[Questo è il trentunesimo articolo della serie La formazione dello scrittore, parallela alla serie La formazione della scrittrice. Ringrazio Ivano per la disponibilità. Le due rubriche ormai escono irregolarmente, seguendo l’arrivo dei contributi. gm]
Domenica è morta mia nonna Teresa.
Aveva 86 anni e andava per gli 87. La testa, ormai, andava e veniva. Quando veniva diceva cose come: È ora che io vada. Non parlava di essere stanca o meno, ma di necessità; e in questo è stata la nonna di Correggioverde, in provincia di Mantova. (Per quella di Napoli ricordo sempre una delle due imprecazioni più divertenti che abbia sentito in vita mia, un giorno che la esclusero da un problema tenendola all’oscuro di quanto stesse realmente accadendo: Azz, cazz e stracazz).
Quando la testa andava, la nonna Teresa diceva: C’è il prete nell’aia – e non c’era nessuno –, oppure: C’è il nonno, e il nonno sono due anni che è morto.
Ho assistito alla cerimonia funebre, officiata da un prete cieco, in una panca della terza fila della chiesa di Dosolo. Quella di Correggioverde, una chiesolina di campagna, è inagibile dal terremoto. Quando sono arrivato al cimitero che stava proprio di fronte alla casa della nonna, nel mio dolore di petto causato dalla bronchite, ho pensato: Se ne vanno radici che non ho mai voluto. Un pensiero patetico.
Poi ho visto l’inserviente del cimitero darsi da fare come un pazzo con la pala per caricare dal cumulo di terra quanto più peso, e rovesciarlo sulla bara; caricare e rovesciare; caricare e rovesciare. Quando l’inserviente, dai capelli bianchi, si è girato, ho scoperto che non di quello si trattava ma di mio zio Ivano. Aveva detto al vero inserviente di farsi da parte, e con un’intelligenza che gli è tutta nelle mani, e che sempre e solo nel lavoro si è rivelata, ha deciso che l’addio a sua madre avrebbe dovuto darlo in un modo solo: con il lavoro. Ci sono volute le insistenze dei fratelli, e alcuni minuti di sessanta secondi l’uno, per fermarlo.
Mi sono chiesto come abbia deciso, lo zio Ivano, di spalare lui. Mi sono risposto che non se lo è chiesto come me lo chiedo io, ossia con la testa: le mani avranno afferrato la pala, gli occhi avranno studiato il parallelepipedo d’aria, i piedi si saranno fissati sull’asse di legno appena scricchiolante poggiato a metà sulla terra e a metà sulla neve. Il resto è stato quello che chiamo: lavoro.
Racconto tutto questo perché è da tempo che penso a cosa dire in merito alla mia formazione di scrittore. E della mia formazione di scrittore posso dire una cosa che può apparire presuntuosa, ma che presuntuosa non vuole essere: sono un predestinato.
Con questo intendo che come mia nonna Teresa era una predestinata alla terra, e aveva l’orto di fronte a casa e il roseto sulla sinistra e le vacche nella stalla accanto, e tutte le sue azioni erano azioni di terra e cucina, e come mio zio Ivano è un predestinato al lavoro, e tutte le sue azioni sono azioni di lavoro, e come mio padre era un predestinato alla genialità manuale, e lo vidi diverse volte aggiustare l’auto con pezzi presi dalle retìne del lambrusco o da rettangoli di latta avvolti, io sono un predestinato alla scrittura. Nel senso che il mio regno è quello, e io vivo di parole e di fatti che per poter essere raccontati hanno bisogno di infilarsi come pedoni degli scacchi in pezzi a triplo piombo e poi esser promossi a parola, e dove le parole non arrivano mi sento un po’ come un naufrago, un po’ come lo scemo del villaggio – in parte alla ricerca della sopravvivenza, in parte con la sensazione di non farcela.
Ho cominciato a scrivere a diciassette anni, dico sempre, con qualche canzone e qualche raccontino su pagine di Quablock a quadretti, passato rapidamente dal racconto d’effetto all’erotico per poi tornarsene sui propri passi. Ma l’inizio è stato prima, a dire il vero, quando uscirono in edicola quei librogame della Mondadori nella collana “Scegli la tua avventura”: dovevi effettuare una scelta a fondo pagina che avrebbe modificato l’andamento della storia e, preso dal meccanismo, me ne inventai – con un certo successo – alcuni. Devo quindi retrodatare di quattro anni almeno il mio ingresso nella produzione delle parole scritte. Ma poi ci penso e so che l’inizio è stato ancora precedente, quando leggevo tutto quello che avevo sotto gli occhi con l’intenzione, chiara, di ricordarmelo tutto. Perché, diciamocelo, per me non solo non esiste uno scrittore che non sia lettore, ma nemmeno un lettore che non sia scrittore: sono convinto, probabilmente sbagliando (ma i pensieri sbagliati hanno una qualche loro utilità, spesso), che il processo della lettura sia in sé un processo di produzione, di masticazione, di deglutizione – spesso inconsapevole. Per questo trovo sciocco ogni slogan sulla lettura: per me non è importante leggere, ma leggere bene.
Questo, però, lo dico ora che le mie convinzioni si sono un po’ cristallizzate, un po’ istupidite. Allora, quando iniziai, avevo un pensiero più netto, che era: quello che leggerò prima o poi mi servirà. O, meglio: quello che leggerò mi salverà. Bollette della luce, insegne luminose, cartelli stradali, ricette, commedie di De Filippo o Scarpetta a casa della nonna di Napoli – che, per combattere la demenza senile, imparava a memoria e declamava Vincenzo de Pretore o ‘A livella –: leggevo tutto quello che mi capitava sotto mano, spesso infilandomi sotto un plaid pesante, fosse a casa della nonna di Napoli o nella soffitta di quella della nonna di Correggioverde o sul soppalco di casa mia, come a voler restringere l’intero mondo allo scritto e me e a escludere tutto il resto. Per questo, per una questione di sopravvivenza, la lettura diveniva vorace e includeva le storie di Paperino, che vado a comprare in edicola da quando so leggere (quindi dai miei quattro anni), quelle di Zagor, quelle di mister No, e poi i primi libri. Il resto non esisteva e non doveva esistere: non esistevano i litigi dei miei nonni, Vincenzo e Maria, e quelli dei cinque fratelli di mio padre; non esistevano il bullismo che subii alle medie, non esistevano i tre anni d’età che mi separavano da mio fratello e che lo portavano alle medie quando io ero alle elementari, e poi alla ragioneria quando io arrivai alle medie, e poi ancora via, in una rincorsa per la quale maledissi l’intero ciclo scolastico. In tutto questo l’unica cosa che mi poteva aiutare a seppellire in tante piccole tombe sulla sabbia, come ne La follia di Almayer, i miei dolori era la lettura, e poi la scrittura – che era scrittura reale, vera: quella volta alle elementari che scrissi mammma con tre emme di seguito scoppiai a piangere, perché violare la parola significava, in qualche modo, tradire lei.
Ecco: per me la parola ha sempre avuto quel significato, e sono convinto che, se devo indicare il momento in cui sono diventato scrittore predestinato, è stato quel giorno alle elementari, avrò avuto sette anni, in cui ho pianto per aver scritto mammma.
Da lì, da quel momento, posso srotolare tutto il nastro che spiega perché sono stato lettore, poi scrittore, poi insegnante. Come lettore conosco a memoria la lista dei libri che mi hanno cambiato la vita – e con “cambiato la vita” intendo: mi hanno aiutato a far dare una poderosa virata alla mia esistenza quando ne avevo urgente bisogno. In questo scritto il focus non è sulla lettura, e qui la lista dei libri non credo importi; credo importi molto il fatto che quando parlo di libri sono costretto a infilarci dentro anche materiale che di fatto libro di narrativa o saggistica propriamente detto non è, ma che – cosa fondamentale – ha avuto forma scritta, come il fumetto, il cartone animato, il film.
Per quanto riguarda il passaggio alla scrittura ha avuto diversi momenti nei quali, storicamente, ho sentito come il tappo saltare e le storie prendermi, tutte insieme, e avere urgenza di essere narrate. Come mio zio Ivano davanti alla terra, questo Ivano qui non ha potuto fare altro davanti alle storie che gli si proponevano alla mente se non stringere la sua, di pala, ficcarla nella sua, di terra, e piantare i suoi, di piedi.
Questo mi ha portato, tra l’altro, a scrivere tutti i racconti che inizialmente componevano La conservazione metodica del dolore, a oggi il mio unico romanzo pubblicato, in venti giorni – al ritmo di uno al giorno; e produrre poi altri scritti, a oggi inediti – e sicuramente migliori di quanto ci sia di mio in circolazione – in tempi fin troppo rapidi per la mia costituzione piuttosto lenta.
È che quando scrivi credo che arrivi un momento in cui ritieni fondamentale sostituire al concetto della giusta domanda quello della giusta affermazione. A me hanno sempre chiesto Perché scrivi?, a cui posso solo opporre la risposta: Boh. Perché non credo che sia giusto porre domande a chi produce arte – o, meglio, credo che a volte abbiamo la testa tanto intasata da punti interrogativi che aggiungerne uno di questo tipo, così subdolo e onnicomprensivo, abbia il solo effetto di bloccare l’intero processo. Per me la giusta affermazione, in mezzo a tutti i Non posso e Non puoi che mi sono detto o mi sono sentito dire, è: Puoi, detta al momento giusto. Come la vecchia storiella dell’euro per la martellata e i novecentonovantanove per aver saputo dove e quando darla.
Quel Puoi, detto al momento giusto, è il motivo per cui insegno: perché io che posso dire tutto, e su quel tutto devo scegliere, l’ho dovuto capire di mio, dopo tanta fatica, e ancora mi ci sto arrovellando su, e credo che se me l’avesse detto qualcuno prima, col tono e nei modi giusti per me, magari – chessò – avrei risparmiato un po’ di tempo, o soldi.
Ho detto perché leggo e perché insegno. Ora vorrei dire perché scrivo, e perché son sicuro che avrò fortuna.
Io ho avuto una nonna che ho frequentato poco, di Correggioverde, che aveva un orticello davanti a casa. Era la nonna che mi regalava solo magliette di lana che pungevano, e sapeva che ero goloso di uova e quindi me le prendeva la domenica mattina, prima che arrivassi con mia madre e mia sorella, o mi indicava dove fossero state deposte – e mi diceva Ma lasciane una. E ho avuto una nonna di Castellammare di Stabia, in provincia di Napoli, che mi mandava a ritirare il fustino del Dixan dalla signora Sisina. Solo che la signora Sisina ritagliava il fustino per fregarsi l’orologio premio, e quindi io tornavo a casa della nonna col fustino ritagliato e lei diceva S’a futtuto ancora l’orillogio, chella zoccola. Le mie fortune non sono legate all’invenzione, voglio dire. Ma al fatto che, dopo aver rinnegato mille volte le mie radici, e aver sputato sulla terra di Viadana e quella di Napoli, ho capito che a volte puoi pure fare la figura del coglione agli occhi di tutti, in un gelido mattino di febbraio, ma prendere il badile con le due mani e mettere sul legno che sei stato e sei tutta la terra che puoi sicuro che darà conforto a quelle radici, calore ai tuoi piedi, storie a te.
Tag: Ivano Porpora, Joseph Conrad
19 febbraio 2015 alle 08:22
Sempre piene di emozione, sentimento (non sentimentalismo!), passione, calore e sorpresa le tue parole.
19 febbraio 2015 alle 09:20
Avrei voluto scrivere un commento al suo bellissimo articolo, ma le mie parole di fronte alle sue apparirebbero banali.Mi ha emozionato come la lettura del suo libro. Buona giornata
19 febbraio 2015 alle 12:21
Parole davvero toccanti. Complimenti!
19 febbraio 2015 alle 14:13
Quello di Ivano è un pendolo puntuale, oscillante tra la previdente pianura mantovana e la solarità della nonna di Castellammare. (Quest’ultima un po’ mi ricorda il Locusto di L’Abusivo, di Antonio Franchini).
Trovo che il passo illuminante sia quando scrive:
“Le mie fortune non sono legate all’invenzione, voglio dire. Ma al fatto che, dopo aver rinnegato mille volte le mie radici, e aver sputato sulla terra di Viadana e quella di Napoli, ho capito che a volte puoi pure fare la figura del coglione agli occhi di tutti, in un gelido mattino di febbraio, ma prendere il badile con le due mani e mettere sul legno che sei stato e sei tutta la terra che puoi sicuro che darà conforto a quelle radici, calore ai tuoi piedi, storie a te”.
In quella terra gettata nel fosso si intravede il passaggio della linea di ombra, dunque il via a un esistenza adulta.
Perchè maturità emotiva ed empatico distacco generano i prodotti migliori dell’orto di uno scrittore.
19 febbraio 2015 alle 14:21
Leggo solo ora, del che mi scuso, l’incipit del suo romanzo, La conservazione metodica del dolore, Einaudi.
Zac: “Io sono epilettico. Eàeàeàeàeà è il mio urlo di battaglia.
L’ho urlato tanto forte da spaccarmici la testa, una cicatri –
ce sopra l’occhio sinistro; la bocca prima spalancata, poi
serrata a mordere la lingua finché non diventava viola e
nera. Sono epilettico e sono un fotografo.”
Come piace a me. Ciao, Ivano, e buona fortuna.
19 febbraio 2015 alle 16:29
da sopra:
“”Ho detto perché leggo e perché insegno. Ora vorrei dire perché scrivo, e perché son sicuro che avrò fortuna.””
..non è un filo vanitosa come affermazione?
19 febbraio 2015 alle 16:52
Non è un filo vanitosa, Ludovico. Sarebbe vanto se dicessi “Ho scritto cose che voi umani”.
Se non pensassi di aver fortuna limitatamente a quello che al momento è il mio unico campo da gioco, credo sarei dissennato.
Ogni volta che presento un libro dico: “Di cosa stiamo parlando?”. Non ho,sinceramente, tempo da perdere con il vanto o il non vanto. C’è troppa roba da fare al mondo.
(Però grazie, eh?).
19 febbraio 2015 alle 16:53
Mille grazie, Antonio, e mille grazie, Deanna. E anche a Sara.
Carlo: il tema del passaggio alla maturità è una sorta di fil rouge della mia scrittura, al momento. Lieto si noti.
19 febbraio 2015 alle 17:20
Dichiarare cosa si ha avuto in eredità, è il contrario del vantarsi.
20 febbraio 2015 alle 12:14
Un annetto fa scarico l’e-book della ‘Conservazione metodica’ in seguito a segnalazione mozziana. Verso p. 52 compare sullo schermo un messaggio FB di Ivano, che non conosco. Rispondo che lo sto leggendo.
Abbandono la lettura per qualche mese: l’estate porta nuovi estratti e volumi da leggere. Non ci sentiamo più: mi vergogno a comunicargli che non ho ancora terminato il suo libro .
A settembre ci risentiamo in nome dello sport (lui alle prese con training pesanti, io con la danza). Mi dico che uno scrittore così determinato a farsi del bene è da conoscere; perla rara.
Partecipo a un suo corso di scrittura a Milano. Dal primo istante capisco che questo Ivano qui è persona rara davvero. ‘Predestinato’ è l’espressione giusta. Come insegnante, azzardo un poco sobrio ‘strepitoso’: mai troppo avanti o troppo indietro rispetto agli stadi umano/letterari di noi allievi. Attento e incoraggiante nel valutare i nostri percorsi, anche quando gli elaborati griderebbero vendetta. E invece no: Ivano sempre in attesa del varco sfuggente in cui ci vede annaspare e qualche volta persino infilare.
Divoro il suo libro, straccio il mio obbrobrio di racconto nell’ultima settimana utile.
In lacrime gli scrivo perché non posso andare avanti.
In maiuscolo mi risponde: FINALMENTE.
‘Fortuna’, per Ivano, è una delle poche cose su cui ho zero dubbi.
20 febbraio 2015 alle 12:59
Questo mio è un grazie cui non so dare la dimensione del Grazie.
Parlo di G. e parlo anche degli altri allievi, cui dovrò dedicare, prima o poi, la formazione dell’insegnante. Perché in fin dei conti è tutto un altro capitolo.
Io stamattina sono entrato a scuola per presentarmi a una prima media cui insegnerò l’Odissea.
Ho detto loro che ancora non sanno quanto sarà importante per loro l’Odissea.
Ho detto loro che l’unico modo che avranno per salvarsi dalle voci che dicono dei tifosi del Feyenoord, o dalle voci che dicono dei poliziotti, e l’unico modo che avranno un giorno per non colpire una statua del Bernini, è sapere – oggi – chi sia il Bernini per loro.
Questo per me significa insegnare: cercare di capire a fondo, in quel cunicolo di cui parla G., perché ci sia quel cunicolo, rispettarlo fino al momento giusto e al momento giusto aiutare l'(allievo? amico?) a uscire.
Come si fa con un cannolicchio.
Ma questa è un’altra storia ancora.
21 febbraio 2015 alle 11:21
Raccontaci anche questa!