Note di lettura: “Albergo Italia” di Carlo Lucarelli.

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di Luigi Preziosi

I carabinieri celebrano quest’anno il bicentenario della loro fondazione (avvenuta il 13 luglio 1814). Oltre che con diverse manifestazioni più specificamente idonee ad esaltarne le tradizioni militari, l’Arma ha deciso di festeggiare la ricorrenza affidando alla narrativa, tramite il suo ente editoriale, l’onere di rendere testimonianza della plurisecolare centralità della sua presenza nella nostra collettività. L’intento è comporre un mosaico di ambientazioni e situazioni assai diverse tra loro, nelle quali la missione dell’Arma possa comunque trovare adeguato risalto. Così, i carabinieri attraversano l’epopea risorgimentale, e subiscono i sommovimenti emotivi che quegli anni tumultuosi potevano suscitare anche in chi ha come ragione di esistenza la fedeltà allo Stato, ma deve contemporaneamente possedere la particolare sensibilità di leggere il proprio tempo per distinguere nelle più impensate contingenze il bene dal male: proprio come riesce al protagonista del romanzo di De Cataldo Nell’ombra e nella luce. Mentre le inchieste del colonnello Reggiani, dovute a Valerio Massimo Manfredi, raccontano vicende che vedono come protagonista il particolare (e poco sfruttato, narrativamente parlando) Comando Carabinieri per la tutela del patrimonio culturale, il solo Carofiglio con Una mutevole verità sembra voler tornare alla vocazione originaria e più popolare dell’Arma, l’attitudine al controllo del territorio, che ha nella stazione il luogo di elezione e nel suo comandante il protagonista assoluto, elementi fondanti della tradizione della Benemerita già magistralmente evocati da Soldati nei suoi Racconti del maresciallo.

Un’evidente intenzione di originalità caratterizza invece Albergo Italia, di Carlo Lucarelli, che si cimenta nella ricerca di tracce di carabinierità proprio dove meno intense dovrebbero esserne rimaste, almeno in apparenza: quell’Africa orientale italiana della fine ‘800 già narrata in L’ottava vibrazione (2008). Nell’Asmara degli ultimi anni dell’Ottocento si incrociano i destini di diplomatici, ufficiali, imprenditori ed avventurieri, attratti nel Corno d’Africa dai sogni e dalle ambizioni suscitate dalle aspirazioni coloniali italiane, per quanto incerte potessero essere dopo il disastro di Adua. In una delle stanze del più bell’albergo della città, l’albergo Italia, appunto, si consuma l’omicidio di un sedicente tipografo torinese. Le indagini sono affidate al capitano dei regi carabinieri Colaprico, destinato a scavare non solo tra gli sfarzi del palazzo dove si confrontano gli interessi dei nuovi detentori del potere, gli italiani, ma anche nei villaggi sperduti nelle desolazioni degli altopiani eritrei. Affianca l’ufficiale lo zaptiè Ogbà, nel quale alcuni valori tradizionali della cultura del popolo eritreo paiono singolarmente quasi coincidere con quelli che l’Arma da due secoli cerca di inculcare nei suoi uomini: fedeltà ad un’idea superiore di collettività a cui si deve protezione, pietas nella vicinanza alle vittime del male che ogni consorzio umano a qualunque latitudine, e quindi anche quello ancora magmatico dell’Eritrea fin de siécle, riesce a produrre, risolutezza nell’azione di contrasto al crimine.

Le relazioni umane nella colonia sembrano impaniate in una sorta di limacciosa sospensione delle emozioni, a tratti brutalmente interrotte da barbariche esplosioni di violenza da parte di popolazioni non ancora del tutto sottomesse, spesso immeschinite da intrighi germoglianti sulle reciproche incomprensioni tra occupati e occupanti. L’inchiesta si svolge tra soldati che tirano a campare, dame dal fascino ambiguo, camerieri e prostitute monelle, mentre sullo sfondo s’aggirano guerriglieri spietati e si tramano manovre più o meno lecite di servizi segreti, finché i due militari non trovano la chiave giusta per scoprire il colpevole. Lucarelli non nasconde, lasciando anzi a Colaprico il compito della citazione diretta, di voler ricreare il rapporto Holmes – Watson, riadattandolo al mutato contesto: delinea con minor nettezza le parti di risolutore e di gregario, e riserva ad Ogbà la parte del silenzioso ma acuto osservatore delle altrui debolezze. Ed è proprio negli evidenti riferimenti al giallo deduttivo classico che il romanzo paga qualche pegno in tema di originalità (si pensi alla fascinosa sensualità che caratterizza fin dal suo primo apparire la protagonista femminile Margherita, anche troppo palesemente destinata al ruolo ambiguo che la narrazione svelerà). D’altro lato, il ricorso frequente ad alcuni stilemi divenuti tipici delle modalità comunicative televisive dell’autore (questi sì, indizi, almeno astrattamente, di originalità) non necessariamente può valere a definire altrettanto incisivamente lo stile di una pagina narrativa

Con Albergo Italia Lucarelli approfondisce la conoscenza di un territorio ancora non eccessivamente frequentato dalla nostra narrativa, quello dell’Italia coloniale, che pure parecchie ragioni di interesse dovrebbe avere. A parte sporadiche incursioni precedenti, tra le quali Tempo di uccidere (1947) di Flaiano, e Adua (1996) di Franca e Manlio Cancogni, è grosso modo dai primi degli anni Duemila, e quindi a notevole distanza di tempo dal suo svolgimento storico, che la nostra narrativa ha intensificato l’attenzione verso quel particolare segmento di storia patria, con, tra gli altri, Debrà Libanòs di Luciano Marrocu (2002), Un mattino ad Irgalèm (2001) di Davide Longo e la serie di romanzi (Morire è un attimo, Una donna di troppo e Le rose di Axum) di Giorgio Ballario. Nel catalogo dedicato al romanzo storico relativo al nostro passato coloniale si può degnamente comprendere anche questo libro di Lucarelli, soprattutto per l’apporto di una ricostruzione dell’ambiente particolarmente accurata (aiutano le inserzioni di espressioni in lingua tigrina che colorano i dialoghi). La suggestione di un’epoca e di modi di essere ormai remoti rispetto ai nostri giorni non comporta però una definitiva consegna al passato del mondo evocato dalla storia: anche se si manifestano in forme volta per volta diverse, per certe storture che allignano negli anfratti più bui del nostro paese (dalla mafia alle strategie oscure dei centri di potere più o meno legittimi) pare che il tempo non riesca a passare.

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