di giuliomozzi
1. In linea di massima, una buona scena è una scena nella quale accade qualcosa (all’inverso: una scena nella quale non accade niente, non è – in linea di massima – una buona scena). Ciò che accade è un fatto: un fatto che sta in una concatenazione di effetti e di cause con gli altri fatti che compongono la narrazione. Nel momento in cui scriviamo un dialogo, ricordiàmoci che stiamo scrivendo un “fatto”.
2. Che tipi di fatti avvengono, nei dialoghi? Principalmente, avviene questo: che la relazione tra i personaggi (che partecipano al dialogo) viene modificata. Faccio, per spiegarmi, degli esempi immaginari:
– “Ah, dimenticavo”, disse la madre alla figlia. “E’ un pezzo che volevo dirtelo. Tu non sei figlia di tuo padre. Ebbi un’avventura alle Terme di Chianciano, tanti anni fa”.
– “Passami il vino”, disse Bepi. “No”, rispose Toni, “hai già bevuto troppo”.
– “Ti amo, Rosita”, disse Juan. “Io no”, disse Rosita sorridendo.
– “Avrò quella monetina”, disse Amelia, “qualunque cosa tu faccia per proteggerla”. “Vedi tu”, disse zio Paperone. “Comunque guarda che quella nella teca è una copia”.
Eccetera. Naturalmente noi sappiamo che la monetina nella teca è quella vera, e che zio Paperone dice quel che dice solo per ingannare Amelia (che è una strega, sì, ma non è particolarmente sveglia). Che qualcosa si modifichi nei rapporti tra i personaggi è evidente – mi pare – negli esempi primo e terzo; forse un po’ meno nel secondo. Cosa avviene tra Toni e Bepi? Avviene che Toni si prende una responsabilità nei confronti di Bepi.
Se volete un esempio più strutturato, andate a leggervi la prima metà del capitolo xxxiii dei Promessi sposi. Dove Rodrigo si scopre malato di peste, e nel corso del dialogo tra lui e il Griso cambia tutto (saltate pure il racconto del sogno di Rodrigo, che è una concessione al gusto del tempo – ed è brutto).
3. Che qualcosa si modifichi nel rapporto tra due personaggi, non è solo un fatto: è uno dei più importanti fatti che possono avvenire in una narrazione, ed è spesso al centro della narrazione. Se ci pensate: che cosa avviene in una narrazione? Avviene che ci sono dei personaggi, e le relazioni tra loro si modificano. Renzo e Lucia erano lui celibe e lei nubile, e poi diventano sposati (tra loro). Mattia Pascal era vivo e aveva un’identità, ora è… che cosa è Mattia Pascal? Qualcosa di indefinito. La storia di Robinson Crusoe, questo noiosissimo bricolagista, diventa interessante quando ci accorgiamo che quell’isola è bazzicata anche da qualcun altro. E così via.
4. Passando dall’immaginazione della situazione alla scrittura, il primo criterio da seguire è: che ciascuna battuta di un dialogo deve far passare un’informazione, implicita o esplicita. Le battute che non portano informazioni – che cioè, alla lettera, non significano nulla – sono semplicemente inutili. Non servono nemmeno a far passare il tempo. Poiché le informazioni che passano non esplicitamente sono spesso le più interessanti, faccio qualche esempio:
– “Gino, com’è andata a scuola?”, “Mamma, mi fai la pasta col sugo?”.
E’ evidente che Gino omette di rispondere: e questa omissione è un’informazione, non esplicita.
– “Gino, com’è andata a scuola?”, “Mi ha interrogato in matematica”.
E’ evidente che Gino omette di dire com’è andata l’interrogazione: e questa omissione è un’informazione, un pochino più esplicita che nel caso precedente.
– “Gino, com’è andata a scuola?”, “Il prof di matematica è una carogna”.
E’ evidente che Gino tenta un’ellissi: di arrivare, cioè, a una conclusione saltando vari passaggi (il prof di matematica l’ha interrogato; l’interrogazione è andata male; ma non è colpa di Gino; la colpa è del prof, che è una carogna).
Eccetera. Una risposta non a tono, o non del tutto a tono, è spesso il segnale del passaggio di un’informazione non esplicita.
5. Ma: per chi sono le informazioni date nei dialoghi? Risposta: per i personaggi. Non per chi legge. Scrivere dialoghi per passare informazioni a chi legge è, in linea di massima, cattiva pratica. Meglio, piuttosto, se non si riesce a far intuire la situazione al lettore, mettere le informazioni nella narrazione.
– “Ciao mamma, oggi alla Standa ho incontrato Gianroberto, il cognato di tua zia”.
Possiamo facilmente immaginare che la mamma sappia perfettamente chi è Gianroberto. Le parole “il cognato di tua zia” sono quindi per il lettore e non per il personaggio. Potremmo allora scrivere:
– “Ciao mamma, oggi alla Standa ho incontrato Gianroberto”. Gianroberto era il cognato della zia della mamma di Ginetto.
Non è il massimo della leggerezza, ma è sempre meglio di:
– “Ciao mamma, oggi alla Standa ho incontrato Gianroberto”.
“Chi? Il cognato di mia zia?”.
“Proprio lui”.
O di:
– “Ciao mamma, oggi alla Standa ho incontrato il cognato di tua zia”.
“Chi, Gianroberto?”
“Proprio lui”.
Diverso è il caso di:
– “Ciao mamma, oggi alla Standa ho incontrato Sergio”.
“Tuo cugino?”.
“No, il tuo amante”.
Qui avviene un fatto: Ginetto rivela alla mamma di essere a conoscenza di qualcosa (che forse la mamma preferiva tener nascosto, o almeno non esplicito). Potremmo anche immaginare, però, una situazione nella quale tra Ginetto e la madre le cose sono già da prima esplicite. Per esempio se il dialogo continuasse così:
– “Eh? Mi aveva detto che oggi doveva andare a Modena”.
“Ah, ecco perché non mi ha neanche salutato. Era con una tipa bionda”.
Informazioni che passano tra i personaggi: e il lettore origlia, guarda, immagina, intuisce. Divertiamoci a continuare:
– “Eh? Mi aveva detto che oggi doveva andare a Modena”.
“Era con una tipa bionda, stavano al reparto lingerie“.
“E tu cosa ci facevi al reparto lingerie?”.
“Mamma, ormai ho sedici anni! Ho una mia vita!”.
Eccetera.
6. Un criterio facile da dire, ma meno facile da assimilare, è questo: se una battuta sembra implicare una risposta quasi necessaria o altamente probabile, si può eliminare la battuta (o, meno spesso, la risposta), o sostituirla con un gesto muto.
– “Ginetto, com’è andata a scuola?”. Ginetto s’infilò nel bagno.
La non-risposta vale come una risposta (evasiva, e con qualche implicazione: come abbiamo già visto).
Altro esempio:
– “Ginetto, hai comperato il kebab?”.
“Quale kebab?”.
Oppure:
– “Ginetto, hai comperato il kebab?”.
“No. Problemi?”.
Oppure:
– “Ginetto, hai comperato il kebab?”.
“Cosa si mangia oggi, mamma?”.
Oppure:
– “Ginetto, hai comperato il kebab?”.
Ginetto aprì il frigo e ne scrutò l’interno.
A me pare evidente che l’ultima soluzione è più efficace (il dialogo è in sé miserello: ma portate pazienza, son solo esempi).
7. Può essere utile immaginare un dialogo come una trattativa. Nella quale ciascun personaggio ha qualcosa che vuole tenere per sé, e qualcosa che vuole condividere per un suo certo scopo. Nell’esempio della lingerie, per dire, si può tranquillamente attribuire a Ginetto una qualche strategia nei confronti della madre. Che le sia rivelando qualcosa che lei pensava lui ignorasse; che stia affrontando con nonchalance un argomento ormai pacifico tra loro; che faccia il finto tonto o il provocatore esplicito: sempre è evidente che Ginetto si comporta come uno che vuole qualcosa in cambio (del suo silenzio, della sua complicità, del suo contributo al lavoro di intelligence sul conto dell’amante, ecc.). Se alla fine del dialogo non ci fossero un’offerta, una controfferta, una mediazione eccetera, il dialogo perderebbe senso.
8. Non solo i contenuti propriamente detti, ma anche il tono della voce, la scelta del lessico, il modo di rivolgersi all’altro, eccetera, fanno passare informazioni. Però, attenzione: tutto, in linea di massima, deve stare dentro al dialogo. Esempio negativo:
– “Non ci voglio andare!”, affermò Gino.
“Ma perché?”, domandò Gina.
“Sono fatti miei”, disse contegnosamente Gino.
“Non pensi che potresti condividerli?”, disse Gina impermalita. “In fondo”, aggiunse stizzita, “siamo marito e moglie”.
“No e poi no!”, esclamò Gino.
“Hai forse qualcosa da nascondere?”, insinuò Gina.
“Figùrati se riesco a nascondere qualcosa a te”, concluse Gino con fare noncurante; e se ne andò.
Allora: a me pare evidente che tutte quelle parole che cercano di dare il tono della discussione (“affermò”, “domandò”, “contegnosmente”, “impermalita”, “stizzita”, “esclamò”, “insinuò”, “concluse”, “con fare noncurante”) sono inutili. Se uno afferma una cosa, e che si tratti di un’affermazione è palese dalla battuta, è inutile dire che sta affermando. Se uno da una domanda, non serve dire che sta domandando. Se uno fa un’insinuazione, non serve dire che sta insinuando. Se uno fa riferimento a un luogo comune ovvio (“siamo marito e moglie”), mi pare inutile ricordare che era impermalita e stizzita. E così via.
In effetti, se si riduce il dialogo al solo parlato: non cambia nulla. Provate:
“Non ci voglio andare!”, disse Gino.
“Ma perché?”, disse Gina.
“Sono fatti miei”.
“Non pensi che potresti condividerli? In fondo siamo marito e moglie”.
“No e poi no!”.
“Hai forse qualcosa da nascondere?”.
“Figùrati se riesco a nascondere qualcosa a te”, concluse Gino; e se ne andò.
Visto?
Quindi: quando avete finito di scrivere un dialogo, ripassàtelo per togliere tutto il superfluo.
9. Evitate, a meno che il personaggio non debba fare un lungo discorso (e in quel caso è una possibilità, non una necessità) il discorso indiretto. Studiàtevi l’indiretto libero (ci vorrà un altro decalogo…).
10. Un dialogo parlato reale e un dialogo scritto non si somigliano nemmeno un po’. La naturalezza del dialogo scritto è tutt’altra cosa dal dialogo parlato reale. Se non ci credete, provate a girare con un registratore in tasca, e poi a trascrivere le vostre conversazioni.
Tag: Alessandro Manzoni
19 marzo 2015 alle 09:12
Grande decalogo, grazie. Sull’ultimo punto, mi sto scervellando da un po’. È vero: il dialogo di un romanzo non è conversazione, non può assomigliare al modo in cui noi parliamo quando andiamo al bar, incontriamo un collega, ecc.. ecc… Ogni parola dovrebbe avere il peso e l’importanza di un dialogo in teatro, eppure la stessa freschezza di una conversazione spontanea. Cosa intendi, appunto, quando parli di “Naturalezza” del dialogo scritto?
19 marzo 2015 alle 10:26
come sempre, affascinata.
19 marzo 2015 alle 10:26
La “naturalezza” è un effetto. Il punto è che, quando leggiamo un dialogo scritto, noi abbiamo in mente – come termini di paragone – altri dialoghi scritti, non i dialoghi reali. Di solito.
19 marzo 2015 alle 10:27
L’ha ribloggato su Sono Solo Scarabocchie ha commentato:
Tutto questo decalogo (di Giulio Mozzi) mi sarà utile…
19 marzo 2015 alle 10:32
Quando leggiamo (o quando guardiamo un film o un telefilm o a teatro etc) diamo alle parole un peso diverso, ci aspettiamo che siano più pesanti e definite che nella realtà, pur senza arrivare a eccessi di dizione poetica (tipo, non parliamo in alessandrini, di solito).
Quando i giornali pubblicano le intercettazioni telefoniche di indagati è facile notare come i dialoghi siano caotici, ripetitivi, sgrammaticati e pieni di elisioni e frasi lasciate a mezzo. Così persone perbene ma dotate di scarso senso critico lamentano il basso livello culturale della nostra classe dirigente ‘che non sa nemmeno parlare italiano’ senza minimamente sospettare che, in sostanza, parlano anche loro così. In un romanzo dialoghi simili possono comparire ma verrebbero vissuti come una specie di gimnick o effetto speciali, non come veri dialoghi.
19 marzo 2015 alle 10:35
Thanks God, there’s Friday!
19 marzo 2015 alle 10:45
La “naturalezza” è un effetto. Ci sarebbe da scrivere un’estetica su questo.
19 marzo 2015 alle 11:04
In realtà, Deborah, la “naturalezza” fa parte degli “effetti di realtà”. Vedi ad esempio qui.
E vedi Mimesis di Auerbach, e anche Gli oggetti desueti di Federico Orlando – in questi giorni tornati in libreria: libro utilissimo e spassosissimo.
19 marzo 2015 alle 11:14
Decalogo utilissimo, come quello di ieri d’altra parte…mi chiedo quanto l’inosservanza parziale o totale di queste “regole” influenzi la decisione di un Editore di pubblicare o meno un dattiloscritto…Sonia
19 marzo 2015 alle 11:17
Le mie non sono “regole”, Sonia; al massimo delle indicazioni o – uso una parola che mi piace – dei criteri.
Come tutti i criteri (e in particolare quelli che propongo io), sono utili (spero) per portare una narrazione a un livello di buona qualità. Servono a questo, e a nient’altro.
Va detto che, quando leggo un’opera inedita, la goffaggine dei dialoghi è una delle prime cose che saltano agli occhi – e danno disturbo. Ma qui parlo per me.
19 marzo 2015 alle 11:35
Grazie, criteri utilissimi !
19 marzo 2015 alle 11:36
“ Torino, [1973] ottobre – “ [A]l tempo di Luigi XIV la naturalezza costituisce qualche cosa di puramente psicologico, e, dentro lo psicologico, un dato immutabile. Quando ad esso si dà espressione nelle forme della propria civiltà, lo si fa con la mira di dare all’eternamente umano un’impronta da valere come modello, al di sopra o accanto alle grandi fioriture delle civiltà antiche […] Quello che qui più importa e più s’impone è la corrispondenza fra la dignità interna e l’esterna, che viene continuamente pretesa e anche attuata dagli interessati, benché possiedano una limitatissima libertà […] ma gloire “ (Erich Auerbach, La separazione del tragico dal reale, in Mimesis, ) [*]
[*] La s-formazione dello scrittore / 244
19 marzo 2015 alle 11:58
“ Lunedì 10 giugno 1996 – Mentre facevo le fotocopie c’erano i due sordomuti che parlavano. Attraverso la mimica concitata – o concìtano o niente – dei loro volti, si scorgeva qualcosa di intenso. La simpatia, o forse, qualcosa di più, dato che erano un uomo e una donna. Ho ripensato alla mamma che ripeteva sempre « Il dialogo… il dialogo », e io mi arrabbiavo, perché non capivo o non volevo capire. E, dal mio punto di vista, un po’ di ragione ce l’avevo anche. È bello vedere due persone parlare, sia pure soltanto a gesti. Li ho lasciati che parlavano ancora. “ [*]
[*] La s-formazione dello scrittore / 245
19 marzo 2015 alle 12:13
“ Domenica 3 agosto 1997 – « “ Luigi Russo era spiritoso, ma anche candido. In anni successivi alla Scuola, talvolta sono andato con lui al cinema, a Firenze. Si appassionava talmente alla storia, che interveniva nel dialogo dei personaggi. Soprattutto se li disapprovava. – Si vergogni! -, gridava. E la gente dietro: – Silenzio! – “. » (Laura Lilli, Sotto il segno della Normale [intervista a Dante Della Terza], in «La Repubblica», 2 agosto 1997) “ [*]
[*] La s-formazione dello scrittore / 246
19 marzo 2015 alle 12:23
Io ho dubbi sul punto 8. è diverso da che a sua volta è diverso da
Giustamente dici “in linea di massima” ma non sono sicuro che valga neanche in linea di massima. Direi “in molti casi”.
19 marzo 2015 alle 12:31
Io ho dubbi sul punto 8. “No e poi no!”, esclamò Gino, è diverso da “No e poi no!”, sbraitò Gino, che a sua volta è diverso da “No e poi no!”, “Non sbraitare, Gino”.
19 marzo 2015 alle 12:33
Grazie Giulio, segnato le indicazioni. La discussione di Barthes sull’effetto di realtà mi ha sempre affascinato, perché separa il realismo dall’oggettivismo. Metto Auerbach nella lista dei desideri.
19 marzo 2015 alle 14:05
Tra i tanti ostacoli posti da un dialogo scritto citerei anche il modo in cui rendere un “sì”. Nella lingua giornaliera l’intonazione fa comprenderne il giusto significato, ma quando si scrive, e non si vuole adoperare predicati descrittivi, come rendere il sì a un’offerta di lavoro cui si ambiva? Come scrivere un sì estorto? cosa fare di fronte a un sì di supina obbedienza?
Più in ampio, l’ostacolo cruciale mostrato da Giulio e’ la ricerca di una lingua che non sia nè quella parlata nè una artificiosa riproduzione. Sta all’apprendista trovarne una convincente.
19 marzo 2015 alle 14:14
…a me piacere imparare come liberarmi di certi avverbi (quindi, poi, tuttavia) e di qualche congiunzione (infatti, perciò…). Li paragono a tutti quegli aggettivi che vengono inseriti nelle spiegazioni dei dialoghi. Ma almeno in questo contesto sto cercando di migliorare già da un po’ e devo dire che va meglio. È quasi come guarire da una malattia. Mentre fatico tantissimo a liberarmi del doppio virus sopra menzionato. Esiste già un decalogo su questo tema?
19 marzo 2015 alle 14:15
Ma perché ogni tanto mi saltano le parole? “A me farebbe piacere”…
19 marzo 2015 alle 14:18
Non esiste, Ma.Ma. – quindi lo scriverò. Peralto non aspettarti che lo scriva subito: infatti ho molto da fare. Tuttavia ci proverò.
19 marzo 2015 alle 14:23
Grazie! Senza fretta… sono al corrente dei tanti impegni. Ci mancherebbe. Seguo regolarmente Vibrisse, quindi non me lo perderò! (Ecco, l’ho rifatto!). Nel decalogo spero ci sia anche la soluzione contro la soluzione. In genere risolvo con i due punti. “Seguo regolarmente Vibrisse: non me lo perderò!”; in alternativa metto il punto, ma certe volte proprio non ci riesco.
19 marzo 2015 alle 15:06
(Poi la smetto. Ma mi rendo conto di avere il cervello davvero bloccato. Sto cercando di riscrivere la risposta sul decalogo – tra l’altro divertentissima – senza gli avverbi e… non ci riesco! Ne infilo sempre almeno uno: “appena”, “ancora” o una bella congiunzione del tipo “però”. Sarà mica letale ‘sto virus?)
19 marzo 2015 alle 15:27
Io coi dialoghi ci faccio spesso a pugni e spesso ci perdo. Mi stamperò questo decalogo per fare palestra, grazie.
19 marzo 2015 alle 17:33
brava deborahdonato: Auerbach, una dei libri più belli che abbia mai letto
19 marzo 2015 alle 17:40
I dialoghi sono un po’ bruttini, ma quello che davvero non funziona… sono i nomi. Personaggi con nomi così, neanche nella commedia dell’arte italiana. Ti pare?
Detto questo, dai dialoghi eliminerei il sintagma di legamento (disse, affermò, chiese, propose, ecc.) e aggiungerei una riga di descrizione del movimento:
Ginetto entrò in casa come una furia. Senza guardare in faccia la madre, si precipitò in camera sua.
«Che ti è preso?». Gina non fece in tempo a chiederlo. Il rumore della porta che sbatteva giunse simultaneamente.
La donna allora prese lo straccio e si asciugò le mani. Poi lo appoggiò sul piano della cucina, informe, e si diresse verso la camera del figlio. Diede due tocchi leggeri, con le nocche, quindi senza aspettare alcuna risposta aprì lentamente la porta.
Ginetto era stesso sul proprio letto, a pancia in giù. Appena la porta si aprì, il ragazzino girò il viso dall’altra parte. Con il resto del corpo rimase immobile.
«Ti spiace se entro?». Gina lo chiese con titubanza, nel modo più cauto che riuscì a scovare.
Dal figlio non giunse alcuna risposta.
La donna raccolse il coraggio e si fece avanti. Chiuse la porta alle proprie spalle, gli pareva ci fosse più intimità così, e si sedette a lato.
«Vuoi parlarne?».
«Lo odio…». La voce del ragazzino era un misto di rancore e pietà.
«Tesoro, chi è che odi?». Il cuore prese a batterle forte. Con lo sguardo ispezionò l’aspetto del figlio.
«Il nome…».
«Che nome?». Adesso sì, che era confusa. Erano mesi che non riusciva più a capirlo. Da quando aveva iniziato il primo anno di medie.
Ginetto tirò su il busto e si voltò verso la madre. «Quello che mi hai dato!». Gli occhi erano due pozzi di rabbia e le guance sembravano umide. Poi scansò il tentativo di abbraccio della donna e scese alla svelta dal letto. Vicino alla porta, mentre l’apriva, si girò nuovamente verso la donna. «Mi fa schifo!».
Gli unici rumori che giunsero in seguito dalla cucina furono un singhiozzo e piede che sbatteva contro lo stipite.
_______________
Ma si può fare di meglio:
La donna non fece in tempo a chiedere: «Che ti è preso?», che Ginetto s’era già rifugiato in camera sua.
Con pazienza raccolse tutto il coraggio che aveva e si avvicinò alla porta. Diede due colpi di nocche, quindi, senza aspettare la risposta, aprì lentamente la porta. Il figlio era steso sul letto, a pancia in giù, con il volto girato dall’altro lato.
«Ti spiace se entro?». Anche questa volta non giunse alcuna risposta.
La donna allora chiuse la porta alle proprie spalle, le pareva ci fosse più intimità così, e si sedette sul letto a lato del ragazzino.
«Vuoi parlarne?».
«Lo odio…». La voce del ragazzino era un misto di rancore e pietà.
«Tesoro, chi è che odi?». Il cuore prese a batterle forte. Con lo sguardo ispezionò l’aspetto del figlio.
«Il nome…».
La donna, confusa, impiegò un attimo a chiedere: «Che nome?».
Gli occhi di Ginetto erano due pozzi di rabbia quando si voltò a guardarla. «Quello che mi hai dato!».
Il ragazzino scattò su, scansò il tentativo di abbraccio della madre e scese rapidamente dal letto. Vicino alla porta si fermò un momento.
«Mi fa schifo!». Lo disse con tutta la frustrazione che aveva accumulato a scuola.
La madre, di rimando, gli sorrise. Sentì la tensione scemare all’improvviso.
Qualche attimo dopo, dalla cucina, si udirono solo un singhiozzo e un colpo secco.
19 marzo 2015 alle 18:19
Salvatore: potevo usare Tizio e Caia, oppure Oddone e Teodora. Cambiava qualcosa? No. Ovvio che i dialoghi sono quel che sono: servono solo come esempio.
Per il resto, così al volo:
– “La donna allora prese lo straccio e si asciugò le mani”; più speditamente, “si asciugò le mani nello straccio” (che, per asciugarsi, lo prenda, è ovvio).
– “Ginetto era steso sul proprio letto, a pancia in giù”; poiché nessuno si aspetta che Ginetto sia steso su un letto altrui; e poiché per stare a pancia in giù è necessario stendersi, si può fare: “Ginetto era a pancia in giù sul letto”.
– “il ragazzino girò il viso dall’altra parte. Con il resto del corpo rimase immobile”: la frase “con il resto del corpo ecc.” è superflua, perché se dici che girò il visto mi par sottinteso che non girò il resto del corpo.
Eccetera. Ci sono, insomma, un sacco di parole in più.
19 marzo 2015 alle 19:46
Grazie Giulio, ottimi aggiustamenti. Nel secondo pezzo mi pare di averne tagliate parecchie però di quelle frasi in più.
P.S. si chiama ironia, era riferita ai nomi e ai dialoghi. 😉
19 marzo 2015 alle 20:51
Punto 8: Ivy Compton-Burnett è la migliore maestra.
19 marzo 2015 alle 20:54
Scrivere narrativa che valga la pena di leggere è troppo difficile, disse Teodora.
Mi sa che hai ragione, ammise Oddone.
E si diede allo squash.
19 marzo 2015 alle 21:18
Stasera ho voglia di scribacchiare.
Salvatore, ti andrebbe così?
——————————————————–
Ginetto entrò in casa come una furia.
«Che ti è preso?», domandò la madre.
Si asciugò le mani e si diresse alla camera del figlio. Diede due tocchi alla porta, l’aprì senza attendere risposta e scorse il suo bambino disteso sul letto a pancia in giù.
Come vide la madre Ginetto si pose di lato.
«Ti spiace se entro?». disse Gina.
Niente.
Si fece coraggio e gli sedette di fianco.
«Vuoi dirmi che hai?».
«Lo odio…».
«Anima, chi è che odi?».
«Il nome…».
Da quando aveva iniziato le medie Ginetto non era più lui.
«Quello che mi hai dato!», aggiunse di un fiato.
Scansò l’ abbraccio della donna e sfilò via. Prima di uscire dalla camera strillò:
«Mi fa schifo!».
E sbattette la porta
Dalla cucina giunse un lieve singhiozzo, seguito da un calcio sul secchio della spazzatura.
19 marzo 2015 alle 23:18
Grazie di tutto (il dieci è scontato, ma non tutti lo sanno). ciao
19 marzo 2015 alle 23:31
Carlo: così?
Ginetto entrò in casa, lasciò andare lo zaino e si rifugiò in camera.
«Che ti è preso?». La madre l’osservò perplessa, poi si asciugò le mani e lo seguì.
Diede due tocchi alla porta, quindi l’aprì senza aspettare una risposta e vide il suo bambino steso a pancia in giù sul letto.
Ginetto voltò la testa dal lato opposto.
«Ti spiace se entro?».
Nessuna risposta.
La donna chiuse la porta e gli sedette a fianco.
«Vuoi parlarne?».
«Lo odio…».
«Tesoro, chi è che odi?».
«Il nome…».
Era dall’inizio dell’anno scolastico che non riusciva più a capirlo. «Anima, quale nome?».
Gli occhi di Ginetto la folgorarono. «Quello che mi hai dato!».
Il ragazzino scattò su, scansandone l’abbraccio, e filò verso la porta.
Prima di uscire strillò: «Mi fa schifo!».
La madre gli sorrise.
Qualche attimo dopo, dalla cucina, giunse solo un singhiozzo e un colpo secco.
20 marzo 2015 alle 09:20
Salvatore,ora il testo risulta più agile.
Personalmente detesto porte, camere e letti. Se posso/potevo li evito.
D’altra parte anche i grandi scrittori prima o poi devono misurarsi con il classico “la signora aprì la porta”.
Bisogna solo vedere come lo si rende.
20 marzo 2015 alle 09:35
Subito nelle slide che uso per i miei corsi! Grazie Giulio!
20 marzo 2015 alle 09:37
(Va da sé che ti cito sempre come autore dei consigli, nonché invito gli allievi a comprare i tuoi libri).
20 marzo 2015 alle 09:43
La signora aprì la porta, ma non ci fu niente da fare: la dieta non era stata sufficiente.
20 marzo 2015 alle 09:51
Carlo: condivido in pieno. Però meglio affrontare le cose che ci piacciono meno, così ce le togliamo. 😉
20 marzo 2015 alle 15:09
La signora aprì la porta, ma non poté entrare. “Dieta del cavolo”, pensò.
20 marzo 2015 alle 15:14
A me pare che le indicazioni di Giulio siano utili (io, ad esempio, ho cominciato a intendere come trasgredire certe convenzioni proprio a partire da indicazioni precise come queste). Però a volte, mi sembra, la ricezione delle indicazioni travalica la sostanza delle indicazioni: si tratta, com’è ovvio, di indicazioni per la scrittura di narrazioni credibili, convincenti, persuasive (come piace dire a me). L’obiettivo non è dunque quello di scrivere avendo come faro queste indicazioni. L’obiettivo è, evidentemente, scrivere inseguendo il segnale luminoso, diciamo, delle reazioni del lettore lungo una rotta che porta (scusate per l’eccesso di figurazione) all’unico porto sicuro possibile: il lettore crede alle parole dette, è persuaso. L’esercizio deve servire, credo io, ad acquisire una sorta di telepatia, o di sentimento del lettore – non a ridurre, come un automa, il numero di parole superflue, o a scegliere nomi e lessico secondo criteri razionali. (Tant’è vero che in alcuni casi la ridondanza risulta persuasiva e i nomi strambi, parlanti o da “commedia dell’arte”, altrettanto. Gli esempi sono molti, troppi ed evidenti a tutti).
Ecco, non sono riuscito a trattenermi. (Perdonate la maniera dello sfogo…)
20 marzo 2015 alle 15:38
… faccio trascrivere ai miei studenti i dialoghi sentiti durante la giornata (a cui abbiano o meno partecipato)… sono spesso dialoghi spassosissimi, non “sbobinature” ovvio (anche se dico: cercate di “sbobinarli” con la massima fedeltà possibile), c’è di mezzo la memoria: dialoghi spiazzanti, vitali, pieni di inaspettate direzioni, folli… in men che non si dica si “gestiscono” anche tre, quattro, cinque voci… un esercizio sempre scoppiettante e sorprendente… lo consiglierei a tutti… (forse piccolo conflitto con il punto 10: uno scrittore – e specie drammaturgo o sceneggiatore a maggior ragione – mi pare debba avere un orecchio sempre sul pulsante “on”… a volte prende anche appunti, come Pinter, che da uno scambio di battute sentito a una festa e trascritto in taxi fa nascere “il calapranzi”)… e comunque trovo che Giulio Mozzi sia uno dei più geniali dialoghisti italiani…
20 marzo 2015 alle 17:32
Grazie per i ‘sani criteri’ … Adesso mi sento come se fossi al portone di casa, dopo per aver fatto centosessant’otto gradini a piedi a causa dell’ ascensore fuori servizio. Piegato in due, mentre prendo fiato, incoccio sulla vicina di casa rompiballe che mi domanda se ho staccato luce, acqua e gas, se ho messo i fermi alle finestre, se ho chiuso in tripla mandata la serratura e inserito l’allarme… Grazie mille Giulio, adesso mi tocca rileggere 352 pagine di quel cazzo di libro che, peraltro ti ho pure mandato per mail.
20 marzo 2015 alle 17:55
@DM
“L’esercizio deve servire, credo io, ad acquisire una sorta di telepatia, o di sentimento del lettore – non a ridurre, come un automa, il numero di parole superflue.”
Guarda Daniele, quanto scrivi lo davo per ultra scontato.
20 marzo 2015 alle 19:15
Carlo: tu…
20 marzo 2015 alle 21:45
Non ho capito, Damiele
20 marzo 2015 alle 22:45
(Carlo, mi hai scritto: “Quanto scrivi lo davo per ultra scontato”. Ho commentato: “Tu [lo davi per ultra scontato]…”. Buona notte).
21 marzo 2015 alle 06:39
Salvatore, Carlo. Per esempio:
Abbiamo dunque una madre che, stando all’acquaio (o al secchiaio, se preferite) osserva il figlio chiuso in camera. Nel frattempo lo zaino, “lasciato andare”, andava di qua e di là. In alternativa, il pronome “lo” concerne lo zaino. Eccetera.
Propongo:
Nel mio esempio vengono nominate (mi spiace, Carlo…) tre stanze (ingresso, camera, cucina): si ha dunque un certo “effetto di spazio”. Ho cercato di salvare i gesti pertinenti: che la madre si asciughi o no le mani, che stesse affettando l’arrosto o curando le verdure, poco ci cambia. Ecc.
Daniele, scrivi:
Sì: le reazioni (immaginate) del lettore guidano la narrazione.
21 marzo 2015 alle 13:21
Quella cosa che permette di leggere (e cioè di immaginare) le reazioni del lettore io la chiamo, tra me, da qualche tempo: teoria della mente del lettore.
In psicologia cognitiva la “teoria della mente” è:
(Da Wikipedia).
Un manuale di scrittura è, a mio modo di vedere, un manuale per una “teoria della mente” del lettore. Un insegnante di scrittura è un addestratore nell’ambito della “teoria della mente” del lettore.
Consultati con altri scopi, credo che il manuale e l’insegnante siano poco utili.
21 marzo 2015 alle 14:24
Bellissimo articolo, soprattutto per la ricchezza di esempi 🙂 Mi porto via tutto, ma soprattutto questa frase:
“Le reazioni (immaginate) del lettore guidano la narrazione”.
Grazie!
21 marzo 2015 alle 15:02
dm, Lector in fabula?
21 marzo 2015 alle 15:16
Chiunque abbia l’abitudine di parlare a un pubblico (es. qualunque insegnante, chiunque lavori allo sportello ecc). sa che l’ordine del discorso è dato dal modo di seguirlo che ha l’interlocutore (singolo o multiplo). Tu parli, guardi chi ti ascolta, capisci se ciò che vuoi dire è passato o no, e se è passato nel modo giusto, quindi prosegui, o torni indietro, aggiungi enfasi o ne togli, e così via.
21 marzo 2015 alle 15:18
Sì, ma il lavoro del semiologo somiglia a quello dell’anatomo patologo alle prese con l’autopsia. Io non penso che si possa imparare qualcosa sullo scrivere a partire da un esame di ciò-che-già-è-avvenuto (ovvero la relazione scrivente/leggente), io perlomeno non ho imparato niente di utile per scrivere dai semiologi.
Forse abbiamo una prova: se così fosse, Eco avrebbe potuto scrivere solo libri ipermeravigliosi… (Ehm, questa qui è solo una provocazione).
21 marzo 2015 alle 15:20
(L’ultimo commento è per Deborah. Quello di Giulio non era ancora apparso.)
21 marzo 2015 alle 15:28
Ragionando invece sull’ultimo di Giulio. Su questo in particolare:
Nel caso dello scrittore si tratta di guardare l’assente…
21 marzo 2015 alle 15:42
Si,dm. Insegnando, ho sempre tenuto presente il fatto che l’ascoltatore guida le tue parole. Soprattutto capire quando lo stai annoiando, quando lo stai perdendo. Nel caso di uno scrittore, riuscire a prevedere quando il lettore sta per chiudere definitivamente il tuo testo. Come dici tu, il lettore è l’assente, quindi citavo Eco e l’approccio semiotico, perché a questo punto è una sorta di partita a scacchi all’interno del testo, si tratta – ma faccio solo ipotesi – di creare un Lettore Modello, più che guardare negli occhi una persona reale, cioé più che avere un approccio empatico come nel caso dell’oralità.
21 marzo 2015 alle 16:13
“ Venerdì 10 luglio 1998 – Uno scrittore, io penso, è uno che parla poco. Se no, che motivo avrebbe di scrivere? « Oralità o scrittura? » Ecco, bravo. “ [*]
[*] La s-formazione dello scrittore / 247
21 marzo 2015 alle 17:57
(Esatto, Debora. E io ribadivo una certa allergia alle espressioni della semiotica, in modo abbastanza esplicito. Ma io sono allergico a quasi tutto quello che ho studiato. Ciaciao.)
21 marzo 2015 alle 17:58
(Scordavo l’acca. Pardon.)
21 marzo 2015 alle 20:10
No, no, Daniele (dm), “guardare l’assente” no. D’accordo sul concetto, ma quelle parole mi sanno troppo da filosofese. Io direi: “immaginare il lettore”. Immaginare il suo scorrere la pagina, immaginare ciò che dalla pagina passa nella sua immaginazione, immaginare le sue immaginazioni. E, se possibile, prenderne il controllo (fino alla fine del testo, poi ciascuno per conto suo e amici come prima).
21 marzo 2015 alle 21:02
Allora niente. Scrivendo “guardare l’assente” avevo in mente tutt’altro che roba astratta, ma un’esperienza di tipo – mi prendo il rischio per la definizione – pratico.
Del tipo: muoversi al buio in casa propria, con le cautele di chi sa il percorso ma non è mai sicuro al millimetro.
Una cosa così.
Non mi aiuta molto l’idea di immaginare il lettore. Credo che possa essere fuorviante perché sottintende un rapporto mediato (dall’immaginazione) con il lettore, mentre per mia esperienza quella del lettore è, diciamo, una conoscenza diretta, e somiglia a… ecco, mi viene in mente mentre scrivo: è come quando stai per ricevere un colpo, che so, un cazzotto o un oggetto in traiettoria di collisione e hai perfettamente idea della sensazione fisica che ti procurerà, durante quel frammento di tempo, una nitida sensazione di mezzo secondo, ecco: una cosa così.
Ma serve un concetto (e quindi una parola); e oltretutto non è mica detto che funzioni per tutti così.
È difficile intendersi.
22 marzo 2015 alle 10:01
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“Nell’attesa che William si decida a muoversi, puoi benissimo evitare di tenergli gli occhi puntati in grembo. Perché non rivolgere invece lo sguardo a qualcuno degli oggetti del suo desiderio?”. Sto leggendo Il petalo cremisi e il bianco, in cui Faber non fa altro che rivolgersi al lettore.
“Hai già dimenticato l’uomo dalla ridicola capigliatura che tu hai preso per un passante qualunque […] qualunque cosa tu faccia, non lasciare che si perda tra la folla, perché è davvero un uomo molto importante, e ti porterà assai più lontano di quanto tu immagini”.
Più che un dialogo, Faber dà prescrizioni.
22 marzo 2015 alle 12:26
Se, a volte, i personaggi usassero stili differenti… Spesso parlano tutti allo stesso modo.
23 marzo 2015 alle 08:23
L’ha ribloggato su bibolottymomentse ha commentato:
sempre utile
7 aprile 2015 alle 10:10
è la prima volta che capito su questo blog. Complimenti per l’articolo: un breve vademecum che vale la pena tenere a mente. 🙂
15 febbraio 2017 alle 09:03
Ottimo. Bada che c’è un anonimo il quale, su un sito di annunci per adulti,sostiene di voler pubblicare, per una casa editrice seria, 69 racconti ero-pornografici.
In privato con noi utilizza interi stralci del tuo decalogo per darsi delle arie.
15 Maggio 2018 alle 18:20
[…] Dieci cose che è utile tenere presenti se si vuole scrivere un buon dialogo […]