La formazione dello scrittore, 30 / Stefano Trucco

by

di Stefano Trucco

[Questo è il trentesimo articolo della serie La formazione dello scrittore, parallela alla serie La formazione della scrittrice. Ringrazio Stefano per la disponibilità. Le due rubriche ormai escono irregolarmente, seguendo l’arrivo degli ultimi contributi. gm]

stefano_truccoFormazione dello scrittore? Io? E’ proprio il caso?

Giulio Mozzi me lo chiede e io gli devo molto (una salutare stroncatura, soprattutto); c’è un mio romanzo in libreria, finalmente; gli editori, Bompiani e Rai-Eri, vogliono che io mi dia da fare ad autopromuovermi. Insomma, ci devo provare, a raccontare la mia formazione di scrittore, anche se ne avevo parlato abbastanza a lungo (sì, lo so, troppo a lungo) in un articolo qui su vibrisse il gennaio scorso e quindi lascerò parecchie cose come già dette e altre come omesse del tutto. Non è che parlare di me mi dispiaccia, anzi. Del resto, fare lo o essere uno scrittore è stato, fin da quando riesco a ricordare, l’unico obbiettivo serio della mia vita, l’unico mezzo accettabile per perpetuare il mio nome dopo la morte, motivo che ho in comune con la maggior parte degli artisti, grandi e minori, il cui nome sia stato davvero ricordato, almeno per un po’.

Il problema è un altro. Mettiamola così: da circa una decina d’anni sono impegnato in una minuziosa e radicale riscrittura di me stesso, una ristrutturazione il più completa possibile dei modi in cui mi rapporto con il resto del mondo. Negli ultimi quattro anni, poi, da quando mi sono finalmente rimesso a scrivere dopo più di vent’anni di blocco, si sono cominciati a vedere i risultati; nell’ultimo anno, infine, dopo la partecipazione al programma televisivo Masterpiece e la pubblicazione del mio romanzo d’esordio, Fight Night (insieme a un provvidenziale miglioramento delle mie condizioni di lavoro), il cambiamento in meglio è ormai innegabile. Ho persino cominciato ad andare in palestra. Di questo potrei parlarne fino alla nausea.

Il problema è che poche cose mi deprimono come parlare di tutti gli anni precedenti, il prima abulico e accidioso durante i quali i decenni si sprecavano lenti e praticamente identici l’uno all’altro. Nessun problema a parlare di un dopoche sta cominciando a darmi delle soddisfazioni. Il fatto è che la formazione dello scrittore, se è avvenuta, è avvenuta durante il prima, in anni in cui ero sempre la persona più noiosa del gruppo, in anni in cui guardavo il mondo come da dietro uno spesso vetro smerigliato, in anni durante i quali, ne sono convinto, soffrivo di una qualche forma di Sindrome di Asperger, in anni in cui per i miei rapporti umani dipendevo davvero dalla gentilezza e pazienza degli altri. Letteratura dell’inesperienza nel più puro significato del termine.

(breve nota biografica: famiglia proletaria, come pure il quartiere; tutto il necessario, come lo si intendeva allora, ma pochissimi lussi; pochi libri per casa; due sorelle minori; diploma, poi università lavorando; ingresso nel mondo del lavoro precoce, anche se non mi parve tale all’epoca; posto pubblico via concorso – come, da queste premesse, sia riuscito a infilarmi in tali contorsioni psicologiche ed esistenziali decisamente sopra il mio livello socio-economico resta ancora parzialmente un mistero. Sospetto che la precocissima passione per Woody Allen, assieme a quella per i Peanuts, possa essere un indizio importante).

La Rete, e soprattutto Facebook, è piena di messaggi di incoraggiamento e auto-incoraggiamento, per tutte le età e gender, spesso sotto forma di citazioni immaginarie attribuite a Einstein o Gandhi o Churchill o John Lennon (in Italia vanno soprattutto Pertini e la Alda Merini). Seguendo la moda americana al centro di tutto è l’autostima e, quando non si trasforma in una muta del linciaggio, la Rete è un gigantesco gruppo di sostegno collettivo. Continui appelli a credere in sé stessi, a dare il massimo, a inseguire a propri sogni, a ignorare o sfidare i giudizi degli altri – sembra, guardando anche agli scaffali delle librerie e al tono del discorso pubblico, che milioni di persone in tutto il mondo abbiano un disperato bisogno di essere incoraggiate. Io non facevo eccezione. L’unica cosa che volevo fare nella vita era scrivere e non lo stavo facendo, senza ragione apparente.

Però leggevo. Tanto.

Alla creatura libresca che ero e sono questi semplici appelli non potevano bastare. Forse avevo il palato rovinato dalle troppe letture; forse le troppe letture erano parte del problema; forse eranoil problema. Ma era tutto quel che avevo, l’unica arma a disposizione.

Purtroppo i pensatori “seri” di solito non hanno una visione positiva e ottimistica dell’umano.

G.K. Chesterton: grandissimo, ma non avevo e non ho ancora una sensibilità religiosa (anche se il discorso è più complesso). Paul Watzlawick: ottimo inizio, ma ancora un po’ leggero. Non avevo ancora scoperto il meraviglioso Ralph Waldo Emerson.

Il passaggio decisivo fu l’inaspettato incontro con Alain, al secolo Emile-Auguste Chartier (1868-1951), un filosofo francese oggi ricordato quasi solo come il maestro di Simone Weil ma che ai suoi tempi era una delle colonne della cultura liberale francese e della Nouvelle Revue Française (ci sono a confermarlo i quattro volumi a lui dedicati dalla Bibliothèque de la Pléiade). Lo scoprii grazie a uno di quei vecchi volumetti bianchi con le strisce rosse della Nuova Universale Einaudi, i Cento e un ragionamenti, a cura di Sergio Solmi, trovato su una bancarella. Sono anni che lo faccio leggere in giro e non è mai piaciuto a nessuno. Alain è un vecchio positivista aggiornato al XX secolo, sia pure con una forte dose di romanticismo e individualismo. E’ ottimista sulla capacità degli uomini di autogovernarsi, sia come individui che come popoli, ma al tempo stesso temprato dalle tragedie della vita e della storia (pacifista e ormai a 46 anni non richiamabile, si arruolò volontario per condividere le sofferenze del suo paese e passò tre anni al fronte; quando ne scrisse vide la guerra soprattutto come una lotta fra ufficiali e soldati). Alain era un pensatore al tempo stesso acuto e di corto respiro: il grosso della sua opera è composto di “propos” (che Solmi tradusse appunto in “ragionamenti”), brevi saggi di due o tre pagine pubblicati su giornali e riviste e poi raccolti in volume. Anche le sue opere più organiche, come Il sistema delle belle arti, sono in pratica raccolte di propos.

Alain, per quanto mi riguardava, colse perfettamente il problema.

Anche la paura è un’angoscia del corpo contro la quale non sempre si è capaci di lottare con la ginnastica. L’errore, in tutti questi casi, è quello di mettere il pensiero al servizio delle passioni e di lasciarsi andare alla paura o alla collera con una sorta di feroce entusiasmo. Insomma, con le passioni noi aggraviamo la malattia; questo è il destino di chi non ha imparato la vera ginnastica. E la vera ginnastica, i greci l’avevano capito, è il dominio della ragione sui movimenti del corpo.

E questo valeva anche per le passioni tristi e frenanti che mi dominavano, non solo per quelle più agitate a cui si riferiva Alain.

Tutte le religioni contengono una straordinaria saggezza pratica; per esempio, di fronte ai gesti di rivolta di un disperato che nega l’evidenza e che, con questa pratica inutile, si consuma e raddoppia la propria disperazione, è più utile metterlo in ginocchio, con la testa fra le mani, che tentare qualsiasi ragionamento; poiché attraverso questa ginnastica, è la parola giusta, riuscirete contrastare la violenza della sua immaginazione e a sospendere per un po’ di tempo l’effetto della disperazione o del furore.

Insomma, non tentare di cambiare dal di dentro; modifica i tuoi atteggiamenti esteriori e col tempo cambieranno anche quelli interiori. Poteva bastare un “Sorridi e il mondo ti sorriderà” ma, come ho detto, avevo il palato rovinato.

Un passo dopo l’altro sono uscito dalla mia tana, tana in cui mi ero infilato assolutamente da solo. A un certo punto, passo importante per la guarigione, ricominciai a scrivere.

Ora, che per scrivere si debba leggere è un luogo comune probabilmente vero (anche se Leopardi, per dire, non era proprio convinto) e per quanto riguarda le mie letture non temo confronti. Non ci metterei niente a trasformare la mia “Formazione dello scrittore” in un semplice elenco commentato di nomi. Come Borges, vorrei essere ricordato più per quel che ho letto che per quel che ho scritto. D’accordo pure sul fatto che leggere sia una buona cosa e che tutti dovrebbero leggere di più. Cultura, insomma.

Il problema è che ne sono convinto fino a un certo punto. Uno degli obbiettivi di questi famosi ultimi dieci anni è stato quello finalmente di digerire e assimilare l’immensa massa di letture iniziate fin dall’infanzia e che in realtà mi pesava sullo stomaco e per certi aspetti era peggio che inutile, era proprio dannosa.

Mettiamola giù un po’ più dura. Sono convinto che specie durante l’adolescenza certi giovani (io, per dire) che non trovano modo di imporsi né con la bellezza né con la forza né con la ricchezza né con la simpatia ma solo di una informe intelligenza di cui non sanno cosa fare, puntino, disperatamente e inutilmente, sulla cultura e acquisiscano una quantità di nozioni che non impressionano nessuno eccetto chi le accumula e che col tempo finiscono per rimanere lì e metastatizzare in snobismi e moralismi semplicemente mefitici. Una mezza cultura di massa i cui effetti si cumulano e avvelenano tutto l’ambiente culturale e sociale, come una semplice visita alla sezione dei commenti di un giornale può facilmente dimostrare.

Io credo – io spero – di esserci riuscito. Come minimo, sono riuscito a strisciare da sotto l’immensa mole di romanzi in gran parte riusciti (il lato negativo della competenza, per non dire del gusto, è che a forza di leggere buoni libri finisci per disperare della possibilità di scriverne a tua volta di altrettanto buoni) abbastanza per cominciare a scriverne a mia volta. Il fatto che Tolstoj avesse già scritto Guerra e Pace non doveva scoraggiarmi e nemmeno quello, ancor più difficile da digerire, che Aldo Busi avesse scritto Suicidi dovuti. Capisco la lamentela ricorrente sui troppi libri e l’invito a scrivere senza cercare di pubblicare, invito pressante di solito rivolto agli aspiranti scrittori da quanti sono riusciti a pubblicare qualcosa e vorrebbero chiudersi la porta dietro, per sempre. Capisco ma non posso condividere.

Sbrigata la pratica ‘vita’, di cui avrei fatto volentieri a meno ma che nelle circostanze mi pareva doveroso affrontare, passiamo finalmente ai libri.

Fino ai trent’anni le mie letture narrative furono quasi esclusivamente “di genere”: tre quarti di fantascienza, un quarto di giallo classico (Christie, Queen, Dickson Carr), l’occasionale e inspiegato classico (un certo numero di romanzi di Dickens, I demoni di Dostoevskij, Il deserto dei Tartari…). Le presunte barriere fra letteratura alta e bassa, generalmente usate come scusa per i propri fallimenti o per ignorare tutti i libri appena appena un po’ fuori dai propri generi preferiti, per me non esistevano: i romanzi che leggevo erano la letteratura.

La base era la fantascienza, intesa come qualsiasi cosa fosse ambientata nel futuro, così che ci potessero rientrare Orwell, Huxley ed il Mario Soldati de Lo smeraldo, ma anche Berlinguer e il Professore, Roma senza Papa di Guido Morselli e Il crack del ’79 di Paul Erdman e La terza guerra mondiale del generale Sir John Hackett… Abbastanza rapidamente stabilii che avevo poco interesse per lo spazio e gli imperi interstellari ma preferivo di gran lunga la storie ambientate sulla Terra in futuri non troppo lontani – anche se mi piacevano molto le storie di primo contatto con gli alieni.

Dick e Dish e Blish e Leiber e Bester e Brunner e Ballard e Silverberg e Zelazny e Delany e Tucker e Farmer e Roberts e Cordwainer Smith e Stapledon e Wells e Mauro Antonio Miglieruolo… Fra gli anni Sessanta e Ottanta, fra Urania e Galassia e Nord e Libra e Fanucci e Robot, in Italia si pubblicava proprio tutto quel che usciva o quasi.

Oltre alla fantascienza leggevo soprattutto storia. Partendo dalla Storia d’Italia di Montanelli e dall’Ascesa e caduta del Terzo Reich di William Shirer, spaziai per tutti i secoli e le culture (con una speciale passione per il Settecento). Sospetto che la leggessi per gli stessi motivi per cui leggevo fantascienza: le cose che mi piacevano erano quelle il più lontano possibile dalla mia vita e dalla mia esperienza o mancanza di esperienza. In fondo anche i romanzi gialli che apprezzavo erano quelli più distanti da qualsiasi forma di vita reale e pathos si potessero immaginare; Simenon, oggi fra i miei scrittori preferiti, proprio per questo all’epoca non mi piaceva. Volevo le camere chiuse dall’interno e gli spiegoni finali.

A un certo punto, anche perché il genere stava entrando in crisi editoriale, cominciai a espandere i miei interessi e le mie letture, ma la fantascienza non l’ho mai abbandonata. Solo che adesso ne vedo anche i limiti, oltre che le potenzialità. E’ perfetta per le idee e la vita collettiva, oltre che per l’incontro con l’ignoto; è pessima per i rapporti umani, per le gioie e i dolori della vita reale e per la creazione di personaggi, caratteristica quest’ultima che oggi mi pare il vero centro di tutta la faccenda, nel senso che la letteratura è, secondo me, soprattutto creazione di personaggi. Non per niente i miei giovanili tentativi di scrivere romanzi di fantascienza erano sostanzialmente vuoti di esser i umani riconoscibili: e nemmeno gli alieni erano granché.

Oggi quelli che leggono solo fantasy o solo gialli o solo polpettoni ideologici alla Tom Clancy mi danno l’idea di amputati. I gusti personali sono importanti, è chiaro, anch’io ne ho: sono utili quando ci si deve orientare nel mare delle possibilità di lettura o visione o ascolto. In mancanza di meglio, tanto vale leggere qualcosa che assomiglia a qualcos’altro che ci era piaciuto. L’errore è fissarsi sui propri gusti come se fossero importanti o, peggio, parte di noi stessi e rifiutare cose che potrebbero dirci qualcosa di cui abbiamo bisogno ma che fanno parte di generi che disprezziamo perché piacciono alle persone sbagliate. A questo punto tanto vale dare ragione a Benedetto Croce e decretare che l’arte è una e che i generi sono una pura categoria accademica o merceologica da ignorare.

In positivo, quei generi di letteratura insegnano una cosa che mi pare importante nello scrivere romanzi e che definirei come “portare a casa il risultato”. Intendo con questo tutti i mezzi, compresi i mezzucci, i trucchi retorici, gli effetti speciali e le promesse che si sa di non poter davvero mantenere, per far sì che il lettore sia invogliato ad arrivare fino in fondo per scoprire come va a finire. Il caso classico e relativamente più semplice è quello del giallo, dove il desiderio di scoprire chi ha ucciso un personaggio immaginario generalmente poco rilevante ci trascina facilmente fino in fondo alla storia, fosse pure una storia mediocre e già letta o vista. In quel che scrivo e tento di scrivere i meccanismi utili a trattenere e trascinare il lettore sono fondamentali, anche da quando mi sono reso conto che non sono assolutamente necessari – uno legge Karl Kraus o Céline per sapere come va a finire?

(c’è poi il piacere dei meccanismi in sé, di come il riconoscerli possa essere una parte fondamentale del piacere di un testo e non un ostacolo. Non per niente amo tanto il teatro, dove i meccanismi sono necessariamente a vista e visibilmente artificiali ma dove, al tempo stesso, gli attori devono esporsi in prima persona come pugili su un ring. Amore paradossale, dato che a teatro ci vado piuttosto poco – costa troppo – ma lo leggo molto. Mi piacciono le vecchie recensioni e i film e romanzi che parlano di teatro. Ma dovrei parlare anche di cinema, e di fumetti, e di giochi di ruolo, e di vecchi videoclip e sarebbe troppo lunga)

Qui sarà il caso di inserire qualcosa sul realismo. Nei lunghi anni in cui non scrivevo continuavo a immaginare i romanzi che mi sarei messo a scrivere il giorno dopo e che poi rimandavo immancabilmente ad un momento migliore (e così, ripeto, per più di vent’anni), ed erano tutti romanzi di fantascienza. Così fu pure il primo romanzo che scrissi, nel 2010, ancora inedito (quello della stroncatura di Mozzi, per intenderci). A quel punto decisi che avrei dovuto provare a scrivere una storia realistica, ambientata qui e ora (Genova, Italia, Occidente, Terra, anni Dieci del Terzo Millennio d.C.), senza ricorrere all’utile gruccia della “voluntary suspension of disbelief” che rende tutto più facile. Scelsi un tema al tempo stesso molto personale (la mia antica ossessione per il pugilato e le arti marziali) e potenzialmente interessante come materiale (più conflitto di così…) e scrissi Fight Night. E sì, ero ben conscio del dibattito critico sul tema del realismo e sugli strumenti convenzionali per rendere l’effetto di realtà e su come tali strumenti siano sempre sul punto di essere superati da nuovi strumenti convenzionali e di come questa famosa realtà sia, come è stato detto, l’impossibile.

Fra l’altro, malgrado le mie radici “di genere”, sono felice che il mio primo romanzo non faccia parte di un genere definito, a meno di non dar retta a quanti considerano il mainstream – di solito identificato col realismo – un genere a tutti gli effetti, con regole fisse da studiare come tutti gli altri. E’ la funzione ispettiva della critica: i libri e i film vengono ispezionati per verificare che le regole del genere siano rispettate al centimetro, come vecchi colonnelli della Prima Guerra Mondiale fissati sui bottoni delle uniformi di soldati destinati alla prima linea e alla morte sicura. In effetti la fissa dei generi e il tipo di critica autoreferenziali e pedanti tipica del fandom non è che un sottoprodotto dell’odio per il realismo e a favore della, ehm, “magia” così diffuso fra i commentatori online e gli autori autopubblicati di trilogie fantasy scritte seguendo tutti, ma proprio tutti, i dettami dello show, don’t tell e della corretta gestione del pov. Simenon distingueva i suoi romanzi in “polizieschi”, quelli con Maigret, e “romanzi-romanzi” o “romanzi duri”: io puntavo a questi ultimi.

Chi sarà così gentile da leggere Fight Night noterà però che il mio realismo, anche solo come tecnica narrativa, si mantiene a fatica, premuto da tutte le parti dai generi: per esempio, a un certo punto c’è un tentativo di delitto perfetto; un certo dettaglio della storia suggerisce un’ucronia; e verso il finale l’onda del fantastico, come un’alluvione, per un attimo minaccia di travolgere tutto. Ma il tentativo che volevo fare era un altro.

In testa alle varie classifiche dei miei scrittori preferiti, ovviamente per il resto molto variabili di anno in anno, ci sono da almeno vent’anni Honoré De Balzac e il più volte citato Georges Simenon. Per entrambi mi viene da usare la brutta espressione, a prestito del gergo dell’Ict, di “realtà aumentata”. In entrambi abbiamo la creazione di personaggi vagamente fosforescenti, reali ma al tempo stesso più reali di quelli con cui abbiamo a che fare normalmente, più colorati e superomistici in Balzac, più grigi e patetici in Simenon; in entrambi le storie sono determinate a “portare a casa il risultato”, come accennavo prima, anche a spese di una più precisa resa del reale in favore dell’effetto speciale romanzesco; in entrambi i casi l’ambientazione francese, per quanto precisa nei riferimenti sociali e geografici, è ormai lontana da noi quanto la sperduta Kadath e sospetto che lo fosse anche allora, un luogo ideale fin dal principio. Quello era il bersaglio, quella la direzione in cui ho mirato e mirerò in futuro, magari migliorando i risultati.

E’ chiaro da questi appunti, sempre più brevi ed elusivi ad ogni riscrittura, che la mia formazione e ancor più le mie opinioni su di essa sono ancora un workmolto in progress. Che nel 2010 mi sia rimesso a scrivere quando ormai non ci credeva più nessuno, io compreso, mi appare ancora abbastanza misterioso, anche se alla fin fine la soluzione potrebbe trovarsi di nuovo nel mio caro Alain:

Bene, bisogna partire non importa come; allora è il momento di chiedersi dove si andrà.

(Ok, un ultimo aneddoto su Alain e poi chiudiamo. L’unica volta che sono stato colpito dal cosiddetto sciovinismo dei francesi, di cui avevo sempre sentito parlare ma che, personalmente, non avevo mai provato.

(Un anno che sono a Parigi vado in uno dei miei posti preferiti in tutta Europa, il cimitero Père Lachaise, la città dei morti per eccellenza. Ho saputo che Alain è sepolto lì, voglio trovare la tomba.

(La rozza cartina che ti danno all’ingresso indica un lotto in alto, il 94, nella parte più moderna. Giro e rigiro e non lo trovo. In compenso nel lotto 94 trovo Amedeo Modigliani, Piero Gobetti e i fratelli Rosselli, una bella fetta dell’Italia migliore. Ma Alain, anche ricordandomi di cercarlo come Emile-Auguste Chartier, non lo trovo. A un certo punto un tale, uno dei volontari che aiutano i turisti a trovare le tombe famose, mi vede e mi chiede se sto cercando la tomba del “filosofo Alain”. Io rispondo sì, un po’ stupito – ce l’ho scritto in faccia? Me la indica. Poi gli chiedo come avesse fatto a capire che cercavo proprio quella. “Ma perché è l’unico famoso in questo lotto!”. Mi parve talmente grossa che non mi offesi nemmeno…)

tombeau_alain

Pubblicità

Tag: , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , ,

11 Risposte to “La formazione dello scrittore, 30 / Stefano Trucco”

  1. Carlo Capone Says:

    Ciao Stefano, perchè dici in apertura “gli editori, Bompiani e Rai-Eri, vogliono che io mi dia da fare ad autopromuovermi”?
    Si tratta di grandi editori e non di quei piccoli ( a pagamento e non) che pretendono identico impegno all’ansioso esordiente.

    Ma a proposito di ansia. Leggendo la tua “formazione” ho faticato un po’ a estrarvi il buon lacerto dall’intrico di nervi e grasso. La sensazione ricevuta è che tu abbia appesantito il tuo outing di troppa roba (e masterpiece e l’infanzia proletaria e le citazioni di alain, persino con la foto della tomba, e l’esposizione dei narratori di riferimento, pur avendo promesso in apertura di volerne fare a meno, e la larvata lezione di scrittura, più tanto altro). Insomma quel lacerto c’è ed è saporito, ma a modesto mio avviso andava scelto in beccheria con maggiore accuratezza.

    Più in generale, e mettendo da parte il bravo e sofferto Stefano Trucco, io mi aspetto da queste formazioni non già le puntuali citazioni dei classici letti (che più o meno si somigliano tutti e personalmente non mi dicono nulla) e il racconto a sè stante della propria vita, quanto l’individuazione di quel momento o periodo mirabilis in cui ci si è accorti che si stava diventando quell’altro da sè che è uno scrittore.
    Chiedo scusa se cito la mia non appetibile situazione che fu (pur non essendo stato uno scrittore e se sì solo in parte), ma non trovo altri mezzi per illustrare un concetto altrimenti tacciabile di genericità.
    Al Liceo (Classico) ero uno di quei soggetti che prendevano tutti otto e nove (di quaranta anni fa) in ogni materia, ma in italiano scritto no: cinque e mezzo, sei meno meno e accidenti a me. Poi mi capita di fare il dirigente di azienda e la mia segretaria, che mi batteva le relazioni di servizio, un bel giorno mi fa: “Ma lo sa che lei scrive proprio bene?”. Ma va al diavolo, va, che c’entra la scrittura con l’impiantistica chimica? e poi io non so scrivere, punto. Capita ancora che quando quindici anni dopo a scrivere mi ci metto per davvero e presento dei racconti a qualcuno, una delle più grandi librerie milanesi se ne cade giù dagli applausi e dagli encomi (“ma voi lo volete sapere chi è un vero scrittore? eccolo lì, è lì in fondo. Ma vieni qui, fatti vedere! guardate che come questo qui ce n’è uno su diecimila”, dice chi mi ha letto e tutti si voltano a guardare). Ma come cazzio può essere, io non so scrivere, lo volete capire?

    Chiedo ancora scusa a Stefano, a Giulio e ai pochi che mi avranno letto, per l’apparente “sboronata”, ma vi assicuro che stupida vanteria non è, perchè nel caso di me modesto scribacchino qualcosa sul serio era accaduta, solo che non me ne ero, ancora, accorto. Cosa mi fosse successo non lo dico, perchè uscirei dal solco dell’esempio avvalorando il sospetto di sboroneria. E non sta bene.

    Ciao Stefano, ancora sinceri auguri e scusa l’invadenza.

  2. dm Says:

    Stefano, ho una domanda per te. (Ma pure per i commentatori che hanno e vogliono fornire una risposta credibile).
    Se ho capito bene, prima di diventare uno scrittore – cioè un essere umano che si è visto pubblicare almeno un libro – eri un tale che guardava il mondo come da dietro uno spesso vetro smerigliato, parole tue, e insomma la tua era, se non fraintendo, un’esistenza grigia.
    Credo che nel tuo caso si possa dire che sei diventato scrittore prima di pubblicare un libro, grazie a masterpiece. Ma la domanda resta, ed è la seguente:
    Che cos’è che cambia la vita di un neo-scrittore da un punto di vista, diciamo, esistenziale: il riconoscimento di un’autorialità (e cioè in qualche modo di un’autorità, nelle cose della cultura o semplicemente della vita), il fatto che alcune persone possano volerti bene per quello che sei (uno scrittore è i suoi testi, in buona parte), l’attestazione da parte di alcuni del talento, che è, nel luogo comune, un innato carattere speciale di una persona, o che?
    Grazie, ciao.
    (Mi piace la tua postura. Si vede che c’è dell’esercizio correttivo, un’auto-ortopedia studiata, ecco. : )

  3. enrico ernst Says:

    Anch’io una domanda. Come è una “salutare stroncatura”? in cosa consiste? che cosa innesca? grazie!

  4. Il fu GiusCo Says:

    Sei uno scrittore quando hai maturato una voce o uno stile che ti renda riconoscibile. In genere accade, come scrive Trucco, a seguito di lunghissimo apprendimento e confronto con la massa eterogenea di scrittura già prodotta, che agisce come bollitura e messa in forma della tua particolare identità nel tempo a te coevo ed in quello letterario. Oltre alla voce, per stare nell’agone pubblico occorre una ansia o spinta secondo come la intende dm, sia essa interiore (narcisismo, voglia di emergere, voglia di piacere, liberarsi ecc.) o dall’esterno (famiglia, consorzio sociale, maestri, mercato). Infine aiuta quasi sempre un rovello, come lo presenta Capone, che fornisce benzina alla voce ed urgenza alla spinta. Da specializzato in poesia, lettore e qualche volta facitore, a me serve che la voce sia il più possibile naturale (respiro, scioglimento dei blocchi del corpo, ancora rifacendomi a dm) e che ansia e rovello siano risolti per non inquinare il suono o il flusso. Per la narrativa, mi pare che la voce debba prendere forma e quindi diluirsi in ansia e rovello, che sono quel che rende uno scrittore simile al suo pubblico. Buone Feste e prospero 2015 a Mozzi e a tutti voi, grazie per gli spunti che trovo qui su vibrisse.

  5. acabarra59 Says:

    “ Venerdì 21 giugno 1996 – La stragrande maggioranza di quelli – scrittori e no – di cui trascrivo brandelli, briciole, tessere, frammenti, ritagli, bocconi, di diario, sono morti. E quando erano vivi magari non li avrei trovati nemmeno simpatici, se per caso li avessi conosciuti. Se mi piacciono oggi è perché io sono un tipo strano a cui piacciono sempre le cose quando non ci sono. Ho sempre letto soltanto libri vecchi, o nuovi ma quando erano già scomparsi dalle classifiche – anche quando le classifiche non c’erano. Quando erano diventati vecchi, perché comunque non li leggeva più nessuno – anche quando qualcuno i libri li leggeva. Come si chiama questa curiosa inclinazione? Nostalgia? Necrofilia? Mi fa un po’ impressione, ma potrebbe essere anche così. La verità è che il futuro mi è sempre piaciuto solo nell’ipotesi che somigliasse al passato. È una pretesa assurda, lo so, ma nemmeno tanto. Perché, fino a un certo momento, il futuro ha realmente somigliato al passato, almeno a quello che pensavo io. « Pensavo »… Io non credo di avere mai « pensato ». Come non penso ora che scrivo di fronte a questa macchina strana, che ha un respiro leggero ma chiaramente avvertibile, come un fruscio, o il borbottìo di un motore lontano, di un treno, di una nave, in un’attesa, in un meriggiare, nel pieno di un’estate. (Poi verrà il tempo dell’ « arso cicalìo dell[a] stampant[e] », come scrive un poeta più giovane e più poeta di me) “ [*]
    [*] La s-formazione dello scrittore / 175

  6. dm Says:

    (Grazie Giuseppe. Buoni giorni anche a te.)

  7. Stefano Trucco Says:

    L’idea infatti era di accennare una descrizione, perchè di più non posso fare, un po’ per reticenza e un po’ per genuina perplessità, del processo mentale e culturale che mi ha portato, nel 2010, a fare l’unica cosa che da sempre volevo fare. L’ansia di misurarsi nell’agone pubblico, come lo chiama Il Fu GiusCo, dipendeva unicamente da fattori interni “(narcisismo, voglia di emergere, voglia di piacere, liberarsi ecc)” e perciò il semplice fatto di riuscire a scrivere un romanzo intero e completo in tutte le sue parti fu un grande risultato. Poi, però, era necessaria una validazione pubblica: la pubblicazione e l’eventuale giudizio da parte di perfetti estranei.
    Dettaglio: da sempre ho avuto un problema con gli specchi, nel senso che guardarmi allo specchio mi dava un intenso fastidio. Il romanzo, in effetti, comincia con un ragazzo che sta andando a combattere il suo primo incontro di kick boxing, forte e sicuro di sè, che si fa prendere da una crisi di nervi guardando per caso in uno specchio. Da quando sono andato in tivù, esponendomi sul serio per la prima volta in vita mia e tutto sommato cavandomela, questo problema è scomparso. Espormi, sia in tivù che, soprattutto, di fronte ai lettori, mi pare una tappa fondamentale di quel processo di riscrittura cui accennavo.
    Una ‘stroncatura’ è salutare se fatta senza malanimo. ‘Questo non va per questo motivo e quest’altro’. Tu ci pensi, decidi che è vero e vedi di migliorare – più banale di così… E’ venuto fuori che malgrado tutte le mie fragilità reggo bene le critiche. Peccato che oggi la critica, su giornali e riviste, sia in tale crisi perchè, francamente, ci tenevo e non certo per motivi di marketing.
    Uno dei romanzi più divertenti e misteriosi del XX secolo è ‘Carte d’identità’ di Nigel Dennis, del 1955, una satira della società britannica post-bellica che a un certo punto diventa una specie di rito iniziatico. A un certo punto un personaggio si lamenta con un altro delle terribili difficoltà che sta incontrando a scrivere un dramma. Il narratore gli consiglia di lasciar perdere.
    ‘Ma io DEVO sapere chi sono!’
    ‘Stai dicendo che te lo dirà il tuo dramma?’
    ‘Certo che no, mio caro! Me lo diranno i critici! Al momento non esisto; non so nemmeno cosa voglio diventare. Ma quando avrò finito il dramma lo saprò. Un critico dirà ‘Harold Snatogen si rivela un esponente alla moda del revival anti-Dea Lunare’. Un altro dirà ‘In Snatogen troviamo ciò che Hegel definiva…’ e poi dirà che cosa definiva Hegel. Il seguito sarà semplice; diventerò la definizione più simpatica…’
    Per Carlo Capone: sì, più o meno l’idea è che lo scrittore, sia pure pubblicato da un grande editore, dovrebbe darsi da fare meglio che può, specie se esordiente. Ovviamente anche l’editore fa la sua parte, ci mancherebbe.

  8. Giulio Mozzi Says:

    Carlo: la foto della tomba di Alain ce l’ho messa io. Stefano è innocente.

    Scrivi:

    io mi aspetto da queste formazioni […] l’individuazione di quel momento o periodo mirabilis in cui ci si è accorti che si stava diventando quell’altro da sè che è uno scrittore.

    Rispondo per me, perché è facile. Mi accorsi che un “altro da me” appariva quando sentii parlare dei miei racconti, in casa editrice, parecchio prima della prima pubblicazione, come di oggetti che stavano nel mondo per conto loro. Da quel momento cominciai (con il racconto “Per la presentazione del mio primo libro”, incluso appunto – e paradossalmente – nel mio primo libro) a domandarmi che partita stavamo giocando, io e quell’altro. Fino al 1998 (dal 1992) dominò lui. Poi fino al 2009 ho dominato io. Adesso siamo indistinguibili, e non sono sicuro che sia la condizione migliore. Finché dominò lui, scrissi delle cose che oggi a rileggerle mi sgomentano. Nel tempo in cui dominai io, scrissi delle cose che oggi a rileggerle mi sembrano tecnicamente formidabili. Oggi scrivo cose (poche, poche) che mi sembrano tecnicamente difficilissime, e mi sgomentano già mentre le scrivo.

    C’è anche l’altro corno della questione, ovvero il riconoscimento sociale. Ma, banalmente: quando arriva, lo vedi.

    Stefano: abbiamo bizzarre letture in comune. Prima Alain, adesso Dennis. Comincio a preoccuparmi.

  9. Stefano Trucco Says:

    Giulio, come scrittore non lo so ancora, ma come lettore sono decisamente nella parte alta della classifica, sia come quantità che come qualità.

  10. Carlo Capone Says:

    Grazie, Giulio!

  11. “1958: una storia dell’età atomica”, di Stefano Trucco | vibrisse, bollettino Says:

    […] io abbia molta stima di Stefano Trucco, narratore finora poco notato, lo sanno – credo – tutti. Fin da quando ospitai un suo […]

Rispondi

Inserisci i tuoi dati qui sotto o clicca su un'icona per effettuare l'accesso:

Logo di WordPress.com

Stai commentando usando il tuo account WordPress.com. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto Twitter

Stai commentando usando il tuo account Twitter. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto di Facebook

Stai commentando usando il tuo account Facebook. Chiudi sessione /  Modifica )

Connessione a %s...


%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: