La formazione dell’insegnante di Lettere, 11 / Emanuela Scicchitano

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di Emanuela Scicchitano

[Questo è l’undicesimo articolo della rubrica La formazione dell’insegnante di Lettere, che si pubblica in vibrisse il mercoledì. Gli insegnanti che volessero partecipare possono scrivere al mio indirizzo, scrivendo nella riga dell’oggetto: “La formazione dell’insegnante di lettere”. Ringrazio Emanuela per la disponibilità. gm]

Emanuela_ScicchitanoSono cresciuta dentro una biblioteca di ciliegio, divisa fra pannelli chiusi e varchi aperti che si alternavano fra loro in un gioco di pieni e vuoti, fra i quali mi perdevo. Puntualmente alla ricerca di un libro che fosse sempre più nascosto e impolverato di quello che la mia mano riusciva a raggiungere. Quale fosse l’ordine per cui un libro potesse essere disposto e disponibile sullo scaffale a vista o adagiato e dormiente nella pancia di quella libreria ancora mi sfugge. E i cambiamenti che i libri hanno subito nel tempo fra traslochi, dismissioni e acquisizioni mi hanno sempre depistata, fin quando non sono stata abbastanza matura per far miei i libri attraverso alcuni adolescenziali criteri di sistemazione: tutti basati su istintive modalità di abbinamento, che nessun sistema Dewey tiene in conto. Una volta affinate, non permisi più a nessuno di metterle in discussione: mi erano costate anni di ripensamenti ed esplorazioni, tutte elaborate dal mio punto di osservazione privilegiato: la neoclassica poltrona di pelle punzonata che fiancheggiava la libreria e mi permetteva di vivere, lì seduta, le mie pigre avventure di pensiero di bambina molto lettrice e poco saltellante. Eppure ero contenta di avere ciò che allora mi bastava: mi bastava stare in compagnia di me stessa e dei miei libri: ovvero, dei libri che mia madre, insegnante di italiano, aveva accumulato nel suo tempo. Ma anche nelle case altrui cercavo i miei libri: mia nonna li teneva accatastati dietro al divano del suo soggiorno e cercavo sempre di acquisirli a me. Tutte queste letture, bulimiche e poco consapevoli, me le tengo dentro come l’odore di cuoio della poltrona di casa mia o del sugo caldo di pomodoro che mia nonna mi faceva assaggiare, prima di condirci la pasta, mentre leggevo i libri che, a casa sua, i figli avevano deposto nel tempo.

Sì, sono stata una bambina “poco uscita”: me lo ricorda, ridendo, il mio fidanzato, anche lui insegnante, che ha trascorso la sua adolescenza in un’isola del Mediterraneo simile a quella di Arturo. Ma io gli inseguimenti sugli scogli o la noia della pesca non li ho vissuti uscendo, ma solo entrando in un libro che me la raccontasse. L’isola di Arturo della Morante, appunto. Ma non rimpiango l’essere “poco uscita”: ci rido sopra con nostalgia e consolidata abitudine. E con lo sguardo retrospettivo di chi, poi, è diventato insegnante di lettere e si è ritrovata un deposito di letture a cui attingere e con cui confrontarsi. A volte, molto aspramente.

L’asprezza mi è derivata dalla scontro fra le mie presunzioni e la scuola, che mi suggeriva di acquisire un metodo che mettesse ordine nelle mie letture. Io pensavo di averlo e di non avere bisogno di molto altro. Sì, ero presuntuosa e già alle scuole medie ritenevo di aver acquisito molto in termini di metodo e linguaggio. In fondo già usavo nei compiti la parola “oblio”! E su quella arcaicità pregustavo la mia bravura. Ma nessuna bravura scolastica regge il confronto con i testi: quelli ti interrrogano più profondamente. E io quella profondità di lettura non ce l’avevo. L’ho capito tutto d’un botto il terzo giorno di scuola della quarta classe ginnasiale, quando il professore di lettere, all’epoca docente plenipotenziario di una classe (5 materie insegnate in una classe sola per diciotto ore settimanali), mi diede da svolgere l’analisi della poesia Soldati di Ungaretti. E io redassi un commento, tutto improntato al bello scrivere. È ovvio, pensai, che piacerà all’insegnante. Ma non fu così. Mi disse che non era un’analisi, che non faceva parlare il testo, non gli faceva dire ciò che voleva dire. Non era una esibizione del testo, ma mia. Non scorderò mai quel giudizio: provai anche a odiare il professore Zimatore, così avrei attribuito solo a lui la responsabilità di non capire il mio genio. Ma non ci riuscii. Forse non aveva capito il mio genio, ma aveva ben capito e valutato il mio compito. Da allora nacque un viaggio nella letteratura diverso e ribaltante, direi. Sì, ribaltante: prima ritenevo che i testi fossero al mio servizio: allungavo la mano nella biblioteca e li prendevo, come se fossero pronti solo per me e per i miei vuoti. A quattordici anni, nell’aula della 4° B del Liceo classico “Pitagora” di Crotone, secondo banco della prima fila, c’era chi mi spiegava che loro, i testi, allungavano la mano verso di me per prendermi e avere di nuovo voce.

Insomma io avevo una voce da prestare e non importava che fosse stonata o acerba: potevo educarla, accordarla attraverso lo studio e la tecnica di analisi. Si aprirono così due anni di lavoro sulla mia voce interpretativa: furono densi e ben mirati; soprattutto sui grandi classici della letteratura italiana e straniera: l’esercizio passa da lì, mi veniva ribadito. E il professore Zimatore non era, non fu l’unico a dirmelo: me lo ricordava mia madre, che mi incoraggiava alla loro lettura; e qualche anno dopo lo riaffermò il mio professore di letteratura italiana all’Università della Calabria, il professore Merola, anche quando dovetti scegliere gli argomenti della mia tesi di laurea prima e del dottorato poi: esercitati, rafforzati sui classici, poi il resto verrà. Così feci, sia al liceo e all’Università.

E seguii un altro consiglio: non disdegnare mai le buone antologie; se sono ben fatte, ti faran venire voglia di leggere gli originali da cui i brani sono estratti. Era vero: le antologie potevano riservare molte sorprese: autori sconosciuti; brani, a volte, desueti; accostamenti tematici lontani nel tempo e nello spazio. L’importante è che fossero d’autore e che costituissero punti di partenza e non di arrivo, a cui arenarsi disperati come se tutto potesse essere ridotto a lacerti privi di contesto. E con le antologie costruii un bel rapporto: grazie a loro mi venne la curiosità di leggere le mie prime sillogi di poesia come, ad esempio, I fiori del male di Baudelaire o l’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters. Poi, più matura, grazie all’antologia poetica del Novecento di Mengaldo scoprii i Canti orfici di Dino Campana o la Beltà di Zanzotto. Ecco perché, da insegnante, non ne disdegno l’uso e mostro ai miei studenti che un’antologia può essere una piacevole mise en abyme, se si va oltre.

La mia formazione ginnasiale mi instradò, dunque, sulla strada della lettura e dell’analisi dei testi e sul lento abbandono della forma di scrittura verso la quale ho sempre mostrato maggiore insofferenza: il tema. Sì, per fortuna nemmeno il mio professore di ginnasio amava i temi e li sostituiva con altre forme di scrittura. Io, così, per un paio d’anni presi fiato. Negli otto anni scolastici precedenti mi avevano infarcito di vacue prove di scrittura in cui dovevo dibattere dei più urgenti problemi dell’umanità: la droga (erano pur sempre gli anni ’80…), l’effetto serra, la mafia, l’energia nucleare (ripeto: erano gli anni ’80…). Insomma la scuola degli anni ’80 ti educava al fatto che il mondo pullulasse di drammi sociali e umani su cui noi studenti in erba dovevamo parlare, pur senza averne mai discusso o letto un articolo in merito. I temi, quindi, si incistavano nel vuoto e rimestavano nel vuoto del buon pensiero e della bella parola. E io, per carattere, ho sempre avuto ritrosia del vuoto, di qualsiasi forma o non-forma fosse: il vuoto del tempo libero, il vuoto relazionale, il vuoto lavorativo, il vuoto delle parole. Mia madre, ovviamente, provava a tamponare questa situazione facendomi leggere i quotidiani a casa, così da avere anche io una mia Weltanschauung da snocciolare nei temi, ma io sono caparbia nei miei rancori e non sono riuscita a invertire di segno la cattiva relazione tema-Emanuela. Me la sono trascinata negli anni e con essa, a fase alterne, mi sono confrontata. Nel frattempo, infatti, eravamo negli anni ’90; terminato, ahimè, il ginnasio mi sono ritrovata al triennio liceale, dove il mio nuovo, ma in fondo antico, professore di italiano mi aveva riproposto il tema sotto una forma, forse, più perversa di quella di attualità. Il tema di letteratura compariva nella mia vita scolastica, a scapito delle analisi del testo, che avrei reincontrato solo all’Università. L’addio ai testi si accompagnava con lo studio matto, ma non disperato, della storia della critica. Insomma si dispiegava a me una serie infinita di giudizi critici da imparare, pur senza aver letto i testi degli autori. L’ora di letteratura italiana era diventata come il pastone giornalistico: poca informazione, tanta opinione. E Il tema era il coronamento di questo percorso.

Per sopravvivenza scolastica mi adattai, ma con un’insofferenza che rielaborai intellettualmente solo molto anni dopo (gli anni 2000 erano giunti, finalmente), da studentessa del dottorato in Scienze letterarie, retorica e tecniche dell’interpretazione all’Unical. Durante quel triennio ebbi modo di ascoltare un ciclo di lezioni di George Steiner, il quale con eroico furore condannava dalla sua cattedra la frequente pratica scolastica e accademica di considerare gli apparati critici più importanti dei testi. Insomma nessuna attrazione passa dalla lettura indiretta e mediata: ciascun lettore ha il diritto di stare viso a viso con il testo. Poi, se vorrà confutare o confermare la tesi che su di esso ha elaborato, potrà approfondirne lo studio critico e accedere all’apparato. E infine scriverne. Insomma Steiner ribadiva una verità semplice: c’è una gerarchia di tempi, modi, tappe che va rispettata se si vuole salvaguardare passione e serietà nella lettura.

Io al liceo, nonostante quel tedioso citazionismo, salvai la passione e rimandai, forse, la serietà a qualche anno dopo, contando sulla mia biblioteca personale. Mi rifugiai nuovamente nel mio cubo di ciliegio e lessi quello che potevo e che necessitavo: terminai la lettura dei Promessi sposi da sola e mi piacque molto di più di quella in classe. Manifestare in classe simpatia per I Promessi Sposi sarebbe stata una disfatta sociale per un’adolescente. La solitudine invece abolisce pudori e vergogne di vario genere. E poi lessi Verga, Pirandello, Svevo e Tozzi e D’Annunzio, che però allora non mi destò nessun entusiasmo. Riparai il mio rapporto con D’Annunzio solo dopo qualche anno e maturità in più. Credo che al liceo non riuscissi a cogliere la novità dannunziana rispetto ai suoi coevi: l’idea che la letteratura potesse parlare del piacere ed esaltarlo come forma di conoscenza sensibile del mondo. Per un’adolescente e alunna, cresciuta con la convinzione scolastica che il mondo pullulasse di problemi e la letteratura di dolore, D’Annunzio era evidentemente straniante. Ma ripeto: fu una scoperta tardiva. Nel frattempo c’era da completare il liceo con una prima prova d’esame tutta concentrata sul tema: si poteva però scegliere fra quello di attualità, di letteratura o di storia. Fra i tre io scelsi quello di storia: era il 1996 e la traccia chiedeva di ricostruire le fasi della Rivoluzione industriale in Europa. Conoscevo bene l’argomento e mi ero esercitata con il professore di storia su quella tipologia; mi ero così convinta che fosse la meno vaga, la più ancorata a un contenuto solido. La feci in sei ore e andò bene, come il resto dell’esame orale svolto di fronte a una commissione tutta di esterni. Mancavano, infatti, tre anni alla riforma scolastica che avrebbe introdotto la commissione mista e la possibilità all’esame di italiano di scegliere fra analisi del testo, saggio breve, tema. Erano i rivoluzionari esami del 1999: li sostenne mia sorella, che fece l’analisi del testo di Ungaretti. Io seguii quella sessione da studentessa universitaria; ricordo ancora una intervista a Tullio de Mauro, a cui fu chiesto cosa ne pensasse. Il linguista sottolineò che lo spirito di quella riforma era ispirato al principio che non si può parlare di ciò che non si conosce: ecco perché l’analisi parte da un testo e da domande, il saggio breve da alcuni documenti su cui formarsi un’idea. Insomma era il primo passo verso l’archiviazione del tema: ora da docente ne aspetto la definitiva eclissi. Almeno di quello di attualità; potrei salvare quello di storia per amore filiale.

Conclusi gli studi liceali, mi iscrissi al corso di laurea in Lettere classiche all’Università della Calabria. Inizialmente sognavo di divenire un’archeologa; ero, forse, spinta dai numerosi film della serie di Indiana Jones visti o dai numeri della rivista «Archeo» letti. Ma, quando scopersi che per fare l’archeologa avrei dovuto stare a contatto con fango, polvere e topi, l’innamoramento svanì. Scavare nei testi era più congeniale alla mia natura poco avventurosa e così mi indirizzai verso il ramo filologico-letterario. E non me ne pentii. Gli studi di filologia, di linguistica e delle letterature antiche mi rafforzarono e mi diedero la possibilità di immergermi nella lettura dei classici latini e greci, fino a quel momento più trascurata. In particolare mi sono data ai lirici greci e agli elegiaci latini, scoprendo un affascinante universo testuale in cui topoi e verità biografiche si intrecciano fittamente fino a perdersi reciprocamente l’uno con l’altro. Ma la forza attraente della poesia l’ho subita anche nei corsi di italianistica, nei quali ho letto integralmente le fondamenta della nostra letteratura: Dante, Petrarca, Ariosto, Leopardi. Essi hanno costituito, a lungo, il piacevole terreno di incontro serale fra me e mia madre.
L’università, inoltre, mi ha dato la possibilità di scegliere cosa mi davvero mi piaceva e di seguire i seminari che davvero mi interessavano. Insomma era la gratuità del sapere che mi veniva offerta e che spesso gli alunni liceali o universitari di oggi non assaporano più: l’organizzazione universitaria in debiti e crediti, prevista dalla riforma Berlinguer, li costringe a corse contro il tempo o a selezioni dei corsi in base alla loro quantificazione oraria, non più in base alla loro qualità scientifica. Me ne accorsi quando, dopo la laurea, incominciai a lavorare alla facoltà di Lettere come assistente alla didattica e gli studenti, di fronte ad ogni seminario loro proposto, mi chiedevano “quanti crediti vale?”, non più “ è interessante?”. Io invece, da studentessa vecchio ordinamento ancora libera dall’ingombro numerico dei crediti, mi sono presa il tempo di ascoltare le conferenze di George Steiner, Jacques Derrida, Luigi Blasucci, Dante Isella, Giuseppe Petronio, Alfonso Berardinelli. E con loro quelle di tutti gli studiosi che giungevano in Calabria e mi insegnavano che la letteratura è prima di tutto un irrinunciabile insegnamento all’alterità.

Nel 2001 mi sono laureata con una tesi di italianistica intitolata Viaggio in Arcadi. Le IX Ecloghe di Andrea Zanzotto, da cui poi ho tratto un articolo pubblicato su una rivista di settore. In quella tesi avevo affinato le mie tecniche di comparazione fra antico e moderno e su quelle ho puntato anche durante i tre anni da dottoranda in Scienze letterarie, durante i quali ho studiato la ripresa del mito classico in due opere centrali del Primo Novecento italiano: I Poemi conviviali di Giovanni Pascoli e le Laudi di Gabriele D’Annunzio. Su questi temi ho incentrato la mia tesi di dottorato (Fantasie pagane. Mito e poesia in Giovanni Pascoli e Gabriele D’Annunzio) e gli studi successivi ad essa, fino al 2011; anno in cui ho pubblicato un saggio di letteratura italiana, intitolato Io ultimo figlio degli Elleni. D’Annunzio e il paganesimo. L’uscita del libro e la sua presentazione all’Università di Napoli, durante il convegno della MOD – la Società italiana per lo studio della modernità letteraria -, hanno idealmente chiuso un ciclo di studi durato dieci anni, nei quali ho condiviso le mie fatiche e i miei progressi con gli studenti dei licei, nei quali facevo le mie prime esperienze scolastiche; sia quelle da supplente precaria non abilitata e poi quelle da supplente, sempre precaria, ma abilitata. E dei miei studenti calabresi ne ripercorro ogni tanto i visi, le espressioni, le esclamazioni, le intuizioni e le gaffes come in un succedersi di sequenze filmiche, che ricompongono una storia ad episodi, in cui siamo protagonisti insieme: loro che vorrebbero apprendere da me come si sta al mondo da adulti, io che devo apprendere con loro come si sta a scuola da insegnante e non da alunna, e non da dottore di ricerca.

E per la mia formazione da insegnante non sono bastati la laurea, il dottorato e l’abilitazione: mancava sempre la pratica diretta: quella che, per tentativi, errori e successi, ciascuno si costruisce con il tempo anche impegnandosi in ciò che inizialmente non preventivava di insegnare. Ad esempio, geografia. Oppure avvalendosi di strumenti e indirizzi di studio, che fino a poco prima si ignoravano o si accantonavano. Ad esempio, per molti anni sono rimasta ferma all’idea che l’insegnamento della grammatica italiana dovesse avvenire in situazione: richiamando alcune nozioni durante le ore di latino oppure durante la correzione degli scritti. Ma sbagliavo: la lingua madre merita un suo specifico momento di riflessione e di educazione all’uso, che non può essere subordinato ad altro ma deve essere prioritario. “Tutti gli usi della lingua a tutti”: così mi ripeteva il professore di linguistica italiana alla SSIS. Seguendo questo principio, ora mi avvalgo della grammatica valenziale per ragionare con i miei alunni di lingua. E sempre con loro ragiono di metodi di lettura e di scrittura, senza dare per scontato che si ami leggere o scrivere, che si “sia portati” per queste attività in maniera innata. L’innatismo a scuola non deve costituire un ostacolo all’apprendimento, un cedimento alla rassegnazione per cui qualcosa o si sa già fare o non lo si impara mai. Si può apprendere a scrivere scrivendo: l’ho appreso frequentando da studentessa alcuni corsi di scrittura creativa, come quelli con l’editor Laura Lepri e con lo scrittore Alessandro Perissinotto. Ora ripropongo e rinnovo quanto imparato da insegnante.

Il rapporto fra studio personale e insegnamento in classe credo, infatti, che debba essere circolare, intimo. La separazione fra i due ambiti crea figure professionali meno complete, meno ricche. Anche ora che ho smesso di lavorare all’Università, continuo a studiare per la scuola e per me stessa, senza escludere che i due rami della ricerca possano intersecarsi fra loro. E se nell’ultimo anno ho studiato Fogazzaro, proverò a aprire ai miei alunni piccoli squarci su questo autore senza, però, avere la pretesa di trasformare le lezioni in presuntuosi corsi monografici. Nell’aula occorrerebbe, infatti, rammentarsi di modulare la propria voce su quella dei ragazzi e di dare senza prevaricare o esibire: ed è, per me, un monito autocritico.

Se penso a quale dovrebbe, perciò, essere il mio stile d’insegnamento metto da parte le numerose e, spesso, vuote pagine di pedagogia che mi scorrevano innanzi agli occhi durante la SSIS; metto da parte pure l’icona del cane di Pavlov che esegue dei comandi per abitudine ma che tanto appassionava le disquisizioni sissine. Ripenso, al contrario, all’immagine dell’anatra suggerita dallo scrittore napoletano Raffaele La Capria in suo saggio pubblicato nel 2001 (Lo stile dell’anatra). Sì, vorrei avere e mantenere saldo lo stile dell’anatra; la quale, a differenza di altri animali acquatici, non ostenta i frenetici movimenti delle sue zampette sott’acqua ma solo il suo sereno scivolare in superficie. E che, quando giunge a riva, sa di essere approdata a un traguardo che per lei è stato difficile, ma che per chi ti sta osservando appare agevole da raggiungere. Gli insegnanti migliori conosciuti erano, sono proprio così: anatre; lavorano molto in sottofondo e ti convincono che l’apprendimento può essere un processo naturale, a cui tutti possono partecipare.

La mia aspirazione a essere anatra è in fieri, perché la semplicità è una linea d’arrivo che si sposta sempre più avanti del punto in cui ci si trova. Nel mio caso, la linea d’arrivo si è spostata di oltre 700 km a nord della Calabria, da cui ero partita. Dal 2011, infatti, vivo a Bolzano, dove insegno italiano e latino nei licei. E finalmente da insegnante in ruolo, che può aspirare a lavorare con i propri studenti per periodi scolastici più lunghi di un anno e a costruire assieme a loro una ideale libreria di ciliegio in cui rifugiarsi e figurarsi un mondo altro, rispetto a quello che già che conoscono.

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4 Risposte to “La formazione dell’insegnante di Lettere, 11 / Emanuela Scicchitano”

  1. Carlo Capone Says:

    – Sono cresciuta dentro una biblioteca di ciliegio, divisa fra pannelli chiusi e varchi aperti che si alternavano fra loro in un gioco di pieni e vuoti, fra i quali mi perdevo.
    – Tutte queste letture, bulimiche e poco consapevoli, me le tengo dentro come l’odore … del sugo caldo di pomodoro che mia nonna mi faceva assaggiare, prima di condirci la pasta…
    – …vorrei avere e mantenere saldo lo stile dell’anatra; la quale, a differenza di altri animali acquatici, non ostenta i frenetici movimenti delle sue zampette sott’acqua ma solo il suo sereno scivolare in superficie.
    – E finalmente da insegnante in ruolo, che può aspirare a lavorare con i propri studenti per periodi scolastici più lunghi di un anno e a costruire assieme a loro una ideale libreria di ciliegio.

    Emanuela, ma che brava che sei. Questa libreria di ciliegio (un esempio di come la parola sappia essere pregna se in mani accorte), quel sapore della salsa di pomodoro fatto assaggiare dalla nonna (che sento al palato e mi suscita lontane sensazioni) , e infine la metafora dell’anatra mutuata da Raffaele La Capria, non si scordano. Ma te l’hanno detto a scuola di scrittura, te l’ha detto quel fiutatore di buoni tartufi che è Giulio Mozzi, che la tua scrittura è uno scrignetto di zaffiri e perle?
    Un caro saluto.

  2. GattoMur Says:

    Sì, Emanuela scrive molto bene. Per chi volesse leggerla ancora, si possono trovare sui interventi sulla rivista online http://www.fillide.it (su Zanzotto, su Fogazzaro e Flaubert, su Vincenzo Rabito, su Federico De Roberto).

  3. GattoMur Says:

    Pardòn: “…suoi interventi…”, lapsus digiti.

  4. Pensieri Oziosi Says:

    E sempre con loro ragiono di metodi di lettura e di scrittura, senza dare per scontato che si ami leggere o scrivere, che si “sia portati” per queste attività in maniera innata. L’innatismo a scuola non deve costituire un ostacolo all’apprendimento, un cedimento alla rassegnazione per cui qualcosa o si sa già fare o non lo si impara mai.

    Bene! Brava! Bis!

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