettivi. Come dire un mondo di foto in negativo da sviluppare, in continuo mutamento evoluzionistico 🙂
2 aprile 2015 alle 20:05
Ecco il link all’intervista a Moresco.
2 aprile 2015 alle 20:58
Stefano, tra gli altri, annoveri Gaddis. In realtà, è di Gadda che dovremmo parlare. Aldo Busi e Antonio Moresco ci hanno liberato dai fantasmi di Carlo Emilio Gadda. Busi (parlando di sfondamento di io narrante e io letterario) cita Pasolini, e se lo fa, lo fa certamente a ragione. Ma credo che Busi e Moresco abbiano finalmente scagliato davanti ai nostri occhi il fatto che la letteratura, negli ultimi vent’anni, si sia allontanata da Gadda e Dario Fo, Calvino e Pasolini. E come? Dando voce all’Io. Questo è l’elemento di novità assoluto, e Busi e Moresco, lo rendono evidente: Busi con la sua riconosciuta maestria e il suo carisma; e Moresco con un romanzo giganteo. Autofiction non significa solamente Io, ma voce dell’Io. Perciò l’elemento di novità assoluto è dato dall’elaborazione di un linguaggio espressione dell’Io. Capisci che cosa fanno Antonio Moresco e Aldo Busi? Esprimere l’Io significa far traboccare l’alterità assoluta che ci abita. Altro che impasti di dialetto! Altro che purezza del linguaggio che dà impressioni allucinatorie! E Busi e Moresco (con Vacche amiche e Gli Increati) sono tra gli esiti più compiuti di quella corrente ormai pluriventennale che va sotto il nome di autofiction.
2 aprile 2015 alle 21:16
“ 28 marzo 1986 – Aldo Busi, Vita standard di un venditore provvisorio di collants, Mondadori, 1985. A. B. è molto preoccupato dell’espressività del lessico. Nonché della sintassi. Lui punta tutto sul « barocco » (vulgo: intorcinato) nella scrittura. Fa come i giornalisti la parodia dei titoli. Nasconde nei nomi dei personaggi l’immagine dei medesimi con una delicatezza da post-disneyano. Hemingueismo degli stenterelli. Uno stile faticoso: si sente che fa una gran fatica. Il lettore è disposto a fare altrettanto? Scrive: « deja vue ». E non è un refuso. È un trentenne. “.
2 aprile 2015 alle 21:23
“ 8 febbraio 1988 – Busi mi pare il primo scrittore completamente « televisivo »: non si fa vedere per essere letto, ma scrive per essere visto. (Di-ce « còllants », ma, in studio, non se ne accorge nessuno) “. [*]
[*] La s-formazione dello scrittore / 262 [Quello di prima era il 261]
2 aprile 2015 alle 21:25
C’è la famosa scena dove Nanni Moretti in”Caro Diario” va a vedere il famoso (??) film “henry pioggia di sangue”..ne esce depresso, e dice, “..eppure io avevo letto qualcosa di positivo su “Henry”..”…quindi va a casa del critico “famoso”(piangente,nel letto,sotto le coperte) rilegge alcune recensioni,e tra le altre,dice “..quando è iniziato tutto ciò?forse quando hai scritto “..quel dramma in cappelli e orpelli thailandese è un vero film cult”..(o qualcosa di simile,ecco,ndr) 😀 😀
Ordunque,quando leggo alcune recensioni ai libri di Moresco,l’effetto che mi fanno,è quello…
2 aprile 2015 alle 21:43
@marco candida
no,non ci siamo
Ogni tanto in occidente(più nelle culture mediterranee che non in quelle nordiche,dove si fa poca retorica,peraltro..)salta su qualcuno(scrittore) e con area ieratico-depressiva-millenarista si mette a rimescolare sui massimi sistemi facendo il solito polpettone(non dico lei,dico i libri di Moresco,poniamo)
Sa cosa sarebbe originale?che uno si mettesse fare libri dove tutto è quasi ottimista,dove tutto va quasi bene,dove tutto è quasi in primavera:se ci si pensa un attimo,far libri così,non è proprio facile..davvero non si verrebbe presi sul serio dalla letterarietà(o simil tale)eppure gente che ha vite serene e invidiabili,senza esser milairdario8o milionario in euro)c’è, esiste.
Non ricordo chi lo disse,ma ..far un libro dove i personaggi sono felci,e il mondo è felice,è dannatamente difficile! (ovviamente si dovrebbero cmq evitare retoriche troppo ovvie da baci perugina o da mulino bianco)
Per contro,con una retorica del tutto opposta,i materiali che rimescola e riutilizza moresco sono cmq abbastanza detectabili (ah non c’è nulla di male,la letteratura vive di suggestioni anche strausurate,ma nel caso di Moresco il risultato mi pare molto prevedibile..)
Se si pensa che alcuni,anche in francia,han”accusato”Houellebecq di far libri dove,nonostante i nomi cambino,i personaggi son più o meno sempre gli stessi, cosa si dovrebbe dire dei libri di Moresco allora?
2 aprile 2015 alle 22:33
(Vita standard di un venditore provvisorio di collant, etc).
3 aprile 2015 alle 02:46
” 29 febbraio 1988 – « Ossillato », dice il simpatico Busi. Dice anche « acrimonìa », ma nessuno si preoccupa. ” [*]
[*] La s-formazione dello scrittore / 263
3 aprile 2015 alle 07:19
Pare sensatissimo ciò che dice Daniele Muriano (dm):
Il tutto però si svuota quando si pretende che le lodi siano fatte “in modo piuttosto convincente”, con “buona fede”, da persone “di buone letture e di raffinati strumenti culturali”.
Per esempio, basta sostenere (e si può sempre sostenere qualcosa) che a lodare l’Adone di Giovan Battista Marino furono persone non in buona fede; che lo fecero in modo poco convincente; che non avevano alle spalle buone letture e raffinati strumenti culturali alla mano: e zac!, sùbito quell’opera, benché lodata da molti, non gode più del diritto di essere supposta bella. E che dire dei Lombardi alla prima crociata di Tommaso Grossi, lodati (con marchetta inserita addirittura nei Promessi sposi) nientepopodimenoché da Alessandro Manzoni? (Che a nessun’altra opera del suo tempo dedicò gesti simili).
Quanto al resto, il passaggio dal luogo comune “i gusti son gusti” all’idea della compatibilità degli immaginarii (io direi “immaginario”, piuttosto che “immaginazione”: ma intendo, mi pare, la stessa cosa che intende Daniele) è ovvio – come dice Daniele stesso – ma curiosamente spesso tralasciato.
3 aprile 2015 alle 10:10
Giulio, ho il sospetto che la questione sia un po’ più intellettualistica. Mi spiego. Posso condividere l’immaginario di Tommaso Pincio o quello di Valerio Evangelisti. Gli universi di questi, come altri autori fantascientifici, trovano un incastro nel mio immaginario che comprende un po’ di fisica, un po’ di fumetti, di conoscenze sci-fi. Ma difronte a opere come quella di Antonio Moresco la compatibilità non è tanto o solo d’immaginario, ma di visione complessiva della letteratura. Ecco perché dico che la questione è un po’ più intellettualistica. Cos’è, in soldoni, una visione della letteratura? E’ ciò che può fare, fino a dove la letteratura può spingersi. Antonio Moresco, così come James Joyce, come del resto Carmelo Bene, non chiedono alla letteratura soltanto massimalismo, ma addirittura onnipotenza. Affermando che la letteratura, ancor più delle scienze dure, della filosofia, della teologia stessa, possa essere quello strumento conoscitivo in grado di far chiaro su ciò che ancora ritenevamo chiuso alla nostra percezione. Discutendo con Carlo Mazza Galanti, sono andato a guardare quel che si dice nella bandella del romanzo stesso, cosa che non avevo ancora fatto. C’è scritto:”E’ un’opera che taglia e oltrepassa i nostri giacimenti narrativi, poetici, mitici, religiosi […] che ci trasporta in zone ritenute inaccessibili.”. Questo massimalismo ultraneo è la sfida che viene lanciata al lettore; e che il lettore deve decidere di raccogliere.
3 aprile 2015 alle 10:24
“ Mercoledì 14 luglio 2004 – Ho qui davanti un libro: Giulio Bollati, Memorie minime. Non l’ho ancora nemmeno sfogliato, però intanto rifletto un po’ su questa idea del « minimo ». L’ho perseguita anche io – vent’anni fa, ad esempio, scrissi un certo numero di Prose minime -, soprattutto, da almeno vent’anni, nel mio modo di vivere, così cauto, senile, rassegnato, ironico, « minimalista », a paragone del massimalismo « devastante » degli anni della mia giovinezza. Stamani invece penso che è tutta una balla. Lo penso dal punto di vista dello Zero. Rispetto a cui qualsiasi « minimo » è sempre troppo. Lo Zero: infinitamente, incommensurabilmente diverso dal « minimo ». Lo Zero: o prendere o lasciare. E basta con i giochini furbi. “ [*]
[*] La s-formazione dello scrittore / 264
3 aprile 2015 alle 11:44
Nell’ultimo post di MC sopra leggo “..ultraneo..”
Ultraneo???
3 aprile 2015 alle 12:32
Calzolari, “estraneo”, “intraneo”, “ultraneo”. Vuoi chiamarlo neologismo? Rispondo, visto che non l’ho ancora fatto, ai tuoi commenti precedenti. Gli Increati è un viaggio dantesco verso l’Assoluto. Mi pare dunque che sia ottimistico. E poi, il fatto che l’intera narrazione si situi in un oltremondo, non è già di per se stessa una visione ottimistica? Per quanto distopico è dato qualcosa che venga dopo. E se c’è qualcosa che viene dopo la morte, allora anche la speranza di qualcosa che venga dopo quello-che-viene-dopo-la-morte è possibile.
3 aprile 2015 alle 12:56
Scusate, qualcuno ha letto almeno il primo capitolo del libro?
Io l’ho fatto e non ci ho trovato niente di così inaccessibile. Anche il linguaggio è alquanto elementare. E la reiterazione di “vita nella morte” e “morte nella vita”, tenuta fino all’ossessione (e, suppongo, intenzionalmente) è assai meno ficcante della “legione dei morti” di Canetti o del “io non credea che morte tanta n’avesse disfatta”, che sbalzano il lettore nell’altrove in tre righe. Ma Moresco vuole capovolgere questa logica secondo la quale esite un dualismo vita/morte e una sequenzialità in cui la vita precede la morte (lo afferma lui stesso nell’intervista a Fahrenheit/Radio3) e per farlo, e convincere il lettore ad assumere questo punto di vista, usa il mezzo della reiterazione delle formule e della messa in gioco di un reggimento di personaggi che fa oscillare “telluricamente” tra la vita e la morte (o, come dice lui, tra “la morte nella vita” e “la vita nella morte”). Io non esprimo alcun giudizio su tutto questo, è troppo presto e poi: non ho letto il seguito. Ma, per il momento, né emozione estetica né sollecitazione di un interesse o sorpresa puramente “linguistica” mi han colto. Non mi tange molto il fatto che a (cercare di) parlare sia un “Io” piuttosto che un “Sé” (il quale parlerebbe inconsapevolmente e, probabilmente, lo fa, ma io non l’ho ancora sentito. E può essere limite mio).
@Ludavico: “ultraneo” è un conio o calco sul tipo di “terraneo” (della terra), “estraneo” (del fuori) ecc. Perciò: “ultraneo” = dell’oltre. A me sembra così, ma dipende dal fatto che sono un appassionato di giochi di parole.
3 aprile 2015 alle 13:09
…secondo la quale esite… volevo scrivere “esiste”, ovviamente!
3 aprile 2015 alle 13:18
come direbbe,che so,Corrado Augias: “….ma ultraneo è una parola italiana?c’è sul vocabolario?? ”
Ma si,sarà pure una parola che qualcuno usa,ma che noia sta cosa di far sempre i “modernissimi”
Quanto a sopra,vorrei ribadire di rivedere la famosa scena di “Caro Diario”(come gia detto di Nanni Moretti,ma dle lontano anno 1993,pensate)le due scene di cui dicevo sopra :eh si ,alcuni vezzi vengono da lontano nel tempo..
3 aprile 2015 alle 13:31
di nuovo,da sopra :
“”Affermando che la letteratura, ancor più delle scienze dure, della filosofia, della teologia stessa, possa essere quello strumento conoscitivo in grado di far chiaro su ciò che ancora ritenevamo chiuso alla nostra percezione.”
Secondo me (e probabilmente secondo molti):NO
Chiedo un attimo un intervento di giulio mozzi perchè non ho sottomano la sua intervista a Laura Lepri in un agile volume del 1997 di Panta-Scrittura Creativa, ma-se ricordo bene- si diceva qualcosa che pressapoco suonava come :
“velleità della letteratura di far opere mondo?quelle vanno dall uscita di Moby Dick all’ uscita del secondo volume de L’uomo senza qualità di Musil,dopo, almeno in europa ,è il silenzio-forse certe velleità le hanno ancora solo la finanza internazionale o la scienza, a certi livelli-ma la letteratura no”
( non ho il volume sottomano,quindi citando tra virgolette vado solo a memoria e conoscendo com’è pignolo Giulio mi scuso sin da ora se la frase era un filo diversa -a me par di ricordarla così,circa.
Ad ogni modo lo stesso Gm potrebbe aver oggi una visione un po diversa della cosa,ma ciò non toglie che quella considerazione sopra sia, nell economia del dibattito,interessante..)
3 aprile 2015 alle 13:35
Sopra intendo una intervista di Laura Lepri a Giulio Mozzi,non viceversa.
3 aprile 2015 alle 14:34
Deh, alla fine Gli increati l’ho comperato.
3 aprile 2015 alle 14:58
“ Venerdì 19 settembre 2008, Sull’Eurostar 9478 delle 14. 50, in attesa della partenza per Firenze – Prima, guardandomi intorno fra la folla della metropolitana, ho pensato che la città – la Grande Città? – è, in quanto tale, l’assoluta miseria. Poi, nella fila alla biglietteria della stazione, ascoltando l’ometto che concionava sulle vicende dell’Alitalia, sapeva tutto, di Cimoli, di Cipolletta, e anche di Craxi, di quando « vendette l’Alfa Romeo », ho pensato che è tutto inutile, perché la colpa è tutta del Peccato Originale. Come succede? È questione di un attimo, di una torsione improvvisa dell’anima: in un momento perdi tutto, diventi mortale, diventi un uomo, soltanto un povero uomo, dalla creatura divina, inattingibile, inviolabile che sei stato fino ad allora. Comincia la vita, anzi, la morte, il declino, lento, rovinoso dei giorni. Comincia il tempo, finisce il Tempo, la sua perfezione increata, la sua ineffata pienezza. “ [*]
[*] La s-formazione dello scrittore / 265
3 aprile 2015 alle 14:58
Ludovico: se sei Davide Calzolari, ti prego di confermarmelo con un’email dall’indirizzo di Davide.
Marco: va ben la distinzione tra “visione della letteratura” e “immaginario”. Direi che non sono due cose delle quali una contiene l’altra, ma due cose diverse (la “visione della letteratura” sarebbe “l’immaginario della letteratura”, suppongo).
Dopodiché: l’onnipotenza, o uno ce l’ha, o è un delirio. (Il che non impedisce di fare, eventualmente, ottima arte).
3 aprile 2015 alle 15:37
Bravo, Gian Marco. Poi, a turno, ce lo presti?
3 aprile 2015 alle 16:23
Dovrai aspettare che lo butti dalla finestra, perché io i libri non li impresto.
3 aprile 2015 alle 16:33
Be’, Giulio, credo tu abbia esteso parecchio la mia argomentazione. Sostengo che nel caso di un’opera lodata da molti (e tra quei molti, da lettori di buona reputazione, ben in grado di argomentare il giudizio) è necessario prendere in considerazione l’ipotesi che quell’opera sia – letta da quei lettori – effettualmente bella.
Dico prendere in considerazione l’ipotesi, non: trarne un pregiudizio.
E non è scritto – e mi sognerei mai di affermare – che questa sia, be’, una precondizione sine qua non. E non intendo il mio discorso nell’ottica di un qualche pregiudizio estetico, ho solo formulato – come dire – una cautela di tipo sociale.
Se tu mi dici, a esempio, che trovi bello un certo libro. Io lo leggo. E lo trovo mediocre. Io non penso che tu abbia sbagliato. Penso solo che la materia immaginativa che è venuta a contatto con quel libro, be’ non può essere la stessa. E allora non posso che far pace con quel libro: eviterò di pensare e di dire che è un libro sopravvalutato; eviterò di pensare pure che io non sono stato in grado di accogliere quella bellezza e dunque mi eviterò di dire, a difesa narcisistica, che quello è un libro sopravvalutato solo perché io (uno qualunque) non l’ho trovato così bello.
Naturalmente il discorso cambia se è il lettore di questa valle (qui, dove abito, esiste un solo lettore, a parte me ovviamente, che mi ritengo abbastanza lontano culturalmente e mentalmente dal luogo al punto di raccontarmi che abito altrove), il discorso cambia dicevo, se è il lettore di questa valle, il barista ipertonico affascinato da Fabio Volo, a consigliarmi un certo libro.
Per il suo bene, una volta letto, gli dirò che è un libro mediocre. E magari gli darò dei migliori consigli di lettura, etc.
Ecco. Non volevo dire più di questo, più di quanto attiene a un semplice “galateo dei lettori”, o ai principi di buona educazione tra buoni lettori.
Ne sono convinto, tanto che a me le cherelline letterarie mi lasciano senza fiato per quanto scoperti sono i meccanismi – di tipo territoriale, primitivo – che fanno scattare quel tipo di trappola.
E l’ho detto, una volta ancora; sono più ossessivo di un vecchio.
4 aprile 2015 alle 09:24
Giulio, quello che hai scritto fredda in tre parole forse secoli di pensiero. “O uno l’onnipotenza ce l’ha o è il delirio”. Delirio di onnipotenza. Certo. Poi aggiungi: “Ottima arte”. E mi viene in mente di dire questo. Mettere al servizio di “ottima arte” il delirio significa trasformarlo in un chaosmos controllato e significa che quel delirio, se diventa ottima arte, non è un delirio psicotico, ma dicente, significante. Questa è l’arte; questo il delirio che si fa arte. E certamente Gli Increati rientra in questa forma di arte. Va aggiunto che l’onnipotenza di cui facevo cenno nel commento precedente non riguarda l’autore. Non è l’onnipotenza dell’autore; ma è l’onnipotenza della letteratura. Ossia considerare la letteratura, nella sua qualità di strumento conoscitivo, capace di tutto. Chiederle di essere capace di tutto. Ora, ovviamente, la parola “onnipotenza” è una parola forte. Ma non deve realmente meravigliare se riferita alla letteratura. La letteratura ha familiarità, infatti, con parole forti come l’onnipotenza. Pensiamo solo al concetto di “onniscienza”, ad esempio. Ma pensiamo anche solo alla più elementare delle esperienze di narrazione. Bastano due parole: “Entrò Carla”, e con queste due parole chi scrive già prende un soggetto e gli fa compiere un’azione nel mondo. C’è qualcosa, a pensarci, di più ultraneo e titanico? In qualsiasi altra disciplina non c’è nulla del genere. La chimica. La fisica. La filosofia. Nessun chimico, fisico, filosofo, nessuno storico, antropologo o religioso si chinerebbe su un foglio di carta osando scrivere: “Entrò Carla” o qualsiasi altro affine sintagma.
4 aprile 2015 alle 10:06
Daniele, il giudizio di valore su un’opera è una “verità intersoggettiva”: per dirla facilmente, se in tanti trovano bella o brutta un’opera – quell’opera sarà bella o brutta. Il guaio è che esistono numerose “comunità”, che si distinguono proprio per i giudizi di valore che attribuiscono.
Marco: trovo bizzarra l’idea di personificare la letteratura.
4 aprile 2015 alle 10:07
“ Senza data [1981] – Negli anni Sessanta la ragazza Carla dormiva / e guai a svegliarla la ragazza Carla / negli anni Ottanta la ragazza Carla sta sempre / sveglia è un tipo sveglio la ragazza Carla / e parla parla parla parla parla parla parla. “ [*]
[*] La s-formazione dello scrittore / 266
4 aprile 2015 alle 10:37
Giulio, non ho capito. Ma va bene lo stesso!\
4 aprile 2015 alle 15:03
Forse chi afferma “la tal opera è brutta”, non può essere convinto che “il giudizio di valore su un’opera è una ‘verità intersoggettiva’”, o dovrebbe precisare “secondo me, sulla base del mio immaginario, o della mia immaginazione etc”. E non è una cosa di poco conto: l’affermazione “la tal opera è brutta” orienta e influenza, in misura del potere di chi afferma, la circolazione e dunque la lettura della tal opera.
Dato che tutti, ma proprio tutti abbiamo valutato in termini, per così dire, oggettivi un’opera, e abbiamo così orientato e influenzato la lettura di un testo all’interno della nostra piccola o grande cerchia di interlocutori, allora vuol dire che nessuno è in grado di seguire fino in fondo la logica dell’intersoggettività del valore etc. Dev’essere uno di quegli assunti che poi, per fini retorici o perché ci sono infinitamente scomodi, mettiamo da parte quando sentiamo la necessità di esprimere un giudizio convincente.
Ecco, questo mi sembra un bel rovello.
4 aprile 2015 alle 15:47
Marco: se “chiedi” qualcosa alla letteratura, se dici che la letteratura “ha familiarità”, eccetera, mi pare che la metti nel discorso come se fosse una persona. E la cosa mi sembra bizzarra.
Daniele: ma, a me non pare – in età adulta almeno – di aver mai valutato in termini oggettivi, e nemmeno per così dire, un’opera. Quando diciamo: “La tal opera è brutta”, mi pare che diciamo in breve (come si fa quasi sempre nella vita) ciò che per esteso si potrebbe dire: “La tal opera non mi ha interessato, non mi è piaciuta, non mi pare possa essere godibile”, eccetera.
A me peraltro non interessa il momento individuale; mi interessa quello sociale.
4 aprile 2015 alle 20:09
Giulio, “la tal opera è brutta” mi pare una formula che non lascia scampo a una relativizzazione qualsiasi. Se così fosse, non esisterebbero le dispute sul valore delle opere, perché l’affermazione di Tizio secondo cui “la tal opera è brutta” non contrasterebbe minimamente con l’affermazione di Caio: “la tal opera è bella”. Infatti, l’affermazione “la tal opera mi è piaciuta” non fa una sola scintilla coll’affermazione “la tal opera non mi è piaciuta”. Tizio e Caio non hanno più niente da dirsi, uno dei due può chiudere ritualmente il discorso dicendo: “eh, abbiamo gusti diversi”, o “ma sì, è una cosa soggettiva”.
Mi pare che funzioni così un po’ per tutto il resto. Che so, se dico “Marilyn Monroe era bruttissima” faccio un’affermazione discutibile.
4 aprile 2015 alle 20:21
Daniele: a parte che ogni affermazione è discutibile, provo a sciogliere l’equivoco – dovuto a mia troppa brevità. Quando diciamo “la tale opera è brutta”, secondo me, indipendentemente da ciò che intendiamo dire, diciamo che la tal opera non ci è piaciuta, non ci ha interessati ecc.
4 aprile 2015 alle 23:27
Sì, Giulio, per affermazione discutibile intendo un’affermazione contro cui parrebbe sensato argomentare.
E sì, d’accordo con te sul punto, naturale.
5 aprile 2015 alle 07:58
Comunque ci sono queste 90 pagine degli Increati, a cui rimandava RobySan, che insomma non mi sembrano un grande esempio di una prosa da scavo, da sovvertimento di stratificazioni, (ma Candida per es:Lo stesso linguaggio è un pezzo di lamiera divelto che viene calato sulle cose per fratturarle ancora di più.(??!))
E questa cosa poi del mondo (il mondo contemporaneo, l’occidente, il suo collasso) come mondo di morti mi sembra una cosa abbastanza banale e stucchevole. Poi sono morti anche gli altri, vivi morti e morti vivi. Ora certo qui si pone il problema grosso di un mondo in cui è in atto “l’autofagocitazione delle cellule”, “la divaricazione della specie”, che siamo a un passaggio epocale per cui accanto alla rappresentazione dello stravolgimento e del degrado c’è l’intento, credo, di indicare un Altrove, una Alterità, un oltremondo, la Verità misconosciuta. E in questo potrebbe esserci qualcosa del messaggio cristiano (solo se morirai vivrai, solo se perdi vinci, il mio regno non è di questo mondo) ma il messaggio cristiano ci parla di vivi, vivi di qua e ancora più vivi di là … Qua invece di qua o di là dal confine sempre zombi sono … Per cui viene da pensare a quel passo: lasciate che i morti seppelliscano i morti. In questo forse si attarda Moresco preso da una malattia storica (Nietzsche più o meno) che lo trascina nel buco nero di un passato, di un magma interiore che non lo molla …
Volevo fare varie osservazioni sul testo ma già non me le ricordo, però una, piccola, eccola: perché mai per vedere “dove andava a finire la vita dentro la morte e dove cominciava la morte dentro la vita” bisogna spingere “la testa” proprio “dentro una latrina nera”?
5 aprile 2015 alle 11:33
Cristian: perché Moresco è ossessionato dalla merda. A partire dal realismo francese, circa 1830, c’è nella letteratura occidentale la tendenza più o meno marcata ma costante, direi non annullabile né ignorabile, a dire tutto, a non escludere dalla riflessione letteraria nulla di ciò che l’esistenza ha anche di più triviale, di più privato e “melmoso”. Gli escrementi e i vari fluidi secreti dal corpo – urina, sperma, secrezioni vaginali varie (il sudore è stato sdoganato da tempo) – sono un po’ l’ultima frontiera di questa “onnicomprensione” in linea di principio corretta (perché escludere? in nome di cosa?). Il problema secondo me emerge quando gli autori, per motivi che possono essere biografico-personali (Moresco), di imitazione (Scarpa), di outrance pura e semplice (Parente), ne fanno una cifra stilistica dominante. Perché lì ci si può legittimamente domandare: perché soprattutto, e anzi quasi esclusivamente, questo? In fin dei conti al cesso ci si va mediamente una volta al giorno, e per pochi minuti, o no? Mi è piaciuto moltissimo il tuo commento. Finalmente un po’ di buon senso letterario. Anche se il buon senso, ahimé, culturalmente non ha corso …
5 aprile 2015 alle 14:48
Mi incuriosiscono i motivi “biografico-personali” per cui Moresco farebbe della merda e dei fluidi corporei “una cifra stilistica dominante”.
5 aprile 2015 alle 16:23
Moresco raggiunge il suo estremo dicibile nella terza parte dei Canti del Caos, quando ferma la freccia del tempo in un linguaggio verbale inedito, fatto di anteriori futuri ripetuti e presentizzati. Con gli increati non ne ha più bisogno e torna ad una sequenzialità di tono favolistico e spessore tragico che gira attorno al tema della morte, come nell’apprezzato spin-off “La lucina”. Aggiungo che non mi pare affatto una scrittura psicotica quanto piuttosto veterotestamentaria, per rimanere al tema religioso. Non col punto di vista di un maggiore (un profeta, un re, una figura mistica), tuttavia, ma di un popolano, un asino che si trova a riflettere sulla sua identità e la sua mortalità fra le botte da orbi ed i traumi (fisici e mentali) senza senso di una vita travagliata.
5 aprile 2015 alle 16:40
“ 4 maggio 1994 – « Io ringrazio il Signore, io finora ne ho preso soltanto 3 baionettate nelle spalle, 5 nervate nella testa che mi fece male 15 giorni, tre calci nel culo con stivali e battiture col fucile e diversi schiaffi nel viso ecc. » (Diario di guerra del granatiere Giuriati Giuseppe, 1915) “ [*]
[*] La s-formazione dello scrittore / 268
5 aprile 2015 alle 16:44
dm: hai ragione, sono stata colpevolmente sbrigativa, avrei dovuto scrivere “presumibilmente biografico-personali”, nel senso che non ne vedo altri. La mia impressione di lettrice (che prende molto sul serio Moresco) è che l’insistenza sui materiali fecali e secretivi in genere da parte di questo autore (per non parlare della questione dei buchi da cui tali materiali sgorgano) non sia del tutto spiegabile in termini di analisi letteraria ma rimandi a problemi di analisi tout court.
5 aprile 2015 alle 18:14
Lucia Astrobello, quando scrivi che sei stata “colpevolemente sbrigativa”, mi viene da dire che “colpevole” non sei tu, ma sono stato io ad approvare, in questa discussione, i tuoi commenti. Me ne scuso con i lettori di Vibrisse, i quali sono, comunque, in grado di distinguere la granella dei cereali dalla pula.
GiuseppeC, sottoscrivo i tuoi commenti, e ti ringrazio. Circa “la scrittura psicotica”, dicevo a Giulio Mozzi, che quella degli Increati non può essere (e non è) una scrittura psicotica. Dalla prosa bellissima trasbordano a getto continuo immagini, messaggi, significati.
5 aprile 2015 alle 18:45
marcocandida, non mi ero accorta che li avessi approvati. Noto io stessa, comunque, che stonano orribilmente nel concerto. Questione di cultura in senso molto lato. La mia, qui, proprio “non ci sta”, non è all’altezza. Mi ritiro immediatamente e volo via, come pula al vento. Buon proseguimento di discussione (che continuerò a seguire perché la trovo interessante e anche divertente, a volte, soprattutto nel senso della comicità non voluta).
5 aprile 2015 alle 20:21
Non mi sembra censurabile il commento di Lucia.
Però continuo a non capirci un accidente. Ad esempio, in che modo “l’insistenza sui materiali fecali e secretivi in genere da parte di questo autore (…) rimandi a problemi di analisi tout court”. Cioè siamo a quella fattispecie di discorsi in cui compaiono espressioni come “fase anale” e altri relitti psicanalitici, tra un sorso e l’altro di bourbon…?
5 aprile 2015 alle 21:36
Gli Increati è la terza parte di una pluridecennale trilogia. L’opera complessivamente s’innesta in quella corrente letteraria che si è avviata in seguito a un convegno dal titolo “Scrivere sul fronte occidentale” da cui è poi nato quel testo fondativo che è stato Kamikaze d’Occidente di Tiziano Scarpa. Angelo Guglielmi, in un articolo sull’Unità relativo al romanzo di Scarpa, si riferisce proprio a Giulio Mozzi, Tiziano Scarpa e Antonio Moresco per definire un nuova corrente letteraria. Come riassumerla in poche battute efficaci? Forse così: difronte a una realtà senza realtà ciò che rimane sono io. A questa corrente si sono aggiunti via via altri autori. Anche tra i giovani. Questi autori partono dall’Io, e i migliori tra essi riescono a dare una voce a questo Io. Certamente Tiziano Scarpa, in Kamikaze d’Occidente e altrove, elabora un linguaggio espressione di un Io/Alterità. Così Aldo Busi. Così il Mozzi dei migliori racconti. (Lo è anche in “Sono l’ultimo a scendere”?; non lo so, mi piacerebbe discuterne). Non so dire se Massimiliano Parente appartenga a questa corrente letteraria: non lo conosco. Walter Siti. Davide Bregola (La cultura enciclopedica dell’autodidatta). Anch’io ci sono dentro. Nei miei primi due, tre romanzi c’è l’Io e l’estrinsecazione di quest’Io/Alterità. Come avviene questa estrinsecazione? Attraverso, ripeto, l’elaborazione di un linguaggio. E ce ne sono tanti e tanti altri, ho detto solo quelli che conosco e ricordo. Lorenza Ronzano. Ora, che si presenti l’elemento escrementizio o quello vaginale, come rileva Lucia Astrobello, è in fondo solo una conseguenza se si tiene presente che l’Io, in queste opere, ha voce, espressione. La corporeità di Tiziano Scarpa (di Kamikaze d’Occidente) che c’entra con l’Io? C’entra se pensiamo a quel detto, ormai anzianotto, : “Io non ho un corpo. Io sono un corpo”. Se “io sono un corpo” allora “io = corpo”. Per esprimere l’Io più profondo dovrò prestare attenzione al corpo. E il “corpo”, ça va sans dire, si porta dietro elementi escrementizi, la questione del sesso, gli ombelichi e tutto ciò che diventa repertorio d’accusa nei confronti di ciò che è ed è stata questa corrente letteraria. Peraltro, negli Increati, questi elementi non mi paiono particolarmente persistenti. L’Io di questi autori nulla c’entra con la psicoanalisi. Non è l’Io di Dostoevskij e Kafka, di Proust. Non è l’Io di Moravia. Non l’Io di Giuseppe Berto. E nemmeno quello del grande Italo Svevo. E’ l’Io espressione di tutto ciò che è diverso dalla realtà senza realtà, virtuale, ideologica, favolistica.
5 aprile 2015 alle 21:12
No, niente fase anale e niente bourbon (ma perché poi il bourbon?). Io poi di psicologia del profondo non ne so proprio niente, però, piaccia o no, la psiche c’è, e Moresco potrà anche spalmare la voce autoriale o l’io narrante o quel che è sui suoi piani spazio-temporali distorti e renderla più indistinguibile possibile da quelli, ma chi scrive è sempre lui – anche se nelle varie interviste tende a avvalorare l’idea di essere piuttosto il veicolo di una rivelazione che arriva non si sa da dove e procede per triadi alla neoplatonica maniera, davvero, manca solo che salga sul tripode della Pizia. Quindi, se chi scrive è lui e se evidenzia un’innegabile predilezione, io direi una fissazione, per determinati temi, immagini, campi semantici la cui necessità letteraria io, ingenua lettrice, non riesco ad afferrare, allora io, ingenua lettrice, ne deduco che questa è una sua predilezione personale afferente alla sua psiche personale – al suo magma personale, tanto per usare un’espressione a lui cara – e non c’entra niente con la dimensione metafisico-escatologica per cui ce la vuole spacciare (sì, proprio, scatologica mi sembra la dimensione, altro che escatologica). Tutto qui. Poi, su Moresco si possono dire un sacco di cose, ma ricordo che questa particolare discussione è partita dal buco nero di una latrina.
5 aprile 2015 alle 21:28
marcocandida, ti suggerisco di proporre una legge che divida una volta per tutte i cereali dalla pula, ossia i fan di Moresco da chi ha dei dubbi, e condanni giustamente quest’ultimi al fuoco inestinguibile. P.S. La tua “recensione” non significa assolutamente nulla, a parte che de Gli increati non c’è nulla da dire.
5 aprile 2015 alle 23:14
Mi pare che a porre l’Io come l’unica cosa che rimane di fronte a una realtà senza realtà sia stato Descartes nella prima metà del Seicento; dopo di che questo io ha conosciuto la sua massima espressione col romanticismo prima di entrare in una grossa crisi fra Otto e Novecento. Ora marcocandida ci dice che è ricomparso nell’equazione io=corpo=orifizio. Non vorrei che fosse un po’ sbilanciato. Un po’ vuoto – per via degli orifizi voglio dire. Per quel che riguarda il rifiuto della realtà virtuale, faccio presente che l’ultima parte degli Incendiati è sostanzialmente un videogioco.
5 aprile 2015 alle 23:52
Mi sembra, Lucia, che per essere una “ingenua lettrice” ti lanci un po’ troppo, e finisci per fare la parte dell’ingenua critica. Ma non è così terribile, si può fare di peggio.
5 aprile 2015 alle 23:56
Ma il punto fondamentale, Lucia, non è l’affermazione di principio che ciò che rimane difronte alla realtà senza realtà è l’Io: questo, come fai giustamente notare, lo sappiamo dai tempi di Cartesio. Il punto fondamentale è l’elaborazione di un linguaggio espressione della Voce dell’Io. Ecco perché l’autobiografia di un calciatore e l’autobiografia di Aldo Busi non appartengono entrambi a quell’apice postmodernista che ho indicato col genere autofiction. Ecco perché esistono autori che più compiutamente rappresentano il genere postmodernista dell’autofiction di altri. Non ha importanza che l’ultima parte degli Incendiati di Antonio Moresco sia un videogioco, se io sono dentro quel videogioco. Non ha importanza che sia morto e da morto racconti di un oltremondo, se io sono morto e io racconto di quell’oltremondo – come avviene negli Increati. L’Io e la lingua dell’Io sono, per gli autori di questa corrente letteraria, uno strumento conoscitivo massimalista, onnipotente. Non per tutti. Per taluni, sì. Altri interpretano l’Io in modo più materialistico-minimalista. Ma Mozzi (uno degli esponenti di questa frazione materialistico-minimalista) nel raccontarci gli eventi minimi di Fiction o della Felicità Terrena o del Male Naturale fa diventare misteriosi gli oggetti della più banale quotidianità (questo lo aveva già rilevato Federico Fellini), e inventa un potente linguaggio che esprime l’Io/Alterità che lo abita. Infatti i personaggi di Mozzi deviano nell’iperrazionale o nella follia, nell’allucinazione. Non mi stupisce affatto che a una prima occhiata RobySan o Cristian considerino la prosa degli Increati non particolarmente complessa. Sì, a uno sguardo superficiale (una prima lettura, la prima novantina di pagine) può anche sembrare tutto normale: parole normali, costruzioni sintattiche normali. Ma dopo un po’ è impossibile non accorgersi che la “normale” comunicazione è scardinata e rimodellata.
6 aprile 2015 alle 05:46
L’articolo di Guglielmi citato da Marco Candida è qui.
Marco, scrivi:
Posto che la “corrente” esista: non per tutti, e in particolare non per me.
6 aprile 2015 alle 07:51
I motivi biografico-personali di cui Lucia è evidente che non ci interessano; ci interessa il fatto che Moresco punti escrementi umori latrine e li veda dove altri non li vedrebbero. E la domanda è che cosa questo significhi, perché poi la cosa è un aspetto della questione di fondo, cioè di come questo scrittore (qualunque scrittore) si pone di fronte al mondo in cui vive (in qualche modo è il discorso di Lodovico là dove ipotizzava la possibilità di scrivere storie in cui si è felici, è primavera e così via, in contrapposizione quindi a escrementi, sozze latrine eccetera). Di qui poi conseguono gli esiti artistici di un’opera (che poi è ciò che conta).
Lo scorso anno ho letto due libri : Genna, Fine impero e Falco, La gemella H. Tutti due ci parlano del negativo, del male, ma Genna dall’ alto, da un punto di vista celebrale, e semplicemente denigra il mondo che descrive, Falco invece dal basso, da un punto di vista immanente, e il mondo che rappresenta per così dire lo soffre. L’uno ha ancora un conto aperto col mondo che rappresenta, e lo odia, l’altro ne è fuori, non ha conti aperti e per così dire è in grado di amarlo. Il libro di Genna è brutto, quello di Falco è bello (molto).
Ora a me pare che Moresco stia su versante di Genna che i suoi conti col mondo non siano chiusi (artisticamente parlando) che manchi quella dimensione di distacco/compartecipazione che è condizione per esiti artistici convincenti. In questo senso escrementi latrine umori di cui si è detto oltre alla ipertrofia dell’ Io di cui mena vanto Candida mi sembrano due segnali significativi.
6 aprile 2015 alle 07:55
Grazie, dm, che si può fare di peggio lo vedo. Sicuramente sono un’ingenua critica perché non sono una critica di mestiere, ma semplicemente una che vuole capire perché una cosa che legge le piace o non le piace, o le piace in parte sì e in parte no, e lo faccio con i mezzi che ho. Certo che se il critico non ingenuo si caratterizza attraverso frasi del tipo “Il punto fondamentale è l’elaborazione di un linguaggio espressione della Voce dell’Io” mi sa che non andiamo molto in là, anche perché, e scusa se mi lancio, questo io o lo ridefiniamo in modo più che stringente, o finisce che si rivela per quello che è: una ridondante impostura; o più precisamente: una retorica impostura. E poi scusa, ammetto di essere ingenua, l’hai detto benissimo, l’hai colto al volo, l’ingenuità è la mia caratteristica principale, ma di fronte a frasi come “Ma dopo un po’ è impossibile non accorgersi che la “normale” comunicazione è scardinata e rimodellata”, per la miseria, mi sembra di sentire me stessa che in quinta spiego Rimbaud e il surrealismo. Questa roba c’è già stata, è di un vecchio che più vecchio non si può, è più vecchia di me – cosa che a suo tempo constatò un critico, di mestiere questa volta, e per nulla ingenuo, in occasione della pubblicazione della traduzione tedesca de Gli Esordi (Martin Ebel, questo il link: http://www.welt.de/print-welt/article166651/Fahre-fahre-fahre.htm )
Fra le altre cose, e dopo aver lodato quel che c’è da lodare, Ebel dice: Ma per molte pagine emana dagli “Esordi” il fascino di un’avanguardia onorevolmente invecchiata che rituffa vecchie ricette nell’acqua bollente cose fossero inesauribili bustine di tè. (Über weite Strecken aber geht von den “Aufbrüchen” der Charme einer Avantgarde aus, die in Ehren ergraut ist und die alten Rezepte neu aufbrüht, als seien sie ein unerschöpflicher Teebeutel.)
L’ingenuità consiste principalmente nell’introdursi in una comunità di linguaggio, la vostra, con un linguaggio diverso, il mio; questo è il motivo per cui mi ero sempre astenuta dal partecipare alle discussioni. Questa volta l’argomento (Moresco, che mi sta molto a cuore) e soprattutto la domanda di Cristian, mi hanno fatto dimenticare le opportune cautele e mi sono lanciata. Me ne scuso.
Quanto all’articolo di Guglielmi, è un po’ più sfumato di quello che lo fa marcocandida; Guglielmi dice che questi autori “si propongono” come nuova corrente letteraria, ma non mi pare che impartisca la sua benedizione, anzi direi che solleva un certo numero di perplessità, in particolare sul “testo fondativo” (mamma mia). Questo per la precisione.
6 aprile 2015 alle 08:21
come fossero inesauribili bustine di tè, scusate il refuso.
6 aprile 2015 alle 09:07
” Lunedì 6 aprile 2015 – Quello che penso stamani, che non è Pasqua ma Pasquetta, come dire una Pasqua più piccola, ma anche più leggera, meno impegnativa, più alla mano, più facile, più allegra, forse, è che Antonio Moresco doveva continuare a scrivere lettere, o comunque doveva continuare a pensarci su. Sul fatto che la letteratura è scrivere lettere, sul fatto che non si sa mai a chi siano indirizzate, sul fatto che non è mai detto che arrivino, causa Poste Italiane o altro, sul fatto che c’è chi, comunque, le lettere non le legge, sul fatto che c’è chi le legge ma non capisce quello che c’è scritto, sul fatto che c’è chi preferisce comunque comunicare de visu, sul fatto che anche chi le scrive spesso pensa che non c’è niente di più palloso che ricevere una lettera, sul fatto che ricevere una lettera fa sempre un po’ paura, cioè che una lettera è sempre un po’ “ minatoria “, sul fatto che, come si sa, di lettere se ne scrivono sempre meno, anche se, a pensarci, ad andare per strada, sull’autobus, in metropolitana, in ufficio, al cinema, al supermercato, la gente che scrive è sempre di più: con quelle dita magre, grasse, corte, lunghe, bianche, nere, veloci veloci, senza staccare gli occhi dal piccolo aggeggio. È tutto uno scrivere, uno scriversi, sono milioni, miliardi di parole che vanno di qua e di là, da Tizio a Caio, da Caia a Tizia, da Tizia a Sempronia: non si è mai scritto così tanto, ecco la verità. Del resto è anche vero che non si è mai mangiato così tanto, non si è mai cacato così tanto, non si è mai scopato così tanto, non si è mai nato, non si è mai morto così tanto come si nasce/si muore ora. Nel rotondo mondo. [*]
[*] La s-formazione dello scrittore / 269
6 aprile 2015 alle 09:32
Giulio Mozzi: quello che dici è valde bonum. In particolare penso che il paragrafo finale mi aiuterà a venire a capo del “caso Moresco”, autore che per me, si sarà capito, rappresenta un problema non da poco. Grazie.
6 aprile 2015 alle 09:01
Un mio criterio personale per valutare l’utilità critica di un testo che si voglia – ingenuamente o no… – critico, è questo:
– tante più sono le immagini, tanto meno il testo mi è utile;
– tanti più sono i richiami all’ineffabile, tanto meno il testo mi è utile;
– tante più sono le “parole multiuso”, tanto meno il testo mi è utile.
(Per “parole multiuso” intendo quelle il cui senso è, almeno nel contesto, così indeterminato da poter significare più o meno qualunque cosa).
Marco, nel tuo articolo trovo:
Eccetera.
A me questo gergo qui dice molto poco. Mi pare abbia un contenuto informativo piuttosto scarso. Certamente ha un contenuto emotivo piuttosto alto (Bartolomeo ti dava del “piazzista”, e lo intendo in questo senso).
Mi vien da dire che la “comunità di linguaggio”, per usare la formula impiegata da Lucia, presupposta dal tuo articolo sia… la “comunità dei moreschiani“. E l’esistenza stessa di questa “comunità” (perché mi pare proprio che esista) mi fa venire in mente un sospetto: il sospetto che laddove possono esistere “manierismi” (e le frasi che ho citate dal tuo articolo a me sembrano tali), vi sia all’origine una “maniera”.
E questo mi sento di dirlo, della scrittura di Moresco fino agli Increati (che non ho ancora aperto): che di “maniera” si tratta. Eventualmente, altissima maniera (il primo che osa parlar male del Tintoretto, lo fulmino – 🙂 )
6 aprile 2015 alle 10:20
Caro Marco, facciamo la pace. Io sono così, sono un po’ stronza, chi mi conosce sa che parto in quarta contro i mulini a vento e dopo me ne dispiace. Credo che io e te nella letteratura apprezziamo cose diverse e valutiamo il momento in modo diverso, ma questo cosa vuol dire? Se mi sono scaldata tanto nella discussione è proprio perché Moresco non mi lascia indifferente, anzi. Riguardo al tuo ultimo intervento dico solo due piccole cose: la prima è che la sensazione, fortissima, di déjà vu e di vecchio (che in letteratura non è il massimo, lo ammetterai) l’ho avuta quando ho letto Gli Esordi e prima di venire a conoscenza dell’articolo del critico tedesco. Poi mi ha fatto piacere vedere la mia impressione confermata da qualcuno di più autorevole di me. La seconda riguarda Ginsberg, Kerouac and company. Sono, casualmente, gli autori fra altri che mi venivano in mente quando parlavo, e discutevo, di Moresco. Solo che in me il riferimento era connotato assai meno positivamente. Ci trovo del Kerouac anche nel brano di inedito tuo che Moresco pubblica sul Primo Amore e che trovo interessante in come dice, più che in quello che dice.
Allora, io per me depongo le armi e ti abbraccio (sempre che non mi mandi a quel paese)
6 aprile 2015 alle 09:36
Lucia Astrobello, forse l’espressione dell’Io/Alterità potrà ricordarti il “Je est un autre” di Arthur Rimbaud. Forse l’affermazione che l’Io/Alterità è una voce libera da quella realtà che si vuole senza realtà, virtuale, cronachistica, una voce pura, potrà ricordarti il Kerouac di “Mexico City Blues” o il Ginsberg di “Juke Boxe all’Idrogeno”. D’altra parte senti che cosa scrive proprio Jack Kerouac nell’Introduzione al libretto “Poesie Beat” (pubblicato da Newton) e che si intitola “Le origini della gioia nella poesia”: “Questi nuovi poeti puri si confessano per la pura e semplice gioia di confessarsi. Sono dei BIMBI. Sono anche degli Omero bambini con la barba grigia che cantano per strada, CANTANO, BALLANO”. Ora, quando Kerouac scrive queste parole a noi italiani non viene forse in mente il “fanciullino” di Giovanni Pascoli? Allora vogliamo dire che Kerouac deve dire grazie a Pascoli per aver scritto “I santi buddhisti sono santi incomparabili” o “Ehi, voi spettatori di letture poetiche, ascoltate!”? Che Kerouac è Pascoli? No, semplicemente che le istanze di rinnovamento e svecchiamento si assomigliano: ma gli esiti sono totalmente differenti. I discorsi che facciamo sulla letteratura non sono la letteratura: e questi discorsi si muovono su polarità ripetitive, simili. Sono i discorsi sulla letteratura a essere vecchi e ridondanti: non la letteratura! Non mi stupisce affatto che Giulio Mozzi neghi l’esistenza della corrente letteraria dell’autofiction e che neghi di farne parte o averne fatto parte. E’ ovvio che sia così. Non abbiamo appena detto che l’espressione dell’Io/Alterità è necessariamente linguaggio di una cogitazione unica? Se è unica come fa ad essere ricompresa in una corrente letteraria? Io stesso mi sono incluso in questa corrente; ma so bene che questa è un’inclusione che opero a posteriori, sulla base di alcuni elementi comuni. Sono pronto a scommettere un milione di vecchie lire che quando Patrizia Patelli si è seduta davanti al computer per scrivere “Gli ultimi occhi di mia madre” non ha affatto pensato di scrivere qualcosa che rientrasse nella corrente letteraria autofiction, ma semplicemente ha cercato di dare forma ed esprimere le urla della sua anima. Gli Increati di Moresco presenta alcune radici di autofiction; ma è soprattutto l’opera conclusiva di una trilogia: e mi pare una grande opera conclusiva. Dove l’autore sceglie di far saltare ogni comunicazione facile. Tutto esplode. La verosimiglianza viene fatta fuori: un morto che ci parla dal continente dei morti, e per di più questo morto si chiama Antonio Moresco. Ma anche Lorenza Ronzano fa qualcosa di simile quando nell’incipit del suo romanzo “Zolfo” scrive: “Credo di essere morta un pomeriggio – saranno state le quattro o le cinque – in via Cavour. Credo fosse primavera, aprile o maggio…”. E come viene presentato nella bandella questo romanzo? Così: “Lorenza è sopravvissuta come mero involucro fisiologico alla propria morte interiore, avvenuta in una circostanza futile, mentre camminava in Via Cavour ad Alessandria…”. Grande opera conclusiva, dicevo, quella di Moresco, perché la comunicazione non è più possibile, è possibile solo dire la verità. E’ l’opera di un grande scrittore con una grande visione. Anche Umberto Eco (che nulla c’entra con questi discorsi) ha intitolato il suo ultimo romanzo “Numero Zero”. Come mai un Numero Uno ci consegna qualcosa con su scritto “Numero Zero”? Perché “Il cimitero di Praga” è un romanzo duro, disperato? Forse perché alla fine, dopo tanti vani tentativi di comunicare, non rimane che quello.
6 aprile 2015 alle 10:38
Beh, almeno adesso posso dire di capire meglio perchè Moresco, con tutto il rispetto, mi è estraneo.
Il mio ideale di letteratura è il teatro dei pupi: loro che declamano e si battono con fragore e il puparo dietro che li muove e fa tutte le voci, e, se possibile, i bambini davanti che si divertono.
La voce dell’IO (a parte il truismo che si scrive sempre e comunque di se stessi) mi piace solo sul registro comico-intellettuale – Montaigne, per dire.
6 aprile 2015 alle 11:33
Giulio, d’accordo. Però quello che ho scritto non si riferisce a un oggetto che si trova su Marte. Chi vuole può uscire e trovarlo nelle librerie. Sfogliarlo e farsi un’idea. Quanto ai manierismi, il genere di comunicazione di cui parli resta un privilegio. Forse un privilegio più diffuso rispetto a parecchi anni fa: ma pur sempre un privilegio. A volte è necessario l’elaborazione di una comunicazione obliqua se non si vuole soccombere a pestaggi, mangannellate, bullismi.
Lucia, non mi pemetterei mai di mandarti a quel paese. Piuttosto spero che “Lucia Astrobello” sia un nome vero. In questa discussione hanno partecipato molte persone di cui non si conosce la reale identità. Cioè persone che, almeno in questa discussione, rinunciano ad assumere la responsabilità delle loro affermazioni. E l’assunzione di responsabilità (Mozzi docet) è uno dei capisaldi di quella cosa vecchia e sorpassata che si chiama autofiction. Se è vecchia e sorpassata, come mai nessuno l’ha appresa?
Stefano, ti ringrazio molto di aver partecipato a questa discussione. Ma ti invito a considerare che nell’espressione da te usata “si scrive sempre e comunque di se stessi” quel “se stessi” è una terza persona singolare. Cioè, l’io viene oggettivato e se ne parla come di un altro soggetto. Non è veramente l’Io più ctonio, infero, scollegato ad avere parola. Sono terribile, vero? 😉
6 aprile 2015 alle 11:43
Marco, l’elenco di nomi ed opere che fai tu ha come radice Siti e non Moresco. L’autofiction è più facile, più cinica e più veloce dello sbudellamento moreschiano: occorre meno talento o, se preferisci, meno visione. Moreschiani possono essere forse Pecoraro e Vasta, se vogliamo fare questo giochino. Ciò detto, ad ognuno il suo. Ciao ed in bocca al lupo per le tue cose, stai andando bene!
6 aprile 2015 alle 13:03
Naaa, ho visto di peggio… Chi ha letto il mio romanzo conoscendomi bene sa che parlo sempre e comunque di me, anche attraverso personaggi che non potrebbero assomigliarmi di meno. Semplicemente, preferisco usare i pupi, seguendo una tradizione piuttosto antica e che risale almeno ad Omero (giusto per spararla un po’ grossa…)
6 aprile 2015 alle 12:34
Marco, scrivi:
Ma mi stupisco io, invece, perché non mi sono mai sognato di negare che esista una “corrente letteraria dell’autofiction”, né mi sono mai sognato di negare di “farne parte o averne fatto parte”. Nell’articolo al quale immagino tu faccia riferimento – questo – ho cercato di criticare la categoria dell’autofiction e ho proposto, per le opere fino a quel momento categorizzate come “autofiction”, una categoria diversamente definita. Questo non significa negare che quelle opere abbiano un’ “aria di famiglia” (cioè non significa negare che possano essere considerate parte di una “corrente”); e in quella “famiglia” di opere ho incluse anche le mie.
Scrivi poi:
Non sono sicuro di aver capito. Ho parlato di “manierismo”. Ma sospetto che quando dici “il genere di comunicazione di cui parli” tu intenda altro (sennò il senso non torna). Un testo “manieristico” non è un testo che comunica obliquamente: è un testo che comunica principalmente l’appartenenza o il riferimento a una “maniera”.
Qualcuno ha letto le Memorie postume di Bràs Cubas, di Machado de Assis, pubblicato nel 1880? (Io molti anni fa, avendo acquistato nell’edizione vecchia Bur, col titotlo Memorie dall’aldilà).
6 aprile 2015 alle 13:49
Io, prevedibilmente, e proprio nell’edizione grigia Bur…
6 aprile 2015 alle 14:33
Lucia: ti scusi con Marco perché ti sei “scaldata”. Ma meno male. Perché mi sembra che ai primi giri stavi un po’ freddina. Come dicono i giovani, “si deve carburare”. È scaldandosi che vengono le idee – e le discussioni – migliori, a parer mio. È proprio una questione di temperatura.
E con questa considerazione torno al mio mondo.
Giuseppe: negli ultimi tuoi interventi trovo un che di risuonante. Credo di avere qualche particella di immaginario in comune…
6 aprile 2015 alle 21:17
GiuseppeC, ancora una volta ti do ragione. Gli Increati è romanzo d’oltrepassamento. E’ una distopia fantascientifica, ma va molto oltre la semplice distopia fantascientifica. E’ autoficition, ma va molto oltre la semplice autofiction. E’, in tre parole, un romanzo inclassificabile.
Giulio, hai scritto le parole “Posto che la “corrente” esista: non per tutti, e in particolare non per me”. Poi scrivi: “Ma mi stupisco io, invece, perché non mi sono mai sognato di negare che esista una “corrente letteraria dell’autofiction”, né mi sono mai sognato di negare di “farne parte o averne fatto parte”. Mi pare che ti sia contraddetto. Quanto al resto, mi pare di avere risposto dicendoti che questa recensione si riferisce non a un oggetto che si trova su Marte, ma nelle librerie. Accusarmi di aver usato toni da “piazzista” è un’accusa insussistente per la banale ragione che un romanzo non si acquista a scatola chiusa. E’ negli scaffali delle librerie. Si può aprire e sfogliare. Farsi un’idea. Non ho voluto bidonare nessuno.
E a questo proposito devo difendermi anche dall’ennesima rasoiata gratuita. Lucia Astrobello ha fatto riferimento a un mio testo inedito pubblicato sul Primo amore. Quel testo s’intitola “Il volto del dissesto” e parla della città di Alessandria e del dissesto economico. Strade spaccate. Negozi chiusi. Vetrate mezze rotte. Leggendo Gli Increati capisco bene perché Moresco lo abbia apprezzato. La recensione l’ho scritta perché mi andava di farlo, perché questo romanzo, be’, è una gran figata di romanzo, e ho voluto parlarne. Fosse stato brutto, non l’avrei scritta. Moresco non ha bisogno del mio sostegno, anzi.
7 aprile 2015 alle 04:01
Marco, la “corrente” definita come la definisci tu,
non è la “corrente” dell’autofiction, secondo me. Più esattamente: mi pare che il tratto distintivo che tu indichi sia sostanzialmente estraneo a a quel genere di opere che vengono generalmente collocate nella categoria “autofiction”. E’ vero che, da Doubrovsky in qua, la “autofiction” è stata definita e ridefinita più volte: ma sempre – per la bibliografia che conosco (Philippe Gasparini, Vincent Colonna, Claude Burgelin, Philippe Vilain, più i partecipanti Colloque de Cerisy del 2008; in Italia Walter Siti, che è tra i pochi ad aver teorizzato quello che fa, e Lorenzo Marchese) sulla base di questioni narrative, non di lingua; e comunque non mi pare di avervi trovato tracce del “massimalismo” e dell’ “onnipotentismo” di cui parli tu.
Darti del “piazzista” è un modo scherzoso per farti notare un eccesso d’enfasi. Non è un’accusa di disonestà. Basta controllare sul dizionario: “Piazzista: Agente di commercio, commesso viaggiatore che propaganda e piazza vari prodotti per conto di una o più ditte”.
Non credo che Lucia Astrobello volesse sostenere che Moresco ha bisogno del tuo sostegno. Semmai, se uno proprio volesse, potrebbe sostenere il contrario.In realtà lei non ha fatto né questo né quello. Non vi è nessuna allusione, nel suo discorso, a un eventuale tuo interesse nello scrivere l’articolo che hai scritto.
Con ciò mi fermo, perché mi pare che ormai, Marco, il tuo agonismo renda inutile qualunque discussione.
7 aprile 2015 alle 05:30
Agonismo? Ma li hai letti i commenti? 108 commenti da parte di persone che hanno attaccato Moresco senza nemmeno aver letto il libro. Poi si sono messi a punzecchiare anche me. Adesso parliamo di necessità di sostegno. Sempre la stessa solfa. Vale sempre la regola elementare, Giulio, di leggere un libro prima di parlarne. Ma almeno uno di voi, il libro, lo ha letto?
I nodi della recensione erano a) il tentativo di esprimere l’indicibile attraverso la parola. Si sarebbe potuto dire qualcosa sull’argomento. b) Definizioni varie di “postmodernismo”, “autofiction” e cosa può eventualmente essere il superamento di “postmodernismo” e “autofiction” – e certamente Gli Increati è un superamento di qualsiasi categoria. Sennò avrei parlato di Natalino Balasso: non di Joyce. c) Discussione del romanzo in oggetto, magari. Varie ed eventuali. Certo che ridurre tutto a “è di mio gradimento” o “ormai non lo è a priori” o “usi una retorica da piazzista per dirci di leggere il libro” non è discutere, ma giudicare, dare i voti.
7 aprile 2015 alle 08:17
Marco, nessuna intenzione di rasoiare nessuno, credimi; era solo un tentativo di farti un complimento alla mia parca maniera – parca ma sincera. Come succede spesso ai timidi, ho ottenuto l’effetto contrario.
Ma veniamo alle cose serie. Da ieri, diciamo, la coscienza mi duole un po’, un fastidio a tratti anche molto fastidioso per un narciso, perché mi chiedo se le due o tre cose che ho detto hanno un senso o se, soprattutto alla luce dei vostri commenti, non si sono rivelate piuttosto una caterva di scemenze. Di sicuro ho imparato delle cose (cioè: mi sembra di riuscire a vedere le cose diversamente) e di questo ringrazio tutti e in particolare Marco e Giulio. Poi stamattina la lettura dello “sfogo” di Marco mi ha spinto a cercare di definire per bene, finalmente, il sentimento di attrazione-repulsione nei confronti di Moresco – sentimento che non sono l’unica a provare, tant’è che mi ero sentita molto solidale col primo intervento di Gian Marco Griffi:
Che poi, però, il libro l’ha comprato, quindi almeno una conversione, Marco, l’hai operata!
Moresco ha inventato (nel senso migliore, etimologico del termine) un dispositivo (anche qui in senso assolutamente positivo) di distorsione della realtà quale viene ingenuamente e per abitudine detta e percepita, che, letteralmente, incanta. Moresco maneggia questo dispositivo a meraviglia suscitando nel lettore ammirazione e rapimento (tutto da intendere letteralmente, senza nessuna ironia). Il problema – perché un problema c’è, altrimenti Moresco sarebbe un dio, ma a mio avviso un dio non è, gli manca appunto qualcosa, il fatto però è che lui crede fermamente di essere un dio, letterariamente parlando, e questo lo rende poco simpatico a molti, me compresa; il problema dicevo è che questo geniale dispositivo mostra sempre la stessa scena. È come quando uno va al cinema a vedere un bel film, un film d’autore; però poi il film è un po’ noiosetto, un po’ lento, e allora si addormenta; e quando si sveglia e apre gli occhi vede l’identica scena – ben fatta, per l’amor del cielo, una meraviglia, ma sostanzialmente la stessa di prima; si riaddormenta e così via.
Io non ho letto tutto Moresco, però ne ho letto una fetta consistente; può darsi che il Moresco migliore si trovi proprio in quello che non ho lento, ma mi sembra poco probabile. Allora, stando a quello che ho letto, che comunque è parecchio, Moresco abolisce il movimento: lo accelera, lo rallenta, lo scompone, tutto quello che volete; ma di fatto lo abolisce: il movimento fisico e il movimento, come dire, che costituisce il cambiamento delle cose nel tempo Secondo me questo, per una cosa che si qualifica romanzo, è esiziale. Perché poi, oltre che non succede niente oltre al susseguirsi di scene che funzionano tutte allo stesso modo, ma va be’, aspettarsi che succeda qualcosa è da pivelli, Moresco non “spiega” niente, intendendo “spiegare” in ogni possibile artistica accezione; perché in effetti Moresco, di spiegare, non è capace. Dice Marco che non si tratta di questo, che non si tratta di comunicare (ma io veramente il verbo comunicare non lo userei neanche), che si tratta di mostrare la Verità. E be’ ma caro mio, a questo punto, o si sta con Cristo o sta con Pilato, e la letteratura, diversamente dal Vangelo, non può pretendere che si stia con Cristo a prescindere, cioè che io stia con qualcuno soltanto perché ha la pretesa, per me insufficientemente fondata, di mostrarmi la Verità. (Io poi dei due sarei portata a stare con Pilato, che mi sembra, al pari di molti nella Bibbia, uno ingiustamente calunniato). Da qualche parte Marco fa il paragone con un trittico, preferendolo al termine “trilogia”. Ci prende proprio, esatto direi. Soltanto che un romanzo non è un quadro, la fruizione, se non la riflessione, è diversa: io un quadro lo vedo tutto in un colpo, con un’unica occhiata (poi analizzo, rifletto, tutto quello che vuoi). In un romanzo invece devo procedere pagina per pagina. Devo procedere. È questo secondo me che manca a Moresco – e sottolineo il secondo me. E sempre secondo me le due cose sono connesse, cioè, la grande capacita e quella che per me è un’incapacità sono la seconda una conseguenza della prima.
7 aprile 2015 alle 10:45
Giulio, quando uso la categoria “massimalismo” non la uso a sproposito. Gli Increati è un viaggio in un oltremondo dove il protagonista (che coincide con l’autore dell’opera) incontra e si confronta via via con vari personaggi importanti: Che Guevara, Maria Callas, Lenin, Kennedy e molti altri. Qui non c’è esperienza minimalista. Il protagonista nell’oltremondo non incontra solo persone importanti della sua vita, ma persone importanti nella vita di tutti: persone che hanno contribuito a dare una direzione, una forma, alla vita di ciascuno. Fermi, però! Il romanzo è romanzo d’oltrepassamento. Perciò non è solo “massimalista”. Contiene anche esperienze minime. Come nel capitolo intitolato “La messa dei tracimati” dove il narratore si sofferma sulla sua esperienza in seminario. Che guarda caso è un’esperienza che l’Antonio Moresco autore ha avuto. Dunque mi par bene che si possa parlare anche di autofiction. Non mi pare che Dante parli della sua vita personale nella Commedia, se non con quell’accenno inziale, quando dice che a trentacinque anni si sentiva un po’ disorientato. Moresco sì. Certo è un’autofinzione che oltrepassa se stessa. Certo non è l’autofiction postulata da Walter Siti. Né propriamente quella di Lorenzo Marchese – lo conosco il libro, Giulio, dove si parla anche di te. Ma per offrire coordinate di massima, non ci allontaniamo molto dalla verità se usiamo questa categoria. Quanto al fatto che quando si teorizza l’autofiction non si parla di un linguaggio specifico, be’, questo forse accade perché non esiste un linguaggio specifico comune dell’autofiction. Ognuno elabora il suo. Non è il linguaggio delle merci e televisionizzato assunto da Aldo Nove. Non è il multilinguismo dialettale gaddiano. Non è il linguaggio intimista tondelliano. Non è il linguaggio minimalista carveriano. Però c’è, e invito Lorenzo Marchese o qualsiasi altro studioso, a rivedere la questione in questi termini, posto che ancora non l’abbia fatto.
7 aprile 2015 alle 11:02
Visto che sono stato invitato, vorrei precisare meglio la mia posizione sull’autofiction e poi defilarmi. Ho letto “Gli increati”, il mio giudizio e la mia espressione non coincidono con quelli di Marco Candida, ma apprezzo molto l’impegno e la passione che ci sta mettendo a discutere con tutti.
Non è di questo che voglio parlare, ma è dagli Increati che vorrei partire, e proprio dal parallelismo con Dante, cui avevo pensato anche io: mi sembra in effetti che Moresco guardi con insistenza al modello dantesco, dove l’esperienza biografica viene inverata e assume valore universale tramite un confronto con una varia umanità (per Dante, calata in una dimensione trascendente; per Moresco, “tracimata” nel suo misticismo immanente). In questo senso, parlare della propria vita personale (Dante lo fa continuamente, però, fra i primi nella letteratura romanza: Cacciaguida, Ciacco, il mio bel San Giovanni, Beatrice …) diviene uno strumento per un racconto esemplare: il proprio personaggio autobiografico compare all’interno di un epica dove i confini fra vero e falso si annullano, dove operare delle distinzioni non è il modo giusto per recepire il testo: Vincent Colonna, pensando a Dante, parlava di autofabulation, autofabulazione. Mi sembra un buon termine.
Nell’indistinzione, su cui poggia d’altronde tutto il sistema di Moresco, sta il criterio per distinguere l’autofiction: l’autore di autofiction stabilisce per il lettore delle zone di verità e delle parti di menzogna circa la sua autobiografia, e poi mira a confondere le acque. In Dante, e anche in Moresco, non c’è nulla di ciò: Moresco non mira a farci fare scremature, non vuole instillare dubbi ermeneutici sulla falsità di certe sezioni della sua biografia, e in questo la sua operazione è molto diversa da quella di Siti, che dichiara di mentire e non dice dove. O diversa anche da Ellis, che gioca molto sull’ambiguità interpretativa dei suoi orrori amletico-fantastici alla Stephen King in “Lunar Park”. Si tratta, per l’autofiction, di questioni di postura e di atteggiamento aletico (di verità), e il linguaggio e lo stile non hanno un peso determinante, concordo con Marco.
7 aprile 2015 alle 11:11
Per farmi perdonare proverò a leggerlo, ma dato che al momento sono nelle strette lo farò prendere dalla biblioteca, anche se ci vorranno un paio di mesi.
7 aprile 2015 alle 11:49
Daniele, anche a te buon proseguimento con le tue cose letterarie, hai un punto di vista eccentrico che potrebbe risultare originale nei libri che scriverai. Io come autore sono molto più innocuo che come commentatore, un meccanicista che ignora il perturbante, quindi assolutamente noioso. Ciao. Giuseppe.
7 aprile 2015 alle 12:08
“ Giovedì 16 maggio 2002 – « LES ECRITURES DU MOI – Les écrivains ne tombent pas si facilement le masque. L’autobiographie est un genre littéraire qui a longtemps inspiré méfiance ou mépris. Bien après saint Augustin, Montaigne et Pascal, qui ont parlé de leur moi sans pour autant livrer de véritables autobiographies, il a fallu attendre Rousseau pour qu’un écrivain ose se révéler dans son intimité et ses secrets. Ses Confessions ne manquèrent pas de choquer. En réaction se développa un autre modèle d’écriture de soi dans lequel l’auteur brouille les cartes, pratique un subtil dosage de mensonge et de vérité, et remanie le matériau de sa propre vie. L’ultime avatar de cette pratique est l’autofiction, une “ mise en fiction de la vie personnelle “… » («Le magazine littéraire», maggio 2002) “ [*]
[*] La s-formazione dello scrittore / 270
7 aprile 2015 alle 12:32
Marco, se sono 108 i “commenti da parte di persone che hanno attaccato Moresco senza nemmeno aver letto il libro”, allora anche i tuoi commenti attaccano Moresco – e tu non hai letto il libro. Suvvia. Questo trasformare gli interlocutori in avversari, questo esagerare la numerosità degli attacchi, eccetera, è esattamente ciò che intendevo nominare con la parola “agonismo”.
Quanto ai punti:
a) “il tentativo di esprimere l’indicibile attraverso la parola”. Ciò che non si può dire, non si può dire. C’è altro da dire? A me pare di no. Sicuramente esiste una retorica dell’ineffabile (che per esempio tu, Marco, usi qui abbondantemente).
b) “Definizioni varie di ‘postmodernismo’, ‘autofiction’ e cosa può eventualmente essere il superamento di ‘postmodernismo’ e ‘autofiction’ – e certamente Gli Increati è un superamento di qualsiasi categoria”. Che “Gli increati” sia “un superamento di qualsiasi categoria” è cosa che va dimostrata; non basta dichiararla con abbondanza di retorica. Che sia necessario, o auspicabile, “superare” postmodernismo e autofiction, è cosa che va argomentata. Quanto alle definizioni: il guaio è che il punto di partenza da te offerto nell’articolo,
è del tutto inutilizzabile: la prima frase mi pare non dia materia al ragionamento (non capisco cosa voglia dire “non-linguismo”, e in nessun’opera sul postmodernismo mi pare di aver trovato nulla del genere; idem per “linguaggio scollegato”), la seconda frase è un’interpretazione storica che mi pare piuttosto azzardata. Purtroppo, non vedo come si possa far rientrare “Gli increati” nella categoria dell’autofiction quale il mondo la conosce: di questa categoria tu fai un uso che semplicemente non capisco.
c) “Discussione del romanzo in oggetto, magari”. No, impossibile. Impossibile a partire da un articolo come il tuo, per la ragione che dicevo sopra.
7 aprile 2015 alle 12:52
Ebbene, sto leggendo Gli increati, e grazie alla recensione e a tutto il cinema fatto nei commenti, sono molto oltre pagina 20.
Più che a Dante penso a Grim Fandango, ma senza ironia.
E anche un po’ all’Innominabile, ma senza Beckett.
Questo non significa ‘attaccare’ Moresco, né ‘attaccare’ Marco Candida.
Marco, spero sia chiaro.
Significa solo che a me, i cetrioli, vendimeli come vuoi, cucinameli come vuoi, impiattameli come a Masterchef, mi faranno sempre schifo, pur avendo – probabilmente – proprietà nutrizionali notevolissime.
Certo, uno studioso analizzerebbe i perché e i percome di questa repulsione, ma io l’ultima cosa che ho voglia è spiegare perché una cosa che non mi piace non mi piace.
Senza offesa per nessuno.
7 aprile 2015 alle 13:19
Caro Stefano, oppure potresti organizzare una presentazione. Immagino l’Ufficio Stampa non avrà problemi a inviartene una copia gratis.
Giulio, Lorenzo Marchese nel rispondere scrive “(per Dante, calata in una dimensione trascendente; per Moresco, “tracimata” nel suo misticismo immanente)”. Misticismo. Ecco che torna questa parola. E quando diciamo “misticismo” diciamo “esperienza dell’ineffabile”. Ma voglio anche proporti uno di quegli esercizi simili a quelli che abbiamo fatto in passato nei tuoi laboratori di scrittura. Sai bene a cosa alludo. “Passeggiate per strada osservando solo cose di colore rosso”. “Fate caso solo ai rumori acuti di questa stanza”. Orientare un senso selezionando un particolare. Ora, l’esercizio che ti propongo è questo. Prova a descrivere un libro ponendoti un limite: non puoi fare diretto riferimento al libro stesso, mai. Ora, una delle soluzioni che vengono in mente più facilmente è tentare di far capire al lettore che cos’è quel libro attraverso delle immagini, dei paragoni con altre cose. Macigni. Lamiere divelte. Schegge impazzite. Trottole ballerine. Tu potresti dirmi: “Ma perché farlo, se il libro lo hai?”. Perché il libro è fatto di una materia incandescente. E’ il tentativo di parlare dell’ineffabile. E’ un’esperienza irripetibile. Se la ripetessi, hic et nunc, la depaupererei. Caro Giulio, prova a leggerlo il libro. Non se ne potrà parlare in termini “normali”.
Per quanto riguarda la b), ma d’accordo. Ma questo non è uno studio biblico sul libro di Moresco. E’ solo un po’ di catechismo. Un po’ di catechismo. E comunque ho cercato di giustificare, nei commenti, perché ho parlato di autofiction. E invito gli studiosi di autofiction a considerare anche questo punto di vista.
Per ciò che concerne il punto “3” non chiedo che si parli del romanzo. Ma dopo un centinaio di commenti, di persone che vanno a colpo sicuro, uno spirito semplice dice: “Ma per parlare così a colpo sicuro, avete letto il libro?”
Grazie a tutti!
7 aprile 2015 alle 13:38
Marco: che si possa fare esperienza di cose che non si possono dire, non ne dubito. Però, appunto, non si possono dire.
Se la regola dell’esercizio era: “Prova a descrivere un libro ponendoti un limite: non puoi fare diretto riferimento al libro stesso, mai”, direi che non hai fallito. E quindi aveva ragione Bart a darti del “piazzista”: il piazzista bravo non parla mai del prodotto.
Invece di dire “un centinaio di commenti” (quindici dei quali tuoi), si potrebbe dire: poche persone che discutono (tu, Lucia, Daniele, Cristian, Roby, Gian Marco, Stefano, Giuseppe, Lorenzo – non conto Acabarra, che vive in un mondo tutto suo). Non riempiremmo la sala piccola della pizzeria qui dell’angolo.
7 aprile 2015 alle 14:07
Più che Dante a me veniva in mente Gustave Dorè che illustra Dante
7 aprile 2015 alle 14:13
“ Lunedì 7 aprile 2003 – L’imperialismo estetico: o quante belle foto, madama Dorè. “ [*]
[*] La s-formazione dello scrittore / 271
7 aprile 2015 alle 14:16
Mi permetto solo una piccola chiosa dantesca, ammettendo che non ho letto Moresco, e quindi non so. Parlare di misticismo in Dante è quanto meno discutibile. La Commedia non è un’opera mistica, non ha nulla della mistica medioevale o di quella successiva. Dante vuole conoscere dio tramite l’intelletto e il finale paradisiaco è proprio l’ammissione di questa sconfitta, tanto che si potrebbe parlare della Commedia come scrittura “ascetica”, cioé il raggiungimento di dio tramite mezzi “conoscitivi” razionali – nel caso di Dante la scrittura.
L’ineffabilità in Dante è quasi sempre usata, almeno mi pare, per dire cosa non è la Commedia, ovvero non è un testo mistico, e lo sforzo finale di Dante nel descrivere dio e la sua visione è la cosa più lontana dalla mistica (tipo di jacopone) che si potesse fare.
d.
7 aprile 2015 alle 14:20
Perfettamente d’accordo con Demetrio.
7 aprile 2015 alle 14:33
@demetrio
per parte mia, ho parlato della “dimensione trascendente” di Dante, e non di misticismo per lui.
7 aprile 2015 alle 17:33
L’accostamento a Grim Fandango (un videogioco in forma di avventura grafica per computer, del 1998) è corretto e la dice lunga su quanto la mitopoiesi viaggi oggi più redditiziamente su media diversi dal testo scritto. Resta allora lo specifico letterario e forse Gli Increati non è il libro più rappresentativo di Moresco, dal punto di vista dello stile e del linguaggio. Potrebbe però diventare un libro più popolare, rispetto ai suoi precedenti.
7 aprile 2015 alle 17:36
“ Domenica 12 gennaio 2014 – « Cassa di risognanza »: di tutto l’affannoso chiacchierare dei due autori ospiti da Fabio Fazio – David Grossman e Antonio Moresco – l’unica cosa bella la sento dire dal traduttore simultaneo. Lode al traduttore ignoto. Riusciranno i nostri scrittori a vendere i libri che sono venuti a presentarci etc.? Riusciranno… riusciranno… “ [*]
[*] La s-formazione dello scrittore / 272
7 aprile 2015 alle 20:44
Lorenzo Marchese, grazie per un intervento così bello. Vorrei fare una domanda.
Scrive: ” l’autore di autofiction stabilisce per il lettore delle zone di verità e delle parti di menzogna circa la sua autobiografia, e poi mira a confondere le acque. In Dante, e anche in Moresco, non c’è nulla di ciò: Moresco non mira a farci fare scremature, non vuole instillare dubbi ermeneutici sulla falsità di certe sezioni della sua biografia, e in questo la sua operazione è molto diversa da quella di Siti, che dichiara di mentire e non dice dove”.
Ecco la domanda: come facciamo a stabilire quando l’autore racconta la verità e quando dice menzogne? Se affermo: “Adesso dico la verità. Ieri ho letto trenta pagine de L’uomo senza qualità di Robert Musil” o se affermo: “Adesso dico una bugia. Ho appena finito di leggere Don Chisciotte di Cervantes” , il lettore come fa a verificare la veridicità delle mie affermazioni?
Giulio, Bart mi ha dato del “piazzista” riferendosi all’ultimo paragrafo, dove ho peccato, secondo lui, di eccessiva enfasi. Tu hai esteso. Eppure, il consiglio è quello giusto. Va letto un poco per volta, Gli Increati.
Demetrio, grazie dell’intervento. Grazie anche della segnalazione sui social network.
Lucia Astrobello, negli Increati c’è un atroce e dolcissimo capitolo che si intitola “Santa Lucia”.
7 aprile 2015 alle 21:07
La risposta alla domanda di Marco Candida sarà un po’ lunga e noiosa, lo dico per preavvisare. Dopo questa, se ci sono altre curiosità, può scrivermi in privato, non vorrei rubare spazio all’oggetto della discussione con le mie cose.
***
Grazie. La sua stessa domanda me la sono posta io: come facciamo a stabilire quando si mente e quando si dice la verità nei testi? Direi che in linea di massima è impossibile verificare la veridicità esatta delle affermazioni di un autore, e che il crinale è proprio la postura. Mentre nell’autobiografia moderna (quella che segue la linea di Rousseau, e non solo) l’autore si prende la licenza di travisare e mentire ma non ce lo fa sapere – e dunque una verifica della veridicità del dettato è più piana – nell’autofiction il gioco si complica.
Io, per comodità interpretativa, ho diviso il campo fra due tendenze di verità nell’autofiction contemporanea: autofiction tendenzialmente veridiche e autofiction tendenzialmente falsidiche. Ovviamente non vanno considerati blocchi di granito, ma zone del discorso che possono intersecarsi e applicarsi con le dovute singolarità.
L’autofiction tendenzialmente falsidica è quella, e.g. Siti, in cui un autore dichiara a bella posta di star mentendo in un certo passaggio, di aver inventato qualcosa o forse tutto, mentre racconta cose improbabili, forse un po’ inverosimili, ma niente affatto impossibili. Il problema della ricezione di questa strategia discorsiva è quello che insegna la versione standard del paradosso del mentitore, cioè: io dico che sono un bugiardo. A quale delle cose che dirò dovrete credere? è possibile che io menta anche quando dico che sono un bugiardo? si rimane, con un autofiction tendenzialmente falsidica, in un dominio di incertezza anche su affermazioni apparentemente pacifiche.
L’autofiction tendenzialmente veridica si muove invece su una specie di pre-paradosso, il cosiddetto paradosso di Curry: se affermo che la mia affermazione seguente ha lo stesso valore di verità di questa, e poi dico che gli asini volano, si crea una specie di impasse comunicativa, in cui non si sa bene cosa prendere per vero. Ellis o Giuseppe Genna in Dies irae e Italia de Profundis, per dire, fanno questo quando si mettono al centro di complotti, invasioni aliene e trame da horror movie. Sappiamo il debito pesante che Genna a metà anni Zero ha con la narrativa di Moresco: ma credo che per Moresco il discorso non valga, le retoriche della verità e della menzogna non gli interessa mischiarle, per lui il discorso si gioca (come amerebbe esprimersi) su un altro livello, un piano più grande e indiviso.
Il problema dunque, mi sembra, non è per il lettore verificare la veridicità delle affermazioni. Quello è il primo step, che lo coinvolge e dà benzina al motore del racconto, aprendogli forse anche un linguaggio di una certa incidenza simbolica con cui le persone raccontano se stesse, oggi (è stato notato da Latronico e altri, e ne parlo nel libro, che la comunicazione sui social di internet e l’autofiction letteraria spesso viaggiano sullo stesso binario). Il lettore trae un beneficio conoscitivo: può riflettere sui modi in cui la gente “trasforma in vita le storie, trasforma in storie la vita” (P. Roth, La controvita).
8 aprile 2015 alle 03:29
Vedi, Marco, quando scrivi cose come
fai una cosa strana. La cosa strana è quell’ “eppure”. I piazzisti della Folletto mi perseguitano da decenni. Ho usato e uso prodotti Folletto, trovandoli ottimi. Se uno dice qualcosa sul tuo testo, dice quello che dice; se critica un aspetto del tuo testo, non è che ne neghi la serietà del contenuto; se trova che l’articolo è poco convincente, non intende mica che il romanzo in questione sia brutto; e così via.
Quell’ “eppure” non ha alcuna ragion d’essere, perché la critica all’eccesso di enfasi del tuo “consiglio” non tocca – e questo mi pare ovvio – l’oggetto del consiglio.
8 aprile 2015 alle 07:39
ritorno ancora su Dante e Moresco e provo a dire altre due cose. Come ha sottolineato Marco avevo condiviso sui facebook la sua recensione e quella di Barilli (http://www.renatobarilli.it/blog/moresco-un-po-di-forbici/). Mi avevano colpito queste due recensioni per due cose: entrambe si soffermavano sulla lingua e entrambe citavano la stessa frase “Vita dentro la morte o morte dentro la vita”. Mi aveva colpito perché citare la stessa frase su di un libro che 1200 pagine era un caso ben interessante, e mi aveva mosso a immaginare che idea si sarebbe fatto un lettore tra 300 anni,quando per puro caso, fosse andata perduta l’opera di Moresco e invece ci fossero rimaste solo le critiche all’opera stessa (un po’ come succede per i filosofi presocratici o per l’opera latina di Ennio). A parte questa divagazione torno alla lingua, io prendo per buono quello che sia Marco che Barilli dicono, ovvero di questa lingua che tracima (Marco né dà una lettura positiva, Barilli decisamente meno) e la metto vicino a Dante. E qui non ci siamo. Ora non è che se io immagino un viaggio nel regno dei morti per forza di cosa il mio modello è Dante, oppure lo è in superficie ma non in profondità. La lingua in Dante, il suo uso, è completamente diverso da quello che sembra avere Moresco nel suo libro. Il Dante la lingua è sempre misura, non è mai smisuranza, non è mai “troppo”, c’è in Dante il tentativo sempre di dire “il tutto” in poco, di essere chiaro e comprensibile. Dante scriveva il suo testo perché raggiungesse più pubblico, andava insomma incontro al lettore (ovviamente stiamo parlando di un lettore del ‘300), mentre ad esempio leggendo Pallavicini su TTL si ricava l’idea che la lingua di Moresco sia una sorta di “messa in prova” del suo lettore.
In Dante insomma la scrittura è una sorta di “economia”, penso a Pia dei Tolomei “Siena mi fé disfecemi Maremma” e il continuo tentativo di essere chiari e razionali, mentre mi pare che in Moresco (anche solo leggendo l’anticipazione del romanzo sul sito mondadori) sia l’esatto opposto, tanto che a me è venuto come epigono il Manganelli di Dall’Inferno.
d.
8 aprile 2015 alle 11:17
Demetrio, quando leggerai il romanzo (leggerlo vuol dire anche leggerlo qua e là) ti renderai conto perché sia Barilli che io abbiamo citato la stessa cosa. Persino Gian Marco Griffi, ora che ha il libro tra le mani, potrà spiegarti perché. Sull’opportunità di lanciarsi in un parallelismo tra il linguaggio dantesco e quello di Moresco senza aver letto il libro di Moresco, voglio ricordarti che vale la regola elementare di leggerlo, un romanzo, prima di discuterne.
Giulio, ho solo fatto una recensione. Non ho cercato di fare una vendita “porta a porta” di un prodotto. Dopodiché, se vuoi rimanere di questa convinzione, posso solo dolermene. Quando e se ti capiterà di leggere il romanzo di Moresco, ti renderai conto che il mio articolo era molto più in buona fede di quanto pensassi.
Lorenzo Marchese, dato che l’ho invitata a partecipare a questa discussione, ora la invito anche il 15 maggio a Tortona, dove Antonio Moresco presenterà Gli Increati. Sarà un’occasione per incontrarsi, discutere. Ovviamente l’invito è esteso a tutti coloro che hanno preso parte a questa conversazione: Gian Marco, Lucia, Cristian, Giulio, Bart, Giuseppe e… Acabarra.
8 aprile 2015 alle 12:49
Marco mi sembra di aver ragionato non dal libro, ma partendo dal mostro medesimo atteggiamento (tuo e di Barilli) sulla lingua di Moresco che tracima. E se la lingua tracima mi dispiace non ha nulla della lingua di Dante. Semplice, detto questo e ovviamente leggerò il libro, come vedi non ci sono in giro miei giudizi critici o recensioni su libri che non ho letto.
8 aprile 2015 alle 13:08
“ Lunedì 24 maggio 1999 – Quando poi vedo che gli attori portano tutti una magrittiana bombetta, penso che al nuovo teatro la bombetta piace almeno quanto il verbo tracimare ai giornalisti. “ [*] [**]
[*] La s-formazione dello scrittore / 273
[*] Eh, Tortona… Tortona… Ci andavo spesso, negli anni Sessanta. Ci avevo un amico, a Tortona. Quando avevo amici. Quando viaggiavo. (Gli amici sono un’ottima scusa per viaggiare… )
8 aprile 2015 alle 20:19
“Persino gian marco griffi” suona come “persino quel cazzone primitivo e ‘gnorante di gian marco griffi”, dove “cazzone” è naturalmente da intendersi in modo figurato.
Comunque mi ha fatto sorridere.
Grazie per l’invito, ma se vengo alla presentazione di Moresco a Tortona e lui per sbaglio ha letto Vibrisse, come minimo mi tira un calcio nel culo (e non a torto), pertanto preferisco stare alla larga.
8 aprile 2015 alle 20:43
Barilli, citato da Paolin, tra l’altro: “Gli Increati… come se mi sentissi immerso in una notte oscura e stinta in cui, per dirla con la famosa espressione usata da Hegel contro Schelling, tutte le vacche affondano in un medesimo grigiore”. Infatti : è la questione delle pluricitate vita dentro la morte e morte dentro la vita confuse in uno e per capirci qualcosa c’è da buttare la testa dentro una latrina ovviamente nera, oscura (per cui in conclusione il cane si morde la coda). Cos’è questa latrina, luogo per sua natura dell’isolamento, in cui ho a che fare con le mie brutture? Cosa può essere se non il mio profondo, il mio intimo, il mio inconscio che io comunque sento brutto sporco perché mi tiene prigioniero, mi possiede mi isola dal mondo come la latrina (nb latrina, non gabinetto e neppure cesso), costretto a starci perché sono dominato dal bisogno corporale. Non posso uscirne e allora cerco lì, ma dentro lì nella latrina nera, lì dentro non c’è il mondo, l’Altro, sono lì come dentro a un lurido ventre materno (liquido amniotico che è cacca e urina) in una situazione prenatale (quel venire prima) dove non esiste distinzione, dove non si può avere risposta su cosa è morte e cos’è vita, dove, appunto, tutto si confonde, dove non esiste la parola (sono in-fans) in quanto non esiste il mondo, dove, quindi, alla fine, non mi posso misurare col dicibile e sono costretto a puntare irrimediabilmente più in alto (più in basso) cioè appunto all’indicibile. Insomma sono un Increato. Increato, in-creazione, non creazione, creazione = distinzione, separazione, divisione, logos (Dio separò la luce dalle tenebre, separò le acque, che sono sotto il firmamento, dalle acque, che son sopra il firmamento). Dunque l’Increato non è frutto di logos, di distinzione: sono tutto e niente, sono morto e vivo, e per me tutto è immerso nella notte scura e stinta di Barilli. L’Increato è amorfo dunque, e può l’amorfo dare forma? Improbabile; l’ Increato può solo rimestare, magari si espande (per mille o tremila pagine), cioè, appunto, morescamente, al massimo tracima.
8 aprile 2015 alle 21:40
Scusate, avrei una domanda che giuro non è polemica: ma se uno si sente davvero così in-fans, così irrimediabilmente separato e lontano dal logos, perché, coerentemente, non sta zitto? Non sarà mica che alla fine è tutta una questione di vanità?
9 aprile 2015 alle 09:13
Debora, Paola, Lucia, la letteratura non è veramente il luogo del logos, ma piuttosto di un racconto che si fa mitopoiesi. Ecco perché quando leggiamo un romanzo ci assale sempre il dubbio che potrebbe esserci qualcosa di più oltre a quello che già c’è. Quando leggiamo la Bibbia noi credenti sappiamo che quelle parole rinviano ad un ulteriore e più grande significato: sono, per così dire, l’emanazione terrestre di qualcosa di oltreterrestre, divino. Invece, quando leggiamo un testo di biologia, le descrizioni e le spiegazioni che troviamo sappiamo che sono lì per essere quanto più possibile se stesse. Perciò, nella Bibbia abbiamo parole che sono sempre altro da sè; nei testi scientifici abbiamo parole e significati che puntano sempre a essere il più possibile se stesse. Nella letteratura, invece, le cose si complicano. Queste dimensioni sono in lotta perpetua. Il logos (leggi: parola certa) e il mito (leggi: parola con molti significati) si mescolano e si scindono incessantemente.
Un narratore osserva la realtà con un terzo occhio. E’ un occhio tutto suo, che solo lui ha, e ci offre la realtà filtrata da quest’occhio. Ma per cogliere veramente questa realtà, mi viene da dire, il lettore deve possedere a sua volta un terzo orecchio. Quell’orecchio in grado di fargli udire, nelle parole che sente, un’allusione a qualcosa d’altro che solo lui è in grado di sentire. Parlo di una vibrazione particolare. Ora, leggendo Gli Increati sono personalmente in grado di sentir dentro di me queste vibrazioni. Quel libro parla del mondo intorno a me. Così come fui in grado di percepire queste allusioni leggendo il romanzo La dissoluzione familiare di Enrico Macioci. Ogni tanto capita. Non sempre. E quando non capita, significa che forse quel libro non sta parlando a noi, non è stato scritto per noi. Ma, forse, è stato scritto per qualcun altro. Anche se, in tutta onestà, penso che Gli Increati sia stato scritto per tutti.
9 aprile 2015 alle 11:13
“ Lunedì 22 gennaio 1996 – Vent’anni fa mi sono ricordato la letteratura. Mi sono ricordato che la letteratura è le parole che salgono non si sa da dove e, venute a galla, sbocciano come meravigliosi fiori, pieni di un perfetto mistero; come ricordi di un passato che potrebbe anche non essere mai stato presente, perché quello che conta è che presente comunque non è; come il fischio agli orecchi che si dice è qualcuno che ti pensa, ma forse sei tu che stai per pensare a qualcuno a cui non pensavi e che vuole essere pensato. Che chiama, nella rete infinita dei pensieri del mondo. “ [*]
[*] La s-formazione dello scrittore / 274
9 aprile 2015 alle 11:43
@marco candida
Non potrò essere a Tortona, ma grazie dell’invito.
Scendo. Buon proseguimento.
10 aprile 2015 alle 14:24
Giulio, è del tutto evidente che i miei interventi propongono una definizione personale di autofiction imperniata sul linguaggio. Tu fai scivolare il piano del discorso sulla “reale definizione” di autofiction e a quel punto hai gioco facile a dire quel che dici. Ringrazio Lorenzo Marchese per l’intervento che ha qui postato e che spiega bene che cos’è l’autofiction.
Riguardo l’autofiction ecco come la vedo. Noi diciamo: Mozzi è autofiction. Poi diciamo: Nove è autofiction. Latronico è autofiction. Su quest’ultimo dico per dire, perché non lo conosco. Perché diciamo che Mozzi, Nove e Latronico sono autofiction? Perché mescolano consapevolmente la retorica della finzione e quella della verità. Che cosa NON hanno in comune questi autori? Il linguaggio. Perché? Perché ognuno di loro elabora una lingua differente. Quindi, essendo differente, questo elemento non può essere preso in considerazione per definire cosa è autofiction e cosa non lo è. A questo punto io dico: anche se il linguaggio è differente, proprio questa differenza e questa unicità dei linguaggi è espressione dell’Io/Alterità degli autori. E così includo questo elemento nella definizione. E mi sembra che i migliori rappresentanti dell’autofiction (posto che vogliamo considerare l’esistenza di questo genere) siano tutti dotati di questo linguaggio. Mentre gli esponenti minori presentino un grado minore di unicità linguistico-espressiva.
8 gennaio 2016 alle 16:24
Niente di nuovo con Moresco. Non fa che ripetere le vecchie tematiche di Beckett in modo pedante. Mi viene in mente la trilogia… Malone muore, l’Innominabile. “I can’t go on, I’ll go on”… a Beckett però quella prosa così pesante servì da palestra per creare i capolavori teatrali. Ma Moresco? Che c’è di così nuovo e sconvolgente in Moresco? Forse il fatto che è un autore italiano e scrive romanzi di mille e passa pagine? “Vita e morte, tutto un nulla” dice un personaggio di Beckett…
21 marzo 2016 alle 16:58
Grazie per la recensione, non conoscevo questo autore, dopo 100 pagine de Gli Increati, e un libro meno voluminoso dello stesso autore, penso che la recensione qui fatta abbia circoscritto abbastanza bene ciò che si prova alla lettura… e un esperienza letteraria importante… che piaccia o no, non è da discutere… se non ci si rende conto che qui si ha da fare a qualcosa di potente, di superiore… come lo possono essere altre sperimentazioni, come quella di Beckett, giustamente, credo che abbia non capito qualcosa… dopo, posso capire che non interessi questa esperienza, che a momenti uno sia stanco di un certo misticismo, ma qui si ha da fare a un grande autore visionario dallo stile unico…