[Chi volesse proporsi per la rubrica dedicata alla formazione dell’insegnante di scrittura creativa – che esce il giovedì – mi scriva, mettendo nell’oggetto il titolo della rubrica stessa. Ringrazio Antonella per la disponibilità. gm]
Sono ormai trascorsi ventidue anni dalla prima lezione di scrittura che tenni nell’asilo di Esperimento 20, a Napoli, come attività sperimentale parallela alla formazione che facevamo, una ventina di persone di varia età, da ormai sei anni nel sottoscala dell’asilo reichiano.
Avevo iniziato quando ne avevo grosso modo diciannove, l’associazione si chiamava La Bottega del Liocorno, il progetto Teatro dell’Anima. Alla prima lezione, per coincidenza il giorno del mio compleanno, eravamo in sei. Una delle allieve di allora, Laura, sarebbe rimasta un’amica per tutti gli anni a venire e, a un certo punto, avrebbe fatto anche da ufficio stampa alle mie iniziative.
E fra le allieve, per paradosso, c’era anche la mia prima insegnante di scrittura creativa (e l’unica, essendo nel 1993 la questione letteralmente agli albori e avendo io mancato, ahimè, alcune lezioni, pochissime prima di morire, tenute a Napoli da Domenico Rea), ovvero Gabriella Ventrella, con cui avevamo seguito, anche lì in pochissimi, un corso durato alcuni incontri.
Nel 1993 l’unica scuola di scrittura già esistente in Italia era Omero a Roma – e a anche lì, un giorno, andai con un mio allievo di allora a seguire una lezione. E prima ancora c’erano state, purtroppo lontanissime per le mie finanze ai tempi, le magnifiche e indimenticabili lezioni di Giuseppe Pontiggia, che si trovano in parte registrate per Radio Tre e che ancor oggi mi sembrano il non plus ultra dell’insegnamento della scrittura e vado a riascoltare quando devo imparare qualcosa di nuovo.
Se racconto questo inizio, in sei stretti nei banchi di un asilo – e sì che ai tempi ero ed eravamo tutti più magri – è per dire che, in effetti, stavo accumulando dentro di me la decisione di condividere il lavoro personale che facevo sulla scrittura: ero uscita dalla scuola superiore con una massa di racconti scritti, una parte dei quali avrei poi pubblicato, oberata da una densità di letture che dovevo tenere a bada – per dire, l’ultima estate prima del diploma, tutto Joyce e la Recherche, il primo anno d’università, Musil – e con un corso di Semiologia, tenuto dall’indimenticabile professor Bonfantini, spesso raggiunto a Napoli da Umberto Eco, in cui mi ero trovata, mio malgrado, a fare davanti alla classe l’analisi strutturale di un mio racconto (che vergogna).
Dunque, se da una parte c’erano gli studi letterari – una magnifica coltre di professori, fra cui Giancarlo Mazzacurati e Giorgio Fulco – e tutte le mie curiosissime letture e scritture, dall’altra c’era anche stata la formazione alla gestione di sé e del gruppo, compiuta nei sotterranei di Esperimento 20, con psicologi reichiani e sciamani francesi, registi e attrici, che mi aveva portato a condurre gruppi, a volte anche immensi come ci capitava con i giochi teatrali in pubblico. Dal mio personalissimo silenzio che rumoreggiava solo sulla pagina ero passata a usare la mia voce, il mio corpo e ad ascoltare ed accogliere chi partecipava, anche nelle situazioni più difficili (vennero infatti anche laboratori con pazienti psichiatrici).
Avevo imparato cosa significasse facilitare me, nei molti blocchi che mi portavo dietro, e facilitare gli altri, che a blocchi e resistenze non scherzavano. Eravamo usciti in quattro forti da questa esperienza, oltre me, il mio compagno di allora e di sempre, Paolo, regista teatrale, Rosaria, sociologa e psicologa e già molto avanti nei lavori su base corporea e meditativa, e Iole, mia sorella, scenografa e pittrice, con cui, dopo una vita, continuiamo a fare almeno una volta l’anno uno stage unendo le diverse competenze per potenziare la scrittura dei partecipanti (di solito un punto di svolta per molti nostri allievi).
Nasceva su queste basi l’associazione Aldebaran Park che poi avrebbe generato il progetto Lalineascritta Laboratori di Scrittura, nome relativamente recente di un progetto ormai vecchiotto, come me…
I primi anni di laboratorio, l’attività insisteva soprattutto su Napoli: era ospitata, fra alterne vicende, dalla Libreria delle Donne, Evaluna prima, poi, dal 2000 si spostò nella nuova Feltrinelli Libri&Musica per un anno, quindi restò a lungo ospite di ZerOstress, in seguito di un’associazione che si occupava di volontariato e da quest’anno ha trovato alloggio presso Healty, un nuovo progetto visionario di Luca Ferrara, farmacista e imprenditore, che include attività del corpo e della mente, fra cui la book area gestita da Valentina Castellano. Insomma, nomade per sede, a Napoli, dal 2000 in poi ho cominciato ad essere sempre più nomade anche nel resto d’Italia, dal Trentino alla Sicilia, dalla Puglia alla Toscana, dal Manzanarre al Reno. La formazione ha inoltre incluso negli anni molte decine di scuole, migliaia di studenti di ogni ordine e grado, centinaia di insegnanti (tantissime ore di formazione insegnanti) – l’esperienza nelle scuole è molto parzialmente testimoniata in Asino chi legge (Guanda) – e nei corsi privati, fra le lezioni napoletane e quelle in altre città d’Italia: migliaia e migliaia di persone, ormai, alcune delle quali ogni tanto si presentano con il solo nome di battesimo, magari al telefono, mentre io cerco disperatamente di ricordarmi dove e quando, fino a che non sento un tono di voce o non riconosco un tic… Gli insegnanti, poi, quasi sempre, tornano dopo anni a dirmi che hanno continuato – e anche qui io scartabello invano nella mia memoria: quando ci siamo visti? Quanti anni sono passati? E quante ore avrò fatto in questa scuola? – a praticare il metodo che ho insegnato loro.
E questa è sempre una bella cosa.
Ho scelto – e inventato – un metodo di insegnamento che rispecchiasse il superamento graduale delle difficoltà che si affrontano quando si scrive: i primi mesi del laboratorio di I livello (ho diviso in tre livelli i corsi grosso modo a partire dal 2000, prima il livello era unico o al massimo doppio) sono impiegati per aiutare le persone a superare la paura del foglio bianco e contattare i livelli emotivi e percettivi con cui si comincia a scrivere. Chiunque segua un mio corso di solito arriva o con il desiderio di rimettersi a scrivere dopo molti anni – ha smesso quando era giovanissimo, per esempio – o con il bisogno di esplorare parti di sé nascoste e chiuse (i più giovani) o con la voglia di leggere di più (lettore cerca lettore) o con l’ambizione di far diventare la propria scrittura un lavoro (tutte le età, in questo caso). Ma per tutti il problema di partenza è questo: come far venire fuori e domare o incanalare le istanze autobiografiche avviandosi verso la trasfigurazione e l’invenzione.
Continuo a usare per i primissimi mesi il metodo che pratico personalmente e che misi a punto molti anni fa’: scrivere in libera scrittura, a tempo, su stimolazioni sensoriali (dico così per brevità, spiegare il metodo nel dettaglio occuperebbe uno spazio grandetto). Poi le cose si complicano, ma la libera scrittura resta la base della prima stesura, prima che inizi la riscrittura delle riscritture e l’editing fuorioso di quel che si è prodotto.
Tendo a inventare esercizi in continuazione, strumenti che mettano in condizione le persone di far quel che vorrebbero ma hanno resistenza a fare, che spingano ad esplorare spazi della narrazione non ancora sfiorati. Ho inventato procedure per esercitare il punto di vista – anche qui tanti esercizi – poi a conoscere la memoria di finzione, poi a studiare le storie in tre atti, i conflitti, la semina, la distribuzione degli eventi (tantissimissimi esercizi); poi si torna allo sguardo, al vedere, si passa alla costruzione del racconto e del romanzo e anche qui: tenta, ritenta, scrivi e riscrivi, cambia prospettiva, ecc…
In altre parole, lavoro in questa direzione per circa tre anni di corso, ma c’è chi segue il mio livello avanzato anche da dieci anni: ho visto ragazzini di liceo diventare dottori di ricerca e spesso miei assistenti nel corso di questi due decenni, coppie sposarsi e figliare, qualcuno, purtroppo, anche morire.
E ho naturalmente ospitato anche tanti altri scrittori, in primis Giulio Mozzi, che andai a cercare quando dovevo ancora trovare il mio primo editore: nel ’98 (credo), gli mandai mia sorella a Torino con uno dei manoscritti rimasti (per fortuna) inediti. Lo stesso anno, se ben ricordo o forse il successivo, in cui scrissi anche ad Antonio Franchini, non in Mondadori ma a casa, perché lo conoscevo, in realtà, come scrittore e lo ammiravo molto e mai avrei immaginato che dopo così tanti anni sarebbe diventato il mio editore. Dunque, sto parlando di amici, non quelli che puoi vedere tutti i giorni perché purtroppo si abita in città lontane, ma quelli con cui condividi, nella diversità, passioni comuni. Grazie a Giulio che, per esempio, mi risollecita a essere qui con voi nel suo spazio.
E poi tantissimi editor oltre che scrittori sono stati nei miei corsi: penso a Laura Bosio, un pezzo del mio cuore, editor anche di alcuni miei libri e amica amatissima. O a Manuela La Ferla. O a Giulia Ichino. E l’elenco degli scrittori amici venuti spesso o sempre sarebbe lungo: Francesco Costa, Maria Attanasio (magnifici laboratori di poesia!) per citarne solo alcuni fra i più affezionati e stimati.
La scuola oggi è grande, ha fra i settanta e i cento corsisti annui e io mi capovolgo letteralmente per stare dietro a tutti e insieme continuare a scrivere i miei libri, badare alla casa, far quadrare i conti, scrivere per i giornali, ecc… (adesso, per esempio, finalmente si è addormentato uno dei miei due gatti che prima ha cancellato e riscritto a modo suo diverse righe di quest’articolo. Ora mi toccherà rileggere numerose volte questo racconto così parziale, se trovate qualche zampettata abbiate pazienza).
La mia formazione è permanente: poiché ogni giorno mi trovo a fare lezione incontrando nuove difficoltà, mentre allargo le mie letture utili a supportarle (ho un lato della libreria alla mia sinistra mentre ora scrivo dove abitano tutti i libri che uso abitualmente per le lezioni: in queste settimane sto facendo grande uso, come ogni anno ma un po’ di più, di Cortàzar, complice la pubblicazione delle sue lezioni a Berkley e delle nuove osservazioni che mi sono venute in mente per far scrivere i recidivi, cioè gli allievi che seguono da molti anni ma sono impantanati sempre nello stesso punto: hanno idee magnifiche e ormai una voce e uno stile, ma il blocco è così profondo che non competerebbe a un’insegnante di scrittura ma a uno specialista, e quindi non riusciamo a fare il salto. Però, sono sempre convinta che un sistema ci sia e così cerco, cerco…) e insieme invento e verifico nuovi esercizi, nuovi materiali di stimolo.
Se un primo livello di corso funziona quasi sempre nello stesso modo, i livelli successivi propongono nuove questioni, nuovi problemi e, poiché incontro le stesse persone per lunghe parti della loro vita, la difficoltà consiste nel rinnovarsi: paradossalmente, invecchiando, mi accorgo che ho già detto loro tutto nel primo anno, o anno e mezzo, ma che, semplicemente, non hanno ascoltato.
Non per cattiva volontà o distrazione ma semplicemente perché non erano pronti. E così, la stessa questione riguardata con nuovi occhi dopo due o quattro anni, risulta loro come una scoperta.
In fondo, niente di nuovo: anche chi legge un grande romanzo a sedici anni e poi lo rilegge a trenta e poi a cinquanta ci vede cose diversissime. E gli allievi di un corso di scrittura in fondo non fanno che questo: riguardare. E io, in fondo, non faccio che questo: insegnare loro a vedere.
Come agli albori bisogna imparare a concedersi di riempire un foglio e imparare a tenere un allenamento quotidiano, così in seguito bisogna reinsegnare a non dimenticare l’allenamento quotidiano che, anche quando hai scritto uno o due romanzi, come succede ad alcuni corsisti, è la fonte materiale di tutto.
Suonare il piano si fa tutti i giorni della propria vita, danzare si fa ogni giorno finché il corpo ce la fa (e i danzatori veri anche da vecchi), con la scrittura è la stessa cosa. In fondo, insegno anche perché questo fa parte del mio personale allenamento: formo gli altri, formo me attraverso gli altri, gli altri mi formano. La parola formare ha un suono troppo simile al marketing scolastico: una bottega rinascimentale è la cosa più vicina a come concepisco io l’insegnamento dello scrivere. Ha a che fare con la maiuetica socratica: far nascere a nuova vita ciò che già esiste.
Impariamo ad essere buoni artigiani, impariamo a restare in contatto con la voce che è in noi, con i nostri bisogni, teniamo il canale sempre ben aperto. Perché tutte le tecniche che posso insegnare, anche le più sofisticate, hanno necessità di spazio e di fiducia. Ce la posso fare e continuo a farlo, scrivere per migliorare: ecco cosa insegno.
E tenere fuori il più possibile la vanità (pubblicare, andare in giro: Giulio scriveva nel suo articolo dello choc-effetto trottola che fa lo Strega, mai come quest’anno lo capisco, un’infinita quantità di giri, anche belli, sì, ma che bisogna tenere a bada) e restare nell’atto umile e ordinario.
Oggi è apparsa un’immagine scrivendo liberamente. Quest’immagine non se ne va. Mi sa che c’è dietro una storia. Ricominciamo.
Tag: Antonella Cilento, Antonio Franchini, Bonfantini, Domenico Rea, Francesco Costa, Gabriella Ventrella, Giancarlo Mazzacurati, Giorgio Fulco, Giulia Ichino, Giuseppe Pontiggia, James Joyce, Julio Cortázar, Laura Bosio, Luca Ferrara, Manuela La Ferla, Marcel Proust, Maria Attanasio, Massimo Bonfantini, Robert Musil, Umberto Eco, Valentina Castellano
22 gennaio 2015 alle 11:34
Un grazie di cuore all’Autrice di Lisario o il piacere infinito delle donne. Penso sia stata un’ingiustizia che un tale capolavoro non abbia vinto il Premio Strega.
22 gennaio 2015 alle 15:27
Gentile Antonella, devo dire che sento una grossa sintonia con quello che hai scritto… “impariamo a restare in contatto con la voce che è in noi”… penso che al fondo al fondo, il tema della “voce” rimanga sostanziale… e dire poi cosa sia questa voce, è tanto semplice quanto arduo, sensibile e impalpabile, respirabile, reale e doppia, tripla, in mutazione, alla ricerca della propria ampiezza…
22 gennaio 2015 alle 16:55
Restare in contatto con la voce che è in me? Con questa voce che parla sempre doppio? Aaarrgh!
22 gennaio 2015 alle 18:45
Grazie, la pagina è generosa e io condivido totalmente l’idea della libera scrittura come punto di partenza. Poi c’è il resto… fatica e qualità. Con ammirazione.
22 gennaio 2015 alle 20:57
Sono di parte, in quanto sua allieva da tempo, e con gratitudine. Ma lo scrivo lo stesso: quest’articolo mi è piaciuto moltissimo.
23 gennaio 2015 alle 11:16
Come si chiama “una magnifica coltre di professori”? In inglese viene detto malapropism, ma in italiano? Solecismo paronimico?
24 gennaio 2015 alle 16:01
@Pens. Oz.: escluderei il malapropismo: non c’è una stortura di termini. Secondo me è propriamente una metafora: questi professori sono autorevoli e perciò rassicuranti, forse protettivi, come una calda coltre. (Poi, forse, mi sbaglio e il mio è un lapis [e questo è un malapropismo, intenzionale però]).
25 gennaio 2015 alle 07:18
Mh. Sospetto una svista di battitura per “coorte”, non tanto nel senso bellico quanto in quello statistico, ma conservando qualcosa del bellico: nel qual caso varrebbe un po’ come “un certo numero di professori, tutti più o meno della stessa generazione, e magnifici, e per di più stretti tra loro come i soldati nella coorte” (vedi lo “stringianci a coorte” di mameliana memoria, dove lo “stringersi” contagia perfin la parola “stringersi”). Che poi una coorte d’insegnanti, se davvero magnifica, e affettuosa, e materna, possa proteggere al punto di essere nominata “coltre”, be’: mi pare un’esperienza formativa interessante.
25 gennaio 2015 alle 23:37
RobySan, Giulio, mi sembrava ovvio che la frase fosse risultata dalla sostituzione di coorte=schiera [1] con coltre=coperta. Così ovvio evidentemente non lo è, e mi spiace averlo dato per scontato.
Quello che non sapevo, e che risponde alla mia domanda, è che l’italianizzazione di malapropism è entrata in uso, e quindi scrivere “una magnifica coltre di professori” al posto di “una magnifica coorte di professori” è effettivamente un malapropismo.
[1] Accezione n.3 in http://www.treccani.it/vocabolario/coorte/
26 gennaio 2015 alle 13:35
…”c’era anche stata la formazione alla gestione di sé e del gruppo, compiuta nei sotterranei di Esperimento 20, con psicologi reichiani”
Antonella, il centro Reichiano cui alludi, ma può darsi che quello frequentato da te sia un altro, l’ho visto nascere sul finire dei 70 (a Napoli). Si trovava non distante da casa mia, sulla salita di San Filippo Neri.
D’altra parte Napoli ha una grande tradizone di studi reichiani. Me ne parlava con entusiasmo, di quel Centro, una cara parente, ed io ascoltavo sbigottito le forme e i percorsi attraverso cui giungere alla rimozione dei blocchi. L’esempio che spesso mi proponeva era l’asilo reichiano, dove i bambini erano lasciati liberi di esprimersi, pur sotto lo sguardo attento di psicologi reichiani, nelle maniere più immediate e/o spontanee.
“Avevo imparato cosa significasse facilitare me, nei molti blocchi che mi portavo dietro, e facilitare gli altri, che a blocchi e resistenze non scherzavano.”
Ora io lo so che la liberazione da quei blocchi ha molto a che fare con lo sviluppo delle energie artistiche e non. Però mi piacerebbe, se lo ritieni opportuno, che tu approfondissi il concetto.