La formazione della fumettista, 20 / Paola Barbato

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di Paola Barbato

[Questa è la ventesima puntata della rubrica del martedì, dedicata alla formazione di fumettiste e fumettisti. La rubrica è a cura di Matteo Bussola. Ringraziamo Paola per la disponibilità. gm].

Il mio problema è che non sono titolata.
Sono circa diciott’anni che me lo fanno notare tutti: io per fare fumetti non sono titolata. Che poi bene bene benissimo non ho mai capito come si faccia ad esserlo, ma il punto è che io non lo sono.
La vigilia di Natale del 1995 (sì, la prendo alla lontana ma poi faccio di corsa) ho telefonato a casa di un ragazzo a cui scrivevo e mandavo i miei racconti. Invece che con lui ho parlato con sua madre, che leggeva le mie lettere insieme alla figlia minore (non sto a spiegare o viene lunga) e questa compassata signora mi ha detto che avevo l’obbligo morale di presentare i miei scritti a qualcuno. “Ma non sono titolata!” mi sarebbe venuto da rispondere, e invece ho messo insieme tutti i racconti scritti in quasi un anno, li ho stampati, rilegati con la spirale che costava meno e portati a mano a tutti gli editori milanesi che avevo trovato sulla guida telefonica. La Rizzoli era troppo lontana e quindi mi avanzava un manoscritto. Sono andata alla Sergio Bonelli Editore, l’ho lasciato in portineria e me ne sono andata. Non volevo fare i fumetti, pensavo che magari le mie storie surreali potessero essere comprate come soggetto per Dylan Dog. No, perché io Dylan Dog lo leggevo. Avevo tutti i numeri, il primissimo me l’avevano fatto leggere nell’estate del 1988 quando lavoravo in una gelateria e gli altri stagionali avevano portato dei fumetti per i momenti di morta. Li avevo recuperati tutti con calma e li avevo messi insieme agli altri. Sì, perché io leggevo anche altri fumetti. Di Dylan non avrei saputo dire chi fossero gli autori o i disegnatori, non me ne fregava niente dei nomi. Riconoscevo le storie dal tono e il disegnatore dai dettagli. Quello che non si vedono le facce, quello che fa i triangoli sulle guance, quello che fa tutti belli, quello che fa tutti brutti. A gennaio 1997 me ne sono andata a vivere da sola e mio padre mi ha riferito che a casa chiamava insistentemente un tale mai sentito che voleva parlare con me. Gli do il tuo numero? Non glielo do? Così mi arriva la telefonata di questa vocina esile e vagamente afona, tutta di testa, che mi restituisce l’immagine di un omino gracile, un redattore occhialuto con il papillon, tale Mauro Marcheselli. Mi propone di provare a sceneggiare, visto che i miei racconti gli erano piaciuti. Sceneggiare che? Dylan Dog. “Ma è scemo?” ho pensato, “Non sono titolata!”. Ma facevo la guardiana alla galleria civica per il comune, guadagnavo pochissimo, quindi ci ho provato. Mi è arrivata a casa la sceneggiatura di Memorie dall’invisibile di Tiziano Sclavi, come esempio da seguire. Avevo finto di sapere chi fosse e mi ero informata poi, ho letto tutto due volte, il discorso diretto al disegnatore, le battute, i dettagli infinitesimali e le abbreviazioni incomprensibili: PP, PA, CL, FI. E poi Dida, ovunque Dida che parlava. Chi cazzo era Dida? Ci sono arrivata giorni dopo che significava “didascalia”. Ho partorito con dolore novantaquattro tavole e le ho spedite per posta ordinaria, perché non era tempo di e-mail, non ancora. Il giorno stesso in cui il ragazzo che veneravo mi ha mollata l’omino del papillon mi ha richiamata.

“Oddio, la prego, non mi chiami oggi che è il giorno peggiore della mia vita!”
“Non migliorerà dopo questa telefonata.”
Aveva ragione.
A ruota, a infierire, una settimana dopo arrivò il plico con la sceneggiatura così corretta che pareva grondar sangue.
Treno passato, a posto così. Tanto io non li volevo fare, i fumetti, non ero capace. Conservavo ancora in cantina pacchi e pacchi di quadernoni con i fumetti che avevo disegnato per tutte le medie e le superiori. Storie con me come protagonista, spesso chiuse e risolte in fretta, perché era innegabile che la mia testa corresse più veloce della mano e a disegnare ero troppo lenta, la fantasia già altrove a scrivere la storia seguente. Pagine disegnate nella casa in montagna, a gambe nude sulla sedia, un bicchierone di coca cola e un pacchetto di Ritz, che altro mi ci voleva? Non valevano i fumetti settimanali che creavo per quello che mi aveva mollata, le vicende di Paolentola e il suo re puttaniere sempre in fuga e lei, imbecille, dietro. Non valeva nemmeno quella storia in cui compariva Dylan Dog, fatta davvero poco tempo prima, forse due o tre anni, chissà.
Ma l’uomo del papillon mi buttò un osso: volevo provare a scrivere un soggetto?
Presto fatto.
Non andava bene. Era troppo grottesco mettere Dylan in quella situazione. Però chissà, forse girando la storia e mettendo al centro Groucho…
Groucho.
L’abisso per ogni fumettista, anche il più titolato.
Il soggetto passò, andai a Milano e scoprii che l’omino col papillon era un energumeno col pizzetto, che Tiziano Sclavi esisteva davvero e indossava una vestaglia color cammello, che Sergio Bonelli guidava una macchina minuscola e aveva un enorme istinto protettivo verso le ragazze mal vestite e pettinate peggio.
Imparai a sceneggiare sceneggiando, spedendo pagine che tornavano immancabilmente tutte rosse, telefonando senza sosta a tutti i disegnatori a cui avevo affibbiato nomignoli indicibili, discutendo con loro, capendo che la sceneggiatura e il disegno dovevano sposarsi, copulare e procreare perché la vignetta funzionasse. Le facce con i triangoli e quelle fatte tutte di ombre assunsero un nome prima e una figura poi. Finché venne il giorno in cui tenevo nelle mani una cosa con il mio nome sopra, non un quaderno, non una tessera sociale: un albo a fumetti. Io che li leggevo ero diventata quella che li scriveva. E avevo come lettore-tipo me stessa, la più esigente in assoluto, perché non mi sarei mai concessa di scrivere qualcosa che non avrei voluto leggere. Una croce senza delizia. La sensazione è stata quella di un cliente che passa dall’altro lato del bancone e diventa panettiere. Se lo hai mangiato, il pane, sai come deve essere quando è buono. E ancora adesso impasto, pur non sapendo distinguere Jack Kirby da John Buscema, senza venerare Alan Moore e senza un sano background indie che oggi pare indispensabile.
Ma per fare il pane bastano acqua, farina, lievito e un pizzico di sale.
Per questo mi sento titolata.

Classe 1971, milanese di nascita, bresciana d’adozione, prestata a Verona dove vive con il compagno, tre figlie e due cani. Scrittrice e sceneggiatrice di fumetti, l’esordio è nel 1999 sulla serie Dylan Dog della Sergio Bonelli Editore. Ha pubblicato tre romanzi thriller per la Rizzoli, Bilico (2006), Mani nude (2008, vincitore del Premio Scerbanenco di quell’anno), Il filo rosso (2010). Nel 2008 è uscito, sempre per la Sergio Bonelli Editore, nella collana Romanzi a fumetti Bonelli, Sighma, disegnato da Stefano Casini e nel 2012 Darwin su soggetto di Luigi Piccatto. Ha scritto il soggetto e co-sceneggiato per la Filmmaster la fiction Nel nome del male con Fabrizio Bentivoglio per la regia di Alex Infascelli, trasmessa da Sky nel 2009. A novembre 2011 è stato messo online il suo webcomic DAVVERO, che un anno dopo è stato pubblicato dalla Star Comics nella versione cartacea fino al n°4 (gli ultimi due numeri dalle Edizioni Arcadia). Dal 2012 collabora anche alla collana “Le Storie” sempre per la Sergio Bonelli Editore.

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3 Risposte to “La formazione della fumettista, 20 / Paola Barbato”

  1. La formazione della fumettista Paola Barbato | afnews.info Says:

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  2. Ludovico Says:

    mia totale e notevole ammirazione ,queste son davvero le classiche success stories che a volte fa piacere eleggere 😀

  3. La formazione della fumettista, 24 / Roberta Ingranata | vibrisse, bollettino Says:

    […] è dura, nonostante all’apparenza possa sembrare la culla delle opportunità. Davvero, di Paola Barbato, è stato il primo progetto che mi ha letteralmente catturata e fatta sua, mi ha buttata in mezzo a […]

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