Il 14 dicembre scorso sono stati presentati a un pubblico di operatori del settore i lavori degli “apprendisti” della Bottega di narrazione. Ora è disponibile il fascicolo con le schede di tutti i lavori e gli estratti di quelli in stato più avanzato. Gli editori eventualmente interessati possono prendere contatto direttamente con gli autori (ci sono i recapiti). gm
24 dicembre 2014 alle 00:09
quanto lavoro, quanto materiale, e quanta ricchezza creativa!
un grosso in bocca al lupo a tutti questi nuovi scrittori!
24 dicembre 2014 alle 09:02
Buongiorno, ho letto un po’ qua e un po’ là.
‘Neve sul teleschermo’ di Marco Alfano, mi sbatte addosso uno dei miei tanti limiti di lettore: non riuscirei ad affrontare un’opera di simile intreccio, e nel 2030 perdipiù, farei troppa fatica.
Di ‘Sepotessi’ di Cristiana Bernasconi ho letto prima la sinossi, poi gli estratti, infine di nuovo la sinossi. A parte quello che mi pare sia un piccolo refusino al 4° capoverso, registro una mia personale avversione per indicazioni come queste: strano puzzle, strano cavatappi, strana macchina, strano nome, la più folle avventura, bizzarro e fantasioso mondo, impresa unica e leggendaria.
In ‘Whisky Merlino’ di Francesco Buccafusca ho letto con piacere l’estratto. Segnalo anche qui un refusino a pag.16 (‘state insieme?’, le chiede guardano l’altra ragazza).
A pag. 14 l’immagine ‘dell’uomo in abito scuro che sta sul palco e suona note lente’ mi ha spinto ad interrogarmi su quale fosse lo strumento da cui uscivano le note, anche se poi a pag.15 viene detto che è un pianista.
Sempre a pag.16 mi piacciono molto alcune immagini: di quel ‘posto che sa di vento, quando libera l’aria e l’assotiglia’ … ‘il suono di una tromba, come brano che sa di attesa e solitudine, una richiesta fatta sottovoce’ … ‘una voce che pare graffiarsi contro qualcosa prima di uscire’. In generale, mi ha fatto entrare in un’atmosfera.
La storia che vuole raccontare Mariastella Eisenberg mi interessa.
Curiosità per il romanzo di Claudia Grendene, ‘Come stavamo ieri’.
A Muriano chiedo: perchè tanta avarizia?
Mi scuso per la superficialità. E approfitto per inviare a tutti i lettori di Vibrisse i miai auguri di Natale.
24 dicembre 2014 alle 10:19
Io ho molto apprezzato l’estratto ‘Bianca’ di Simonetta Viterbi: mi è piaciuta la sua voce misurata e credibile.
E, poi, mi ha incuriosito la sinossi di ‘Ibis redibis’ di Michela Fregona, il suo esuberante assortimento di temi.
24 dicembre 2014 alle 15:11
Mancando gli estratti di tutte le opere non sono riuscito a farmi un’idea più precisa su chi mi sia piaciuto e chi un po’ meno. Ho cercato di ovviare leggendo le schede come fossero seconde di copertina. In fondo è il metodo che uso in libreria. Ci vado almeno una volta a settimana, per inciso, e mi affido parecchio a questa lettura (insieme all’incipit che per me è cruciale), sia per gli autori a me noti sia per quelli che non conosco. Il risultato è che non ne avrei comprato nessuno, eccetto, forse, il romanzo della Eisenberg, perchè ‘quel’ tema potrebbe intrigarmi. Ma va detto che del suo lavoro ho potuto saggiare un estratto, anche in questo caso l’unico che mi abbia abbastanza colpito, mentre di altri no. Chiedo scusa per il test grossolano, ed auguro a tutti la migliore fortuna editoriale (e non).
24 dicembre 2014 alle 16:43
Graditissimi pareri. Se altri ne arrivassero, essi pure graditissimi sarebbero.
25 dicembre 2014 alle 12:08
Caro Marco Alfano, il tuo progetto, anche in aula, mi parve davvero notevole… però la sinossi, subito all’inizio, mi pare problematica. Intanto quel “proprio” non ci sta… e poi mi mancano alcuni caposaldi: per esempio, perché dei volontari dovrebbero voler conservare ecc. (domanda sussudiaria: che mondo futuro crei? come funziona? che socieetà e che politica?), chi è Livia de Grenet? In che senso si crea una “anomalia”, rispetto a quale “normalità”? è necessario indagare… ma chi indaga e perché? Livia viaggia “attraverso memorie altrui”… come fa? in che senso? Insomma immagino non sia facile riassumere… ma si sentono molto le “falle”… giudizio personale, da condividere…
2 gennaio 2015 alle 00:57
Vorrei offrire uno spunto di riflessione.
Premesso che ho solo leggiucchiato qua e là (è una premesse importante), mi ha colpito la quantità di sofferenza racchiusa nelle trame dei lavori presentati. E’ sufficiente leggere le sinossi e pescare:
“Non sapevamo niente di lei”: “morendo, vuoto, meningite fulminante, cicatrici, scomparsa improvvisa, dolorosa, egotismo”
“Il tempo fa il suo mestiere”: “scandalo, confusione, dolore, vita distorta, guerra, terribile, drammatica, olocausti, barbarie, lacrime, sangue, cinicamente, egoisticamente, dissapori, sconfitte, moriranno, orrore, sconvolto, tomba”
“Ibis redibis”: “morto, perdendo, disuso, smembrati,
languono, vendicarlo, morte, tomba, ossessione, maledizione, errore, malati”
“Sostanze inseparabili”: “decadenza, sperperi, muore, orfano, sospetti, stroncata, immobilità, paura, incidente, male, affondare, addio, lacrime”
“Il collezionista di tramonti”: “morto, vuoto, cancro, terminale, smarrito, cinico, muore”
“Come stavamo ieri”: “morti, divorzi, tradimenti, maniaco depressiva, scompare, funerale, tormentato, disastrata, divorziano, ostacolano, morte, soli, scontri”.
Non sto dicendo che sono opere di orientamento pessimistico, ma solo che indipendentemente da un eventuale lieto fine contengono molto dolore.
Ora: posto che sono pochi i capolavori dell’arte che non accennano al dolore dell’uomo, e posto che il ricorrere del dolore negli scritti della Bottega ovviamente non costituisce di per sé un elemento disprezzabile, mi chiedevo se qualcuno se la sente di spiegare questa ricorrenza senza ripiegare sul solito (non per questo erroneo) stereotipo secondo cui quando stiamo bene non scriviamo e quando stiamo male sentiamo invece l’esigenza di comunicarlo.
2 gennaio 2015 alle 07:06
Paolo, tu scrivi…
e a me pare che lo stereotipo sia proprio falso.
I sopravvissuti raccontano le storie. Bisogna dunque prima sopravvivere e riacquistare una qualche salute; poi si può raccontare.
Quanto al modello narrativo stato felice/stato infelice/ricupero della felicità: benvenuto nell’Occidente israelellenico.
2 gennaio 2015 alle 09:49
Paolo.
Un’osservazione stimolante.
Spunto di riflessioni.
2 gennaio 2015 alle 16:13
Giulio, hai scritto: “I sopravvissuti raccontano le storie. Bisogna dunque prima sopravvivere e riacquistare una qualche salute; poi si può raccontare”. Beh: di certo bisogna sopravvivere. Detto questo, riacquistata la salute si può anche decidere di raccontare d’altro, no?
Sappiamo anche tutti e due che la storia della letteratura non è fatta solo (per fortuna) di sopravvissuti che ci raccontano come hanno fatto.
Poi scrivi: “Quanto al modello narrativo stato felice/stato infelice/ricupero della felicità: benvenuto nell’Occidente israelellenico”. Come premettevo, non ho letto interamente le opere in questione, e ho anche scritto che la mia osservazione prescindeva da un eventuale lieto fine: non era rivolta al modello narrativo impiegato.
Per altro il fatto che sia un modello codificato e diffuso non cambia -mi pare- la questione: perché così tanti testi della Bottega si basano su un modello incentrato sul dolore?
2 gennaio 2015 alle 17:01
Direi, Paolo, che a me la storia della letteratura occidentale sembra fatta in grandissima parte di storie di “sopravvissuti”. Ulisse, per dire. Mosè. Giuseppe. Enea. Eccetera.
Certo, si può anche raccontare d’altro. Ma non mi stupisco se in un campione più o meno casuale di narrazioni si ritrovano gli schemi fondamentali della narrativa occidentale.
La tua domanda mi sembra una domanda del tipo: se quasi tutti i cigni sono bianchi, come mai questi cigni sono bianchi?
Si potrebbe anche voltare la questione così: queste storie sono storie di avventura. E che avventura è, quella nella quale nemmeno si rischia la vita?
Tu hai scelto di usare la parola “dolore”. Io scelgo di usare la parola “avventura”. Ed ecco che l’oggetto descritto sembra diventare diverso.
(In particolare Ibis redibis promette di essere una storia veramente avventurosissima…).
2 gennaio 2015 alle 18:52
Beh, francamente mi sembra che i cigni abbiano sul loro colore meno potere decisionale di quanto chi si accinge a scrivere ne abbia sulla storia che scriverà.
Più in generale mi sembra che questa discussione sia viziata da una certa vaghezza, che io stesso ho incoraggiato, e me ne scuso.
Giulio: tu conosci quei testi, e se proponi avventura come parola-chiave, forse vuoi dire (e se è così mi fido, naturalmente) che il dolore in quelle storie è del tutto funzionale.
Hai anche scelto esempi molto calzanti (non ho capito Giuseppe), ma l’avventura di per sé non mi pare comporti necessariamente il dolore: Indiana Jones e i Predatori dell’Arca Perduta è un film con moltissima avventura e pochissimo dolore.
Le traversie di un personaggio non comportano necessariamente dolore, dipende dal contesto, dal personaggio: Paolino Paperino può piangere tutte le lacrime che vuole ma non riuscirà mai a commuovermi. Tuttavia ha vissuto mille avventure.
Don Chisciotte ha vissuto molte avventure, ma raramente ci ha fatto disperare per le sue sorti. E così via, no?
Spero di non aver avviato una polemica sterile; la mia curiosità deriva anche dal fatto che ho notato che poche storie pregevoli non contengono dolore, e mi chiedevo se sia così difficile costituire un’eccezione, tutto qui.
In bocca al lupo a Ibis redibis e a tutti gli altri, dunque!
2 gennaio 2015 alle 19:01
Paolo, suggerisco una diversa prospettiva. Il clima morale e l’atmosfera affettiva di un racconto si basano, credo, su un principio di diluizione. In un riassunto non è possibile rendere questi aspetti se non concentrandoli (cioè con la diretta nominazione degli effetti cercati sul lettore con il testo).
2 gennaio 2015 alle 19:13
dm, devo confessarti che sei riuscito a farmi sentire uno stupido: non ho capito nulla!
2 gennaio 2015 alle 20:06
Paolo, leggi questa scheda di lettura di un libro, il Don Chisciotte della Mancia, che tu dici non essere “incentrato sul dolore”.
Ci trovi queste espressioni: “meschinità”, “persone con problemi”, “disagio psichico”, “alcolista”, “pazzia”, “morte”, “matto”, “soggiogato”, “ingenuità”, “inganno”, “allucinazioni”, “delirio”.
Più avanti, nel testo non citato, compare addirittura “schizofrenia”.
2 gennaio 2015 alle 20:56
dm: sì, sarai d’accordo con me che più che una sinossi è una analisi-interpretazione-non so cosa. Sai dirmi chi è Nadia Zapperi, per curiosità?
Comunque non volevo scatenare una gara di capello spaccato.
2 gennaio 2015 alle 23:07
Paolo, non mi sembra sia una gara.
Hai letto dei testi che parlano dei testi in lavorazione alla bottega, e hai chiesto a tutti: “perché così tanti testi della Bottega si basano su un modello incentrato sul dolore?”.
Poi hai portato come esempio di testo-non-incentrato-sul-dolore il Don Chisciotte. E allora ho preso dai primi risultati di Google un testo che parla del Don Chisciotte, e ne parla, per usare i tuoi termini, proprio come di un testo-incentrato-sul-dolore.
E mi pare che gran parte delle cose dette sul conto del Don Chisciotte siano sostanzialmente – e cioè donchisciottescamente – vere.
A questo punto potresti dubitare dell’utilità di guardare alla narrativa attraverso queste categorie dolorose. Ma soprattutto potresti ammettere che è ben difficile intuire la quantità di dolore in un’opera, al di là di cosa davvero significhi questa cosa, senza aver letto l’opera.
Potresti… (D’altra parte tra premettere e ammettere non c’è molta strada…)
Grazie per l’attenzione e la lettura. Buon anno.
3 gennaio 2015 alle 06:27
Paolo, scrivi:
Ma potrei proporre come parola-chiave anche “amore e morte”, o “alla ricerca di sé stessi”, ecc.; e non cambierebbe nulla: in tutti quei romanzi c’è “amore e morte”, e “alla ricerca di sé stessi”. E lo stesso si potrebbe dire di una campionatura casuale di romanzi pubblicati.
Voglio dire, Paolo, che quando si ipersemplifica si ottiene una riduzione delle distinzioni. Ovvero: se si vuol fare di tutte l’erbe un fascio, ci si riesce.
In ciascun film della serie, Indiana Jones rischia la pelle più volte; una scena di rischiamento della pelle (tipo lui legato a una corda sopra una fossa piena di coccodrilli, mentre una candela lentamente consuma la corda, ecc.) è di solito una delle scene madri del film.
“Don Chisciotte” è un romanzo tragico.
3 gennaio 2015 alle 15:04
Giulio: ok grazie
5 gennaio 2015 alle 20:45
a Cristiana Bernasconi. Il tuo racconto è per bambini, giusto?
Hai pensato a questa cosa del “tubero”? cioè hai scelto scientemente di utilizzare una categoria così generale, e non più ristretta come, faccio per dire, una patata?…
Lei gli fa cadere il tetto in testa, e lui le diventa amica? in che modo? (Mi pare fondamentale!)
Uno degli snodi decisivi della tua storia, la “consegna” (?) della palla, risulta misteriosissima…
e poi dove deve “uscire” il tuberino attraverso la “macchina” (e per quale ragione)? cioè qual è il suo obiettivo (e della bambina)? Non capisco…
Che “fine fa” il catastrofico potere della bambina, cioè quello di fare terremoto (come Elsa in Frozen di gelare il mondo)?
Osservo, che nelle prime due sinossi, mi pare che gli “snodi” maggiori siano quanto meno poco a fuoco, capisco la necessità di sintesi, ma ho una sensazione di poca cura sulla ossatura drammatica dell’opera…. mi sbaglio?
5 gennaio 2015 alle 23:47
… oh oh, scusa Cristiana, c’è un estratto della tua fiaba… in un primo momento non me n’ero accorto, quindi lo leggerò con vero piacere, per vedere se c’è risposta alle domande che la sinossi mi suscitava (rimane comunque una riflessione generale sulla “efficacia” ed esaustività di quella)…
Mi chiedo se ha senso andare così “nel particolare” se dall’altra parte non c’è riscontro… è vero che siamo ancora in periodo festivo, e che domani potrà esserci… mumble mumble…
1 Maggio 2015 alle 11:25
Ciao Enrico
Leggo con mesi di ritardo le tue osservazioni (le ho trovate casualmente).
Non sono una grande navigatrice e non sono iscritta a vibrisse.
Le ho lette con mesi di ritardo, ma mi hanno fatto molto piacere, e con estremo ritardo (la puntualità non è il mio forte e Giulio lo sa) provo a darti delle risposte.
Non so se le leggerai, ma il tuo interesse merita tutta la mia riconoscenza.
È un testo per bambini? È un testo di narrativa fantastica, almeno è quello che credo e spero.
Ho scelto di assumere una categoria non troppo definita (i tuberi) per lasciare più libera l’associazione e l’identificazione con un elemento della realtà, anche se il collegamento con la patata è abbastanza naturale (però ci sono categorie di tuberi più adatti all’associazione diretta con la forma di Sepotessi).
Spero che l’estratto sia riuscito a spiegarti il meccanismo d’incontro tra la bambina e il tubero.
I passi di Letizia generano terremoti nel sottosuolo, ma non è un catastrofico potere della bambina: tutti gli umani mettono in vibrazione il mondo dei tuberi. Per fortuna, la quercia sotto la quale vivono non è frequentatissima e Letizia imparerà a tenere sotto controllo la sua involontaria capacità distruttiva.
La costruzione della sfera e della macchina per “stappare” il terreno è l’ossatura centrale del racconto e ogni tanto penso sia fin troppo definita, ma veniamo alla domanda chiave: Perché vuole uscire?
Sepotessi vuole uscire per andare oltre gli schemi di una strana società sotterranea che non ha limiti; se non quello di poter bucare l’ultimo strato di terra che li divide dal mondo di superficie.
È una sfida a tutti “se potessi”, uno stimolo per cercare di superare i nostri limiti o quelli imposti dalla società. Superare gli schemi può condurre a possibilità mai sondate prima, a soluzioni inaspettate, per se e per gli altri (ed è quello che imparerà il tuberino portando a termine l’impresa).
Grazie Enrico