Francesco Paolo Maria di Salvia e “La circostanza”. Prima domanda

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[Sono convinto che il romanzo di Francesco Paolo Maria di Salvia, La circostanza, sia un’opera di altissimo livello. Ho deciso di fare qualche domanda a Francesco, pregandolo di darmi le risposte più lunghe possibile. gm].

[Aggiornamento: il 4 luglio 2015 La circostanza ha vinto il Premio Berto].

[La seconda domanda e la seconda risposta sono qui].

1. Sei capace di raccontarci quando e in quale circostanza (ahi!) ti è venuta, o ha cominciato a formarsi, l’idea di questo romanzo? E di raccontare come, poi, hai lavorato?

3172038Peccato non sia possibile datare le idee con il metodo del carbonio-14. Una certezza scientifica non la posso proprio dare. Devo procedere per intuizioni. Il brodo primordiale de La circostanza si è cominciato a formare durante i primi mesi del 2006. Febbraio, o giù di lì. Ricordo un paio di immagini: mi rivedo mentre espongo il soggetto di un racconto ad alcuni colleghi del Centro Sperimentale di Milano. Due diverse occasioni: in aula, dopo la lezione, a una coppia di amiche che mi fa Ah-Ah come ai pazzi e sotto la pioggia, in Piazza del Duomo, a un’altra collega che mi dice bravo, fratellino, che genio! Si trattava di un racconto da chiudere in quindici o venti pagine come da mio standard a quei tempi. Un’idea forte. Avevo scoperto da poco come i soggetti che ritenevo più eccitanti per la mia immaginazione fossero definiti high-concept dagli hollywoodiani. Un’idea talmente d’impatto da riuscire a catturare l’attenzione di un producer annoiato, durante un pitch, attraverso l’uso di una singola frase. Era il tipo di storie che caratterizzava i miei primi racconti: un uomo è capace di morire e resuscitare a comando; gli operai sono pochi e guadagnano milioni mentre i calciatori sono tanti e fanno la fame; un ingegnere è attratto sessualmente dai computer.

L’high-concept del racconto-procariota, che si sarebbe poi evoluto fino a diventare il mostro carnivoro oggi noto come La circostanza, è il seguente: un italiano potrebbe evitare l’omicidio di Kennedy ma non si accorge neppure di averne avuto l’occasione. Cominciai a scribacchiare alcune pagine; presi molti appunti; ma gli impegni di studio invasero e conquistarono tutto il territorio dedicato alla scrittura. Ricordo di essermi trasferito di nuovo a Roma, nel giugno del 2006, per il mio stage post-diploma. Mi rivedo in un pacchianissimo internet point di Via Catania mentre cerco informazioni interessanti sull’omicidio di JFK.

Ovviamente, oltre allo stage, e poi al lavoro seguito allo stage, decisi anche di riprendere a studiare all’Università, perché senza-un-pezzo-di-carta-dove-vai? Fu proprio in quel periodo che il mio amico Guido Giovanardi mi propose di pubblicare un libricino per una casa editrice romana. La Punctum si occupa di libri fotografici; ma avevano deciso di investire in una collana di narrativa che avrebbe mandato in stampa alcuni brevi testi di autori italiani esordienti o semi-esordienti. Pensai che un trittico di racconti americani fosse una buona idea da sviluppare per il mio esordio. Mi trovavo già per le mani un organismo pluricellulare a questo punto dell’evoluzione. Mi ero cominciato a interessare all’idea di scrivere una serie di racconti in cui i protagonisti fossero degli italiani (e non degli italo-americani) negli Stati Uniti. Più precisamente: la contrapposizione tra una giornata comune per un individuo che si trova a coincidere con una giornata storica di una certa importanza. In particolare, avevo sviluppato il soggetto per la parte americana del paragrafo 11 settembre 2001, in cui fin dal concept entrava già in gioco il caffè: un giovane italiano a New York è ossessionato dall’Americano di Starbucks e prova disgusto per l’espresso. La circostanza sarebbe potuta diventare una raccolta di racconti; infatti io ero convinto di essere solo uno scrittore di racconti e mi interessava scrivere solo storie dal passo breve. Avevo in mente uno dei miei libri preferiti: Gente di Dublino di Joyce. Storie di paralisi e fuga all’italiana; la cappa opprimente formata dalla morale politica e religiosa; individui bloccati in una cultura dove la famiglia ha un ruolo centrale. Tutte le banalità che un ventenne può ritrovare nel ventenne Joyce, insomma.

I libri della Punctum vennero pubblicati nel 2007. Io avevo bucato la consegna perché, nel frattempo, il trittico di racconti era diventato un abbozzo di romanzo: Americano. Incontenibile nell’ottantina o meno di pagine richieste. Si trattava ormai di una sfida. Avevo deciso che ne avrei fatto la mia tesi di laurea da scrittore. Le obiezioni che mi avevano mosso in passato erano tante: mi dicevano che dovevo guarire dal fantastico, che mi documentavo troppo poco, che non scrivevo mai di personaggi femminili, che ero troppo breve e dovevo sviluppare di più, che mi dovevo occupare di più dell’Italia perché ero uno scrittore italiano. Va bene, mi dissi, lo scrivo, così poi lo pubblicate, e dopo me ne posso tornare a scrivere le mie allegorie, il mio fantastico, le mie angosce.

Feci leggere alcune pagine a un amico, Angelo Restaino, e gli parlai un po’ di ciò che avevo in mente di fare. Angelo mi disse una cosa che si rivelò poi fondamentale per il proseguimento del romanzo. Mi piace molto quando, in un romanzo corposo, un personaggio sparisce per un certo numero di pagine e poi ricompare più avanti. Come se una faccia familiare si riaffacciasse alla porta. Ah, ti conosco, a te! Riconobbi come anche a me la cosa piacesse molto. Feci ancora un passo indietro. Mi erano tornati in mente Manhattan Transfer e la trilogia U.S.A. di Dos Passos. Durante la mia prima annata romana di università, 2002-2003, me ne andavo in giro portandomi appresso una copia del Quarantaduesimo parallelo, che leggevo nell’attesa di essere ricevuto dai chiarissimi professori dell’Università La Sapienza. (Questa copia merita una menzione speciale. Era un libro dalle pagine marroni che era stato rilegato con un tessuto povero bianco e verde a rombi. Una prima edizione del 1934 per la Medusa di Mondadori. Traduzione di Cesare Pavese, che mi aveva colpito per la presenza di palesi bestemmie utilizzate per tradurre i god damn it americani, e questo nonostante fosse stata stampata durante il Ventennio. Ho sempre avuto un debole per i libri che hanno fatto la seconda guerra mondiale; soprattutto per quelli che ho comprato sulle bancarelle romane. Dove si trovava, questa particolare copia, durante il rastrellamento del ghetto o mentre il Gobbo del Quarticciolo faceva ammattire Kappler?). Mi comprai tutto Dos Passos che, all’epoca, era di fatto introvabile, se non a caro prezzo su eBay. Dos Passos decise di tornare a visitarmi, nei primi mesi del 2007, per dirmi: Perché non fai come ho fatto io, caro ragazzo, e costruisci un romanzo collettivo, ché in Italia, nonostante il collettivismo diffuso, non ce n’è poi molti?

Pensai quasi subito come ci fosse una struttura sociale in particolare che mi permettesse di ottenere l’effetto Dos Passos-Restaino con naturalezza: la famiglia. L’Italia è il Paese più ossessionato dalla famiglia che io conosca; ma questa riflessione potrebbe anche solo essere frutto di un mio bias, per carità. L’idea mi sembrava appropriata. Mi riguardai un vecchio progetto del 2005: La famiglia Brillerò. Si trattava delle note per un possibile romanzo che avevo preso mentre studiavo I Buddenbrook. Una famiglia di geni che si lasciano morire a causa dell’impossibilità a sfogare il proprio genio. Una roba confusissima che tradiva il mio interesse giovanile per gli scrittori Sud Americani e l’idea di usare il Meridione d’Italia come terra fertile per il realismo magico. Però, in quel disastro giovanile, c’era già un abbozzo di struttura scalettata per decenni, schede dei personaggi (Omero, Gesualdo, Francesco Paolo Maria, Eugenio, una madre vergine di nome Titina, Lulù la starletta) e un modo di costruire un archivio per il romanzo che si sarebbero poi rivelati fondamentali per La circostanza. Sempre in quel periodo, tra i libri di mio padre, trovai una biografia di Pasquale Saraceno (con cui, ci tengo a precisare, i personaggi non hanno nulla in comune, se non il cognome parlante). Il cognome evocava le giuste immagini. Pensai subito di usare il più diffuso Saracino; anche se Saraceno mi sembrava più musicale. L’esteta sconfisse lo storico: i Saraceno erano nati.

A questo punto del 2007, la struttura si basava sui paragrafi americani intrecciati ai paragrafi italiani, in un gioco per cui la parte italiana era già strutturalmente martoriata da flashback scritti al passato, per rappresentare l’impossibilità di andare avanti con la propria storia. L’idea che il presente dovesse essere narrato al passato, mentre il passato si meritasse di avere i verbi al presente, era già viva e furiosamente combattente. Decisi anche di andarci giù duro con la mimesi: volevo avvicinarmi il più possibile con lo stile del paragrafo allo stile usato negli anni che raccontavo. Per questo, per esempio, l’inizio ha una scrittura più classica, mentre nel 1974 uso il pop come repertorio classico, o in 1994 mi permetto addirittura delle fughe verso un fantastico-complottista tipico di alcuni scrittori americani dell’epoca. Anche l’idea che i paragrafi dovessero necessariamente susseguirsi in ordine cronologico era già nel mucchio. Un magnifico storicismo e progressivo, tipico dell’Italia.

Il titolo provvisorio Americano si riferiva proprio a questi diversi aspetti del progetto: l’idea di avere un confronto tra la cultura italiana e quella americana; un riferimento al caffè americano che, da Starbucks, è marcato proprio dall’espressione italiana; un occhiolino progettuale sia a Dos Passos che a DeLillo. L’idea di trattare il tema del caffè come altra ossessione nazionale era già chiara e si era trasfusa in ogni paragrafo compreso l’originale 22 novembre 1963. Il manoscritto portava una frase di Courteline in epigrafe: Si cambia più facilmente religione che caffè. Le ideologie sia spirituali che mondane erano già al centro del progetto. L’idea centrale era che si affrontassero due diverse generazioni, in ogni singolo paragrafo, e che queste generazioni si alternassero più che altro attraverso il cosiddetto ricambio fisiologico. (Comte diceva una cosa simile: la pressione che le generazioni esercitano le une sulle altre è il fenomeno più importante della vita sociale).

Seguendo le pubbliche insistenze di D’Orrico, decisi di cominciare a leggere Philip Roth con più attenzione, cosa che non avevo fatto fino ad allora. Mi insegnò tantissimo. È soprattutto Operazione Shylock a farmi intuire come modernizzare il fantastico-simbolista di Kafka senza sfociare nella descrizione auto-referenziale dei propri incubi. O l’uso violentemente sarcastico dell’auto-fiction. O Newark. Pensavo che scrivere di Salerno potesse essere visto come una roba da provinciale. Roth mi ha fatto capire, invece, quanto fosse provinciale non usarla di proposito. Roth avrebbe potuto concentrarsi solo su New York City; invece di dare attenzione anche a Newark e al Jersey Shore. Ma era quella la sua circostanza e lui non la rifiutava. Così ho introdotto la saleritanità nel mio romanzo; e mi sono cominciato a chiedere sempre più spesso: cos’è successo a Salerno che valga la pena di essere raccontato in questo libro?

A livello pratico, tecnico, scrivevo i paragrafi per cui avevo già studiato mentre mettevo da parte le idee per il resto del romanzo. La trama influenzava la struttura della famiglia e la famiglia influenzava la struttura della trama. L’archivio stava diventando enorme; però mi veniva sempre più chiara la struttura finale del testo. Tutto ciò che colpiva la mia immaginazione veniva messo da parte. L’archivio era diviso in date, temi e personaggi. Il Centro Sperimentale mi aveva insegnato come stemperare il mio intellettualismo imbecille degli esordi con la semplicità pratica della produzione di massa. I dialoghi erano più svelti e scritti a orecchio. (I dialoghi delle serie americane sono scritti da autori che devono molto a drammaturghi come Pinter, Beckett e Mamet. Franzen scriveva che le serie Tv aiutano i giovani a conoscere Flaubert, perché sono scritte de persone formate su Flaubert, così i dialoghi delle serie sono invece ispirati a esempi molto alti di drammaturgia). La struttura era spesso e volentieri divisa in tre atti per l’idea secondo la quale bisogna pensare alla struttura come qualcosa che c’è, ma non si vede, e che l’utente finale sia capace di riconoscerla d’istinto, pur non conoscendola a livello tecnico. Un’altra lezione importante era stata quella al CSC con Carlo Lucarelli: ci aveva spiegato i trucchi pratici che lui stesso utilizzava per documentarsi. Cominciai a divorare gli archivi storici e fotografici dei quotidiani online. Il motto era diventato: listare tutto, elencare tutto, archiviare tutto. In particolare, mettevo da parte tutto ciò che trovato sul caffè, e leggevo l’impossibile sul comunismo italiano, e guardavo molti documentari di costume. Lessi e rilessi le biografie di Gian Carlo Pajetta, comunista dalla prosa brillante. Volevo che il testo fosse anche un po’ romanzo-saggio. Per questa ragione, infatti, non mi vergogno a riportare fedelmente estratti dai discorsi di Berlinguer o di Occhetto.

Scalettavo; costruivo l’albero genealogico e le schede dei personaggi; mettevo da parte appunti. Fino a quando non mi accorsi di come non fossero solo più le generazioni ad affrontarsi, ma anche gli Stati stessi, i leviatani che cambiano nome, ma non la smettono mai di azzuffarsi tra loro. Cominciai a scrivere due paragrafi libici (1974 e 1994) e a prendere appunti per il terzo (2011). In questo caso, la storia libica sarebbe stata contenuta nella storia italiana, facendo da contraltare ai paragrafi in cui la storia italiana era contenuta in quella americana. Mi interessava l’idea della tensione tra la cultura cristiana e la cultura islamica come un qualcosa che andasse avanti sotterraneamente da secoli; mentre lo scontro tra i Paesi della Nato e quelli del Patto di Varsavia, ossia la Guerra Fredda, era un notizia dell’altro ieri al massimo. La Libia è il nostro pezzo di Arabia; la Grande Occasione Mancata del colonialismo italiano; lo scatolone di sabbia che si è rivelato pieno zeppo di petrolio. Mi interessava, inoltre, che i Paesi del Patto di Varsavia restassero solo sullo sfondo. Il socialismo reale è il Godot dei comunisti italiani; e, come tale, mi interessava che fosse nominato, ma che non comparisse mai in scena, eccezion fatta per la Cecoslovacchia, ossia l’arcata di ponte che precedeva l’arrivo a Mosca.

Fissai due punti chiave per il proseguimento.

1) Bisogna darsi una struttura e bisogna rispettarla. La struttura dev’essere volontaria; ma ferrea. Le eccezioni fattibili sono poche. La libertà si ritrova solo all’interno di una struttura. L’originale simbolo anarchico: la A di anarchia è perfettamente centrata dentro la O di ordine. L’alternanza dei capitoli è rigida: tre paragrafi di un tipo a contenere due paragrafi di un altro tipo. I volumi devono essere bilanciati. I paragrafi devono avere lunghezza simile. Non posso permettermi di perdere dei pezzi per strada. Tra i blocchi, inserisco un paragrafo singolo che funge da ponte/intervallo tra due diversi blocchi di paragrafi, e tra diverse epoche storiche. L’inizio è composto da tre paragrafi isolati – una riduzione ai minimi del tre più due – e funge da teaser sul personaggio chiave di Italo Saraceno. La struttura è fortemente serializzata e richiama una soap opera, ossia una serie televisiva contemporanea, e gli spot sono un richiamo al palinsesto.

2) Ogni paragrafo doveva essere basato su un’idea forte, sull’high-concept. L’incipit e la chiusa devono essere a loro volta molto forti. Non importa quanta sperimentazione tu voglia mettere in un testo: se hai perso l’attenzione del lettore, hai perso tout court anche la partita. Non importa quanta orizzontalità tu voglia dare alla tua storia; è la verticalità che tiene incollato il lettore alla sedia (o al materasso, o al commode, dipende dai gusti). Esulando dalla letteratura, penso più a Stravinskij e ad Altman, che non a Schönberg e Godard. La necessità di documentarmi era importante; ma il cervello mi si atrofizzava finché non riuscivo a trovare il soggetto forte per il paragrafo. Il corpo si rifiutava di scrivere altrimenti. Non bastava l’ammasso di dati; ci voleva l’idea. Trovata l’idea, riuscivo a scatenarmi. Ancora oggi, nella sua forma definitiva, non c’è un paragrafo che possa essere definito osservazioni sull’ombelico di un neonato o mentre guardo le rughe sulla fronte di mia zia. La circostanza potrebbe essere ricomposto in una raccolta di racconti ed essere usufruito più o meno alla stessa maniera dell’attuale romanzo.

A questo punto dell’evoluzione, raggiungiamo il 2008, o i primi mesi del 2009. Fu in quel periodo che decisi di usare gli spot della Caffè Saraceno come intermezzi. Tornando a Dos Passos, se la sua generazione aveva il cinema, la mia generazione è cresciuta con la Tv, e un certo tipo di serialità americana, perché non attualizzare i newsreel e i camera-eye della Trilogia? Per il momento, però, misi da parte gli spot. Cominciai a raccogliere i materiali che mi sarebbe serviti per svilupparli solo in seguito. Mi concentrai, invece, su come sviluppare il personaggio di Italo. Lo raccontavo attraverso le sue assenze e le sue mancanze. Non era mai attivamente in scena; eppure la sua ombra ingombrante muoveva i fili della famiglia. (Successivamente, un’amica, Rosaria, che lesse il romanzo in anteprima, mi disse come Italo gli sembrasse il personaggio meno interessante del gruppo. Ne fui lusingato. Italo Saraceno è il migliore dei gregari, il compagno Niente, l’altro conformista. La sfida era raccontare un personaggio grigio, un apparatčik, mettendolo al centro della scena. Un personaggio eroicomico che si sente molto grande nella sua esibita piccolezza). Fu anche grazie a Italo che scoprì la scrittura di Guido Morselli. Cercando romanzi non-apologetici sul comunismo italiano m’imbattei ne Il comunista e finì per scoprire un fratello morto a cui dedicai anche la mia tesi universitaria. A questo punto, però, volevo che Italo parlasse. Sarebbe stato lui il mio camera-eye. Il flusso di coscienza, però, mi è sempre sembrato falso e costruito. È come il montaggio cinematografico. Io non credo nella purezza del documentario; così come faccio fatica a credere nella purezza del flusso di coscienza. La mano dell’autore è sempre visibile. Non esiste un artefatto che non sia un artefatto. L’idea divenne, quindi, quella di fare del romanzo una sorta di mockumentary. Un documentario di finzione talmente verosimile da poter infinocchiare anche gli esperti del settore. Mischiando vero e verosimile. In origine fu Nixon; poi venne Togliatti; infine Berlinguer. L’uso dei personaggi storici, comune anche a Dos Passos, è fatto con l’obiettivo di spogliarli dal culto della persona e di riportarli al reale. (Una cosa simile è stata fatta da Morselli in Marx, rottura verso l’uomo. L’ho scoperto con molto piacere mentre scrivevo la tesi). In tutto questo, Italo avrebbe parlato finendo per svolgere la funzione di palla da baseball parlante del romanzo, portando con sé la sua circostanza. La prima persona mi sarebbe servita anche ad alleggerire un romanzo di circa cinquecento pagine che non poteva essere tutto scritto in terza persona senza causare un’epidemia di attacchi epilettici tra i lettori italiani.

Fu in quel periodo che cambiai il titolo di lavoro da Americano in L’immacolata concezione di Italo Saraceno. L’idea non era di fare un libro politico; ma un libro sulla politica come forma nevrotica di idealismo (Laing, Fromm, Reich, etc.). La scelta del Pci è stata quasi obbligata: c’è mai stata una cultura politica più ossessionata da se stessa del comunismo italiano? Inoltre, di libri sul fascismo ne è pieno, e di critiche pasoliniane alla Dc se ne cadono le librerie. A me interessava fare un’analisi del Pci come partito borghese, non come partito proletario. La mia impostazione personale è tenuta fuori il più possibile per evitare di creare un romanzo a tesi, che odio. Ecco così completato il grande trittico di ossessioni italiane: la famiglia, il caffè, la politica.

Il fatto è che il 2009 si rivela un anno veramente difficile. Storpiando John Lennon: la vita è ciò che ti capita mentre cerchi disperatamente di trovare il tempo per scrivere. Avevo rallentato molto la scrittura. Perché? Visto che la domanda è anche Come hai lavorato?, ecco un breve resoconto. Io soffro di profondi problemi di concentrazione. Ho bisogno di mettermi alla scrivania per cinque ore di fila per riuscire a combinare qualcosa. Sono fisiologicamente incapace di scrivere nei ritagli di tempo. Se ho un’ora libera, non penso neppure ad aprire Word, tutt’al più mi faccio un panino. Parto lento; per due ore non faccio nulla, se non correggere quello che ho scritto il giorno precedente, e accumulare informazioni che mi serviranno per il proseguimento della storia. Solo allora comincio a scrivere cose nuove. Ecco, dunque, come ho trascorso il triennio 2006-2009: in ufficio dalle 9 alle 19, torno a casa alle 20, dormo dalle 21 alle 23, cerco di riprendere i sensi dalle 23 alle 24, scrivo dalle 24 alle 6, dormo dalle 6 alle 8, e daccapo. I weekend alla scrivania dalle 8 alle 18. Sporadiche uscite con gli amici. Ascolto solo tre dischi mentre scrivo: il Best of dei The Ventures, Thelonius Monk with John Coltrane e i Notturni di Chopin suonati da Pollini. L’esaurimento nervoso è inevitabile.

È il dicembre 2009. Mi allontano dal lavoro; mi rifugio a Salerno sul divano dei miei genitori; mi comincio a ossessionare; allaccio un rapporto folle con una ragazza scandinava tramite internet; abbandono il romanzo; mi concentro sulla revisione dei racconti sperando di trovare un editore. Non ce la farò mai a finire il romanzo in un tempo accettabile, penso, meglio cercare di pubblicare qualcosina prima. Sia mai che qualcuno voglia una raccolta di racconti! Magari son tornati di moda! Tra i primi tre o quattro che rifinisco c’è Il superutente. Lo mando a Giulio Mozzi che ha appena lanciato La gettoniera di vibrisse. È l’aprile del 2010. Giulio mi chiama alle 7 del mattino per conoscermi telefonicamente. Io ero già sveglio: non avevo dormito in preda all’angoscia. Mi pubblica Il superutente su vibrisse; ci incontriamo a Roma per parlare dei miei progetti futuri; poi Giulio fa anche il mio nome alla scuola Holden per Esor-dire. Mando due estratti del romanzo. Vasta, Peano, Capello (e forse qualcun altro) leggono i miei testi e decidono di convocarmi a Cuneo per la manifestazione. La selezione mi ridà fiducia. Vengo appaiato ad Alberto Rollo di Feltrinelli. I professionisti presenti si affollano per darmi i loro bigliettini da visita. Vuoi vedere che la mia allucinazione non è solo individuale ma si può trasformare in un delirio collettivo?

Da ottobre 2010 al maggio 2012, allora, mi dedico esclusivamente a terminare la quinta stesura de L’immacolata concezione di Italo Saraceno. Scrissi i capitoli narrati da Italo Saraceno secondo la mia visione da mockumentary; limai tutto il limabile scritto in passato; completai le pubblicità del Caffè Saraceno. Anche qui, come per il resto del romanzo, ho cercato la mimesi massima: le prime pubblicità ricalcano gli slogan brevi e ingenui delle pubblicità radio o cartacee dell’epoca; per arrivare ai caroselli degli anni Sessanta e Settanta; e i sensuali spot usa e getta degli ultimi trent’anni.

La quinta stesura è conclusa nel maggio del 2012. Il romanzo si chiama La circostanza ed è composto da 555 cartelle. Il titolo L’immacolata concezione di Italo Saraceno non mi sembrava più appropriato al contenuto del romanzo. Avevo capito che il punto centrale non era Italo; Italo è solo la mia palla da baseball parlante. M’imbatto in un testo di Ortega y Gasset in cui c’è la frase: Yo soy yo y mi circunstancia, y si no la salvo a ella no me salvo yo. Capisco che ciò che ho provato a raccontare è proprio la circostanza. La circostanza di Italo, la circostanza della famiglia Saraceno, la circostanza degli italiani, la mia circostanza e la circostanza di te che stai leggendo; e i folli tentativi che facciamo per negarla, questa nostra circostanza. Quella fede nell’ideale che Nietzsche usa come oggetto di spregio e d’ironia in Ecce Homo. Ho il mio titolo.

Comunque, nonostante tutto, nessuno degli interessati che mi aveva dato il suo bigliettino a Esor–dire decide di pubblicare il romanzo. Lo feci leggere ad Antonella Spinella, una lettrice fortissima, che mi disse: E’ una delle cose più belle che ho letto negli ultimi tempi. E’ un mondo intero, grazie di avermici fatto vivere per un po’. (…) Si vede che ci sono un sacco di cose dietro, è pieno di cose ma non si vedono, i fili cioè, sono tutte tenute assieme benissimo e inoltre lo stile è migliore di quello di molti libri pubblicati, cioè è personale e non piatto. Io credo più a lei che agli altri, a questo punto della mia vita, e non mi deprimo come avrei fatto in passato. Mi trasferisco a Praga; conosco la mia adorabile Svitlana; e faccio una pernacchia a tutti davanti a un boccale di birra.

Non scrivo più nulla tra il maggio 2012 e il settembre 2013. Comincio a lavorare a L’eutanasia, il mio attuale progetto. Continuo a mettere da parte notizie e dettagli per l’archivio. Riprendo il testo in mano solo per fare delle correzioni minime all’incipit prima di spedirlo al Premio Calvino. Mia madre mi costringe con la forza a spedire il plico al premio; io non ci credevo poi molto.

La telefonata di Mario Marchetti fa da catalizzatore al resto della storia. Sì, sei in finale al Calvino, proprio tu. Torino, maggio 2014. Addirittura una menzione speciale della giuria! Troppa grazia per una stesura nemmeno definitiva! Giulio Mozzi mi chiama e mi dice che i ragazzi di Marsilio sono interessati al testo. Li facciamo attendere un po’ a causa dei fisiologici tempi post-Calvino; poi firmiamo il contratto. Mi metto subito al lavoro per completare la limatura, così da consegnare a Marsilio quella che sarebbe stata, per me, la versione ottimizzata del testo. L’inizio che mi era sempre sembrato troppo lento prende finalmente una forma soddisfacente usando i feedback ricevuti al Calvino; tutto il superfluo viene tagliato; c’è la riscrittura dei paragrafi ancora giovanili; do una voce più dialettale a determinati personaggi, incluso l’anarchista Belgrado; termino lo spoglio di tutte le cartelle dell’archivio per spremerne fino all’ultimo il contenuto e inserire tutto ciò a cui tenevo davvero e che fosse funzionale al romanzo. Il motto è: Importa solo ciò che il romanzo pensa di se stesso. Ossia: tutto ciò che è irrilevante, che è puro sfoggio, che è messo lì solo come frecciatina, va tagliato via. Arriviamo agli ultimi mesi del 2014. Il piacere di fare l’editing con Giulio Mozzi in persona. C’è lo scambio delle bozze tra la redazione e me. Il 26 febbraio. L’uscita in libreria. La circostanza mi arriva a Praga che è bello e stampato; lo metto sulla scrivania; lo guardo e neanche lo tocco per qualche ora.

Il percorso dall’idea di fare un racconto su JFK a la pubblicazione de La circostanza è il percorso che ha forgiato il mio stile. Ho lavorato su me stesso e sul romanzo per quasi nove anni. È stata la mia tesi di laurea da scrittore. La costruzione di me stesso e la complessa ricerca della semplicità. È la storia di come ho imparato a dialogare in maniera rapida e funzionale. È la storia di come ho imparato a documentare le mie asserzioni. È la storia di come ho approfondito Dos Passos e DeLillo e scoperto Roth e Morselli. È la storia del rigore assassino che ogni amante della libertà deve imporre a se stesso se vuole davvero concludere qualcosa di reale e fattivo. Io ho programmato La circostanza; ma La circostanza ha anche, e molto, programmato me.

[La seconda domanda e la seconda risposta sono qui].

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16 Risposte to “Francesco Paolo Maria di Salvia e “La circostanza”. Prima domanda”

  1. Giulio Mozzi Says:

    Che domanda vorreste fare a Francesco?

  2. Patrizia Says:

    Ha imparato a documentarsi, a scrivere dell’Italia e a sviluppare di più, in seguito alle obiezioni che le erano state mosse, ma come ha superato – se lo ha superato – lo scoglio dei personaggi femminili?

  3. Andy Says:

    Sul punto 1 riguardo alle regole del proseguimento, mi colpisce il richiamo alle Serie tv: qualche dettaglio in piu’ sull’argomento sarebbe interessante.
    Ed in generale qual’e’ stata l’influenza – se influenza c’e’ stata- di forme di comunicazione non scritte- o non esclusivamente scritte- sulla sua formazione in generale e sulla realizzazione de “La circostanza” in particolare.

  4. Leonardo Colombati Says:

    Iniziato a leggere.
    !!!

  5. felicemuolo Says:

    A me a leggere il resoconto ha fatto venire il mal di testa…senza nulla togliere.

  6. gian marco griffi Says:

    Da Perceber a La circostanza passando per la Dissoluzione familiare. E poi il mio preferito, per via della mia venerazione nei confronti dell’arte del racconto, Pausa caffè. D’ora in poi volendo leggere un libro di letteratura italiana contemporanea potrei direttamente telefonare a Mozzi e chiederci che libro sta riuscendo a far pubblicare. Vale sempre la pena. Perché Mozzi ci capisce. Mozzi, e sai cosa leggi.
    Ps: dovevo fare una domanda all’autore de La circostanza, ma adesso leggo il libro che l’ho appena comperato, poi al limite domando, perché così su due piedi non mi viene in mente niente.

  7. Giulio Mozzi Says:

    Gian Marco: e pensa che robe sono, quelle che non sono ancora riuscito a far pubblicare.

  8. RobySan Says:

    Lo pensa, Giulio, lo pensa.

  9. mauro b. Says:

    anche io ho comprato questo e ho cominciato a leggere Perceber e La dissoluzione familiare, trovandoli veramente notevoli, a volte anche troppo. Per curiosità, se puoi, Giulio: quanti soldi ci vogliono per investire su di un’opera?

  10. Giulio Mozzi Says:

    Mauro, la risposta giusta è: dipende. Dall’opera, dall’editore, dalla personalità dell’autore (mi spiego: un autore che si mostra volentieri, ossia che aggiunge il suo investimento personale a quello dell’editore, è cosa diversa dall’autore che preferisce starsene in santa pace), dal momento ecc.

    Sul romanzo di Francesco ha investito prima la giuria “popolare” del Premio Calvino, mandandolo tra i finalisti; poi ha investito la giuria finale, che gli ha dato una “menzione speciale”; poi ha investito l’editore Marsilio, che lo ha pubblicato e lo sta seguendo con tutta l’attenzione che si può; nel mio piccolo ci sto investendo io, suggerendone la lettura ai miei ventiquattro lettori; in un modo ben misurato ci sta investendo ulteriormente l’autore – e dico “ulteriormente”, perché lui ci sta investendo da otto anni e passa…

  11. Francesco Paolo Maria di Salvia e “La circostanza”. Seconda domanda | vibrisse, bollettino Says:

    […] Nella prima risposta ci hai rivelato che, per un certo tempo, il titolo del romanzo è stato L’immacolata concezione […]

  12. “La circostanza” vince il Premio Berto | vibrisse, bollettino Says:

    […] vibrisse, tre domande (serie) e tre risposte (lunghe) su La circostanza: – prima domanda (come hai fatto a farlo?), – seconda domanda (immacolate concezioni e messianismi), – […]

  13. monicawintersmonica Says:

    se “saleritanità” è voluto scritto così…

  14. Maurizio CACCIATORE Says:

    Quante volte una casa editrice medio-grande chiede all’autore di aggiungere un investimento economico a quello dell’editore?
    * * *
    Francesco (di Salvia), sono rimasto affascinato dalla tua allucinazione che esattamente nel suo essere individuale ha il potere di trasferibilità a un collettivo, fosse anche costituito dal singolo. Poi, a costituirlo come delirio, questo lo determina la modalità di transfert.
    Ecco la mia modalità: la circostanza mi ha portato a leggere queste pagine che ti riguardano perché sto “confezionando” il mio plico per il Premio Calvino; la circostanza mi ha preso per la collottola per non attendere la risposta delle case editrici a cui ho inviato il mio romanzo (tra cui Marsilio/Giulio Mozzi) e non passare al successivo ma plasmarlo al meglio secondo le specifiche del mio progetto di renderlo un ipertesto per e-book; la circostanza ha voluto farmi scoprire quanto fosse fattibile la mia (non completamente arbitraria) scelta di iniziare con il genere fantastico, pur se con una storia che si sviluppasse nel nostro spazio-tempo per scoprirne ogni ossessione e mancanza; la circostanza mi ha visto sempre più divoratore di questa tua “risposta” a Mozzi, man mano – lettera lettera – che le scene del tuo vivere si sono plasmate sulle modalità di realizzazione del tuo testo.
    Quale transfert ho “subito”? Quello di una famiglia di scrittori che trova ogni suo membro ben sezionato tra paragrafi americani e paragrafi italiani, paragrafi caffeinomani e paragrafi sul politichese… Una famiglia che non sa e non può materialmente esserlo ma che la rafforza idealmente.
    Magari, per contraddirmi, un dì, potremo prenderci un caffè insieme. E prima avrai scritto qualcosa “sul vino”, brinderemo con un calice di vino casereccio!

    Vorrei commentare l’assioma «la A di anarchia è perfettamente centrata dentro la O di ordine» e, dunque, la griglia di lavoro che ti sei imposto. Tuttavia, qualsiasi apprezzamento o critica fatti al tuo primo punto chiave sulla struttura non potrebbe che essere generalizzato e generalizzante: prima leggerò le altre risposte, e il tuo libro.

  15. Maurizio CACCIATORE Says:

    Ho appena riletto quanto pubblicato appena sopra: scusate i refusi – soprattutto quelli verbali.
    Ci si legge.

  16. Francesco-Paolo Maria Di Salvia Says:

    @Patrizia: Concentrandomi sugli individui; più che sul genere sessuale in sé. Costruendo individui sulle mie amiche, sulle mie fidanzate, sulle mie parenti, su alcuni personaggi pubblici, su alcuni personaggi di finzione; infischiandomene di possibili accuse di misoginia (alla Kakutani su Roth, per intenderci, o alcune cose deliranti che ho letto addirittura su Madame Bovary) che sarebbero potute arrivare per la descrizione di alcuni “dettagli femminili” più sconvenienti (così come non mi preoccupo se un “maschio” spara in testa a un altro: non è misandria; sto descrivendo un certo tipo di violenza umana).

    @Andy: Il discorso sulle serie tv sarebbe molto lungo da fare. Io ho studiato proprio la “lunga serialità” al CSC e mi sarebbe piaciuto fare quello che negli Stati Uniti è chiamato creative producer e show-runner. In Italia, la circostanza attuale, non lo consente. La serialità è stata importante nello studio della c.d. struttura orizzontale (tipica della soap) e di quella verticale (tipica dell’episodio auto-concluso), entrambe applicate nel romanzo. Anche la rapidità di dialogo e il processo di cambiamento lungo e costante del personaggio (il “growth, decay, transformation” di Breaking Bad) son stati importanti nella mia formazione e in quella del romanzo. Per le altre forme “non scritte”, posso dire di aver riguardato più volte “C’eravamo tanto amati”, e i film di Altman, nonché di aver avuto più di un quadro nascosto nel mio folder delle ispirazioni.

    @Monica: Nope. Refuso. Dovrebbe essere “salernitanità”.

    @Maurizio: Io continuo a investire; in tempo, risorse e, spesso, anche in biglietti ferroviari. 🙂 Ti ringrazio per i complimenti. Non possiamo che vivere di allucinazioni, in alcuni casi. Il vino casereccio è sempre ben accetto.

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