di Enrico Ernst
[Chi volesse proporsi per questa rubrica – che esce il giovedì – mi scriva, mettendo nell’oggetto il titolo della rubrica stessa. Ringrazio Enrico per la disponibilità. gm]
Caro Giulio,
una formazione o vocazione nasce o sgorga, come si sa, dall’infanzia, anche misteriosamente.
Cercando il primo filo di un destino d’insegnante sono andato a recuperare la figura di un artista che dev’essere stato il mio primo modello letterario e, quindi, virtualmente, il mio primo insegnante di scrittura creativa: Renato Zero; è lui l’eroe della prima fase di un «destino»: la fase della mimesi… Volevo comporre qualcosa che assomigliasse alla canzone La rete d’oro. Crescendo, posi sul piedistallo altri maestri, come Eugenio Bennato, Fabrizio De Andrè, Francesco De Gregori; i cui lavori però non cercai più di imitare. Mi limitai ad amarli e mandarli a memoria – cantavo integralmente Burattino senza fili, Titanic, Non al denaro né all’amore né al cielo. Entrai, in altre parole, nella seconda fase della mia formazione: interiorizzazione, fagocitazione dell’opera altrui.
Ma risalgo verso l’età adulta.
Nella mia formazione, hanno avuto un ruolo determinante le mie attività professionali di correttore bozze, redattore, autore di paratesti.
Avere a che fare con opere scrittorie errate o manchevoli, da manipolare e mettere in forma, da annotare o da introdurre, da pubblicizzare, ha trasformato in modo radicale il mio modo di essere lettore.
Mi sono messo a pagaiare sui fiumi dei testi altrui con attenzione acuminata, cercando di individuare limiti e ostacoli, ma anche potenzialità sopite. Mi sono impegnato al servizio di autori e della loro scrittura, con l’intenzione di circoscriverne e farne emergere il luccichìo – in una combinazione di rispetto e di libertà trasformativa.
Quando ho iniziato a pensare a questa mia «Formazione», Giulio, mi è tornato alla mente il libro di fiabe di uno scienziato, planato sulla mia scrivania di redattore.
Mi chiesero un giudizio sull’opera e io mi presi qualche giorno: idee, ce n’erano, i personaggi: interessanti, e sì – le trame, bene abbastanza bene, ma la grana della scrittura non reggeva: era fiacca, «dura», poco duttile, piatta. Ero sicuro di poter fare qualcosa. Il mio intervento di editing si trasformò presto in un vero e proprio intervento di riscrittura; ne fece le spese soprattutto il primo racconto, dove passai da un narratore esterno tipicamente fiabesco a un narratore interno. Fu illuminante. Ancor oggi – e insegno da undici anni almeno – la riflessione sul narratore e sulla sua posizione è uno dei temi portanti dei miei laboratori sulla prosa letteraria e sulla narrazione.
Insegnare è un modo per non interrompere mai la propria formazione. Mi piace per esempio testare gli esercizi che sottopongo ai miei allievi; a volte – raramente però – lavoro insieme a loro, come loro. Così, frequento i laboratori che conduco. Gratuitamente.
Il mio tragitto come autore ha costeggiato, nutrito e modificato sensibilmente il mio lavoro di docente; sin dall’adolescenza sono stato un animo lirico, ermetico; il lavoro di scrittura remunerato – a partire dai piccoli manuali di filosofia e letteratura greca fino alle pièce teatrali, e ai romanzi e ai racconti per ragazzi di questi anni – mi hanno richiesto di diventare un narratore, di comunicare, di inventare personaggi, vedere scene, di edificare architetture buone per essere attraversate – e non solo quadri astratti, esteticamente intriganti. (Continuo a sentire la poesia come una «casa» cui ritornare).
Cerco la voce dei miei allievi, ognuna diversa; il mio lavoro di docente non può essere uguale per tutti e tutte, ma multiforme, attento al singolare, in ascolto. Penso che i miei allievi sentano che sto cercando – con tutto me stesso – anche la mia, di voce. Non siamo poi così distanti.
Se poi i committenti e i clienti mi hanno «fatto crescere», io mi faccio committente di coloro che lavorano nei miei laboratori; li sprono, richiedo il loro impegno, attendo le loro opere…
Volevo raccontare di quando ho iniziato.
Ho frequentato il laboratorio di scrittura drammaturgica della civica scuola d’arte drammatica Paolo Grassi, nella seconda metà degli anni Novanta.
Lì ho conosciuto l’attore Massimo Sabet. Insieme abbiamo lavorato a uno spettacolo teatrale, un monologo, che abbiamo intitolato La luce.
Mi sono messo al servizio di una storia e di un’esperienza che non erano le mie, ma di Massimo: uno shock anafilattico, un’esperienza di pre-morte.
Abbiamo cercato dei testi che ci supportassero (Elsa Morante, Malcolm Lowry, Krishnamurti). Abbiamo scritto entrambi – lui narrava com’era andata, io cercavo metafore, immagini: un volo che s’interrompe e crolla, un lungo avvitamento.
Quando Massimo aprirà una scuola di teatro a Città Studi (il Faro teatrale), nel 2003, si ricorderà di me come il suo «insegnante di scrittura» e mi chiederà di tenere un laboratorio di scrittura creativa della durata di un anno.
Dovetti imparare molto, e in fretta. Ricordo ancora la trepidazione con la quale mi preparai alla prima lezione. (Che l’insegnamento sia una forma alta di collaborazione – ecco una morale possibile di questo esordio!)
Se io ho cercato a sette, otto anni di riscrivere Renato Zero, i miei primissimi allievi potevano ben esercitarsi riscrivendo, rielaborando e «travolgendo» un brano dall’Odissea e in particolare l’incontro tra Odisseo e Nausicaa (oh, avevano alle spalle un certo James Joyce…).
Tra le centinaia di esercizi che ho inventato in undici anni di attività, questo sopravvive ancora. Ha respiro. E agli allievi di Zara 100 quest’anno ho fatto re-interpretare liberamente alcune fiabe dei fratelli Grimm, un episodio del Ciclo Arturiano (l’amore di Lancillotto e Ginevra), la vicenda biblica di David e Betsabea, l’incontro fra Odisseo e Circe – con esiti notevoli, e notevolissimi.
Negli anni ho imparato che insegnare vuol dire fare un percorso avventuroso, profondo e sottile nelle pieghe dell’immaginario: dei miei allievi ma anche di un’intera civiltà letteraria.
Devo dire, Giulio, che un passaggio bello di questa mia formazione di docente è coinciso con l’incontro, la lettura di Scrivere Zen (traduzione di Writing down the Bones) di Natalie Goldberg. Ho fatto tesoro dell’idea, espressa in modo convincente dalla Goldberg, di un allenamento alla scrittura, che ancor oggi mi pare decisivo: si dà tanta importanza alle regole, alle tecniche – come se si dovesse imparare a giocare a calcio studiando gli schemi, ma senza muovere un muscolo, o muovendolo pochissimo. In qualche caso, in tutti i casi, vorrei che i miei allievi scrivessero un poco ogni giorno.
Arriva nei miei laboratori un momento – molto denso, emozionante – in cui chiedo ai miei studenti di «mantenere la mano in movimento» per un tempo dato, e snocciolo loro le sei regole presenti in uno dei primi capitoli di Scrivere Zen (ne aggiungo anche una settima).
«La pratica della scrittura» scrive Natalie Goldberg «abbraccia tutta la nostra esistenza, e non richiede nessuna struttura logica… È un luogo in cui ci si può abbandonare alle evoluzioni più sfrenate, mescolando la minestra della nonna con lo spettacolo sbalorditivo delle nubi fuori dalla finestra… È il nostro bosco selvaggio dove andiamo a raccogliere le energie prima di potare il giardino, prima di scrivere i nostri libri e i nostri grandi romanzi. È un addestramento continuo» (p. 23). Il bosco selvaggio e il giardino, proprio così. Attraversiamo la foresta, abbracciamo gli alberi, potiamo le piante, concimiamo i fiori, programmiamo le colture.
Sin dal principio, insegno agli adulti. La scelta che compie l’allievo di lavorare con il sottoscritto fa la differenza, rispetto ad altre forme dell’insegnamento – e tuttavia non mi dispiacerebbe (l’ho fatto una sola volta) lavorare con la scuola. Gli allievi continuamente «mi formano». L’incontro per esempio con i giovani e i giovanissimi prende un capitolo interessante e formidabile della mia educazione di insegnante.
Poco dopo il mio inizio nel privato, al Faro, vengo ingaggiato dal pubblico – il Comune di Milano – che mi consente di insegnare a persone che non pagano (e questa bella storia di servizio alla cittadinanza continua, fortunatamente).
La mia prima esperienza è al Centro Giovani Cattabrega. Con un gruppo di ragazzi e ragazze intorno ai sedici anni, costruisco presto una dimensione di confidenza e di gioco. Un momento di svolta è quando i ragazzi e le ragazze iniziano a rifiutare gli esercizi che propongo; gliene presento due, tre alla volta – fino a quando non sono loro a proporre stimoli di scrittura e «compiti» – c’è una tale soddisfazione in questo ribaltamento, che ci troviamo a fare, davvero, «lezione insieme». Così mi sorprendono, danzano, diventano autonomi…
Ancora, potente e luminoso, è stato il mio incontro con alcune classi di Sesto San Giovanni -per un anno – dalla terza elementare alla terza media. Le maestre portavano in biblioteca ragazzi e ragazze che si sedevano, letteralmente e metaforicamente, alla mia tavola. La pietanza che imbandivo era la poesia. Mi misi nell’ottica di semplificare e rendere concreto l’approccio alla scrittura poetica, arrivando ai «piccoli» in modo diretto e interessante. Il che mi ha spinto a farmi ancora più attento al mio modo di comunicare (poesia e concretezza, pane e fiori). L’insegnante, si sa, è un affabulatore.
Lavorare con i ragazzi mi ha confermato in una scelta di metodo: piccola teoria (che cos’è la poesia, come si manifesta, che cosa sono i versi); consegna («ora scriviamo»); il tempo silenzioso della scrittura in aula; lettura pubblica dei testi, ovverosia il tempo della condivisione, del protagonismo e dell’ascolto. Con bimbi e preadolescenti, ho lavorato creando un «pacchetto» di esercizi – ma come insegnante ho scoperto, con il tempo, di detestare la monotonia di un programma sempre uguale. Ho bisogno di cambiare, di essere sorpreso, di sperimentare… Avevo diverse scalette in testa, e prima degli incontri lasciavo che il mio inconscio, il mio intuito, ne scegliesse una. Poi guardavo negli occhi gli allievi, e ne sceglievo, sovente, un’altra.
Ho molto amato un lavoro di visualizzazione: chiedevo ai miei giovani alunni di chiudere gli occhi, di immaginare un campo a perdita d’occhio, e al centro un albero; chiedevo di osservarlo con attenzione, di spostare lo sguardo nei dintorni. Chi o cosa c’era nei pressi?
A un mio cenno, ragazzi e ragazze dovevano aprire gli occhi e comporre una poesia in cui descrivevano quello che avevano visto in quel «sogno da svegli».
Alessia, della 1a C, ha scritto:
Ho visto un campo
di grano tutto
giallo con un
po’ di vento
muovendo grano
io in mezzo
al campo mi
feci trasportare
dal vento…
È arrivato un giorno nel quale il mio lavoro ha fatto un salto di qualità, così la mia formazione. Fu quando decisi, a Cinisello Balsamo, di aprire le porte a un cosiddetto laboratorio avanzato (la tua Bottega, Giulio Mozzi, è stato un evento importante: rubo, rielaboro idee altrui, le testo, le deformo ai miei fini, a seconda del gruppo con cui lavoro; ho attinto da te, Giulio, da Luigi Dal Cin e dalla sua «penna bambina», da Livia Chandra Candiani, da Gabriel García Márquez e dal suo, bellissimo, Come si scrive un racconto…).
Non si trattava più di «donare stimoli» e fare scrivere e fare leggere qualcosa in aula. Si trattava piuttosto di seguire ciascun allievo – gli allievi dovevano aver già fatto un percorso con il sottoscritto – lungo la traiettoria di un preciso progetto. Mi si sono posti e mi si pongono inedite, e a anche complesse, problematiche. Tenere unito un gruppo che vuole lavorare insieme, e al contempo dare a ciascuno la giusta attenzione, dosare consigli, editing sui progetti, offrire spiegazioni su tematiche specifiche (sto osservando quanto sia importante il tema dei punti di vista – cerco i metodi più opportuni per introdurlo e farlo comprendere). Sto imparando a lavorare con sotto-gruppi, in cui, più che insegnare, coordino… che meraviglia, continuare a creare!
Per chiudere questo mio intervento, Giulio, la scrittura letteraria mi si presenta come un lavoro solitario, silenzio corroborante, a volte duro, un’affascinante perlustrazione del mondo e di me nel mondo, dei confini e delle possibilità della mia immaginazione.
Nei miei laboratori, la mia passione viene condivisa, diventa humus sociale, rete di relazioni, creazione collettiva e individuale al contempo, reciproca scoperta. Mi educo di continuo all’ascolto vigile e partecipe. Ecco quello che faccio «davvero» (oltre a continuare a immaginare esercizi).
Una mia anziana e coltissima allieva, melomane, mi ha donato un falso volantino del Teatro alla Scala, con sue poesie quasi haiku e un Don Giovanni Rap. Nel dedicarmelo, mi ha chiamato «generatore di fiducia». Mi è parso un complimento fantastico. E me lo appunto al petto. Grazie.
Tag: Elsa Morante, Eugenio Bennato, Fabrizio De André, Francesco De Gregori, Fratelli Grimm, Gabriel García Márquez, James Joyce, Krishnamurti, Livia Chandra Candiani, Luigi Dal Cin, Malcolm Lowry, Massimo Sabet, Natalie Goldberg, Omero, Renato Zero
18 dicembre 2014 alle 10:41
“Nei miei laboratori, la mia passione viene condivisa, diventa humus sociale, rete di relazioni, creazione collettiva e individuale al contempo, reciproca scoperta. Mi educo di continuo all’ascolto vigile e partecipe. Ecco quello che faccio «davvero» (oltre a continuare a immaginare esercizi).”
E’ la parte più appagante (ma anche la più dufficile)dell’insegnamento: imparare a formare se stessi, educarsi.
Bellissima formazione, la tua Enrico Ernst.
18 dicembre 2014 alle 12:29
grazie mariagiannalia, mi hai fatto venire in mente che se ho fatto dei passi significativi sulla vai dell’ascolto e della presenza, lo devo anche a un altra figura determinante nella mia formazione: Maia Cornacchia, e al suo Lavoro Organico… consiglierei a chiunque di conoscerla e lavorare con lei su queste tematiche…
18 dicembre 2014 alle 13:11
È stato un entusiastico consiglio di lettura di Enrico di qualche anno fa, proprio qui su Vibrisse, a incuriosirmi del libro ‘Scrivere Zen’ di Natalie Goldberg.
Mai avrei immaginato di trovare in quel libro ciò che vi ho trovato.
Questa è l’occasione giusta per chiudere il cerchio: grazie, Enrico.
18 dicembre 2014 alle 23:14
Seguo da tre anni corsi e seminari di Enrico, e già questo è segno di apprezzamento. Mi ha sempre meravigliato la sua capacità di valorizzare le persone, di farle esprimere al meglio. Sono cresciuto e ho visto crescere la nostra piccola comunità di scrittori che, da modesti esecutori di esercizi, si stanno ora cimentando in progetti di più ampio respiro. Enrico è riuscito e riesce ad assisterci e a far progredire i nostri percorsi sia come individui che come gruppo. E’ il fulcro della coesione che si è formata tra noi, che ci ha resi amici nei laboratori e fuori. Il lavoro di questi anni ha reso alcune pubblicazioni, un buon numero di reading e iniziative pubbliche, la creazione di un gruppo “fluido” – i Sentieri Sognati – che si amalgama e si attiva in forme diverse a seconda dell’occasione e delle qualità di ciascuno. (Per informazioni: http://sentierisognati.altervista.org/) Ritengo questo un valore non solo per noi ma anche per la comunità di Cinisello, che si è trovata con questa realtà piccola ma capace di emozionare e coinvolgere. Se, tra qualche anno, leggerete dell’insolitamente alta densità di scrittori a Cinisello, ricordatevi che tutto nacque dalle capacità, dall’intelligenza ma soprattutto dal cuore di Enrico.
19 dicembre 2014 alle 05:52
Sai una cosa, Enrico?
Nel tuo intervento c’è una cosa che mi insospettisce un po’. Ed è un certo eccesso di entusiasmo – eccesso per me, che all’entusiasmo sono piuttosto renitente. Prima di scrivere una cosa come
io ci penserei diciotto volte, e credo che poi non la scriverei.
Per carità: l’intervento di Renato Ghezzi dice che, appunto, il tuo entusiasmo non è fuori luogo.
19 dicembre 2014 alle 07:00
suvvia giulio, enrico un po’ lo conosciamo. è pur sempre colui che, in un attimo di furore, voleva fondare il partito stilistico culturale dei neoenfatici:
“mi candido per fondare un partito stilistico culturale nuovo… i neoenfatici! uso abnorme dei punti esclamativi! frasi tornite e perversamente sconnesse! emotività a grappoli a polloni! neoromanticismo tutto anema e core! entusiasmi puerili! neobarocco! espressività e non comunicazione! sincerità a tutti i costi! immagini cangianti!” … 🙂
19 dicembre 2014 alle 09:43
“mi candido per fondare un partito stilistico culturale nuovo… i neoenfatici! uso abnorme dei punti esclamativi! frasi tornite e perversamente sconnesse! emotività a grappoli a polloni! neoromanticismo tutto anema e core! entusiasmi puerili! neobarocco! espressività e non comunicazione! sincerità a tutti i costi! immagini cangianti!” … 🙂
Questa estate ho visitato la mostra sul Futurismo Italiano al Guggeheim di NYC. Ho potuto finalmente guardare da vicino il testo originale del Manifesto e dell’Assedio di Adrianopoli. Beh, Enrico, non so perchè ma leggendo la tua “candidatura” mi è venuto in mente Marinetti.
E’ un accostamento esagerato, ma in quella frase (“uso abnorme dei punti esclamativi! frasi tornite e perversamente sconnesse! emotività a grappoli a polloni! “) qualcosa ce la scorgo.
Per la cronaca la mostra offre tutto il campionario del marinettismo: poesia, prosa, teatro, musica.
19 dicembre 2014 alle 10:01
Ovviamente ci sono anche pittura e scultura.
19 dicembre 2014 alle 10:35
Non so Giulio, cioè: non so cosa “sospetti” (cosa sospetti?). Ma fai male a sospettare…
Io direi che abbiamo anche dei caratteri diversi, e un modo diverso di approccio alle cose, all’insegnamento. Il che mi pare qualcosa di interessante; per quel che mi riguarda mi confronto con altre modalità – e mi fa bene. Per quello che ho potuto vedere, il “clima” del nostro lavoro e delle nostre classi è diverso. Ma insomma (non mi smentisco, Manu!!) viva la diversità!
Capisco che l’entusiasmo e/o l’enfasi, in generale, possano essere fuori luogo o “retorici”, o addirittura “pubblicitari”. Ma io sono davvero entusiasta del mio lavoro di docente… insomma, non fingo…
In più vedo che questa mia “voglia” diventa ricchezza sociale (pare enfatico?); e l’esperienza di Cinisello dove abito, e dove incontro persone in gamba come Renato e tante altre (così a Sesto San Giovanni o a Città Studi o a viale Zara o a Legioni Romane) mi confermano che sto dando un “servizio” al territorio e alle persone. In che senso? Nel senso che le persone diventano amiche e si “imbarcano” in attività creative (non solo opere letterarie), si formano reti.
Devo dire che è qualcosa anche che “mi supera”, se posso così esprimermi. Cioè, vedo che avviene. E ne sono, ovviamente, contento.
Cara Manu. Non sai quanto cogli… ma la mia avventura (evidentemente termine neo-enfatico: ma – vedi – cerco di non usare l’aggettivo “spirituale”) va proprio da un massimo di “sconnessione” e “orfismo” (adolescenza e post) a un tentativo di… bon… comunicazione e narrazione… devo dire che tra i tanti eventi che mi hanno spinto a questa svolta (benedetta) c’è (oltre alla dimensione del lavoro) anche il rapporto con mia figlia, che è uno dei miei grandi “mestri” (la frase subordinata è chiaramente neo-enfatica). I bambini ti riportano sempre “sulla terra”…
19 dicembre 2014 alle 10:48
PS a parte il buffo refuso “mestri” per “maestri”… il virgolettato proposto da Manu mi sa che non è farina del mio sacco… e se sì, scherzavo… col che, grazie Carlo… però, il futurismo mi è davvero un po’ distante… delle avanguardie storiche mi è più simpatico il surrealismo… ultimamente rileggere Majakovski per esempio mi ha fatto venire l’orticaria…
19 dicembre 2014 alle 11:00
Vorrei aggiungere solo un fatto. Dei dodici che partecipano al laboratorio di quest’anno, 3 vengono dal primo corso base di Cinisello nel 2012, 4 dal secondo, 2 dal terzo, 2 da un corso tenuto a Cusano, 1 dai seminari del Faro Teatrale di Milano. Numeri, ma indicano la formazione di una comunità nata da esperienze diverse. Unire mantenendo le diversità è uno dei pregi del modo di lavorare di Enrico, e non l’ultimo.
Scusate, alla fine rimango un ingegnere: amo i numeri!
19 dicembre 2014 alle 11:33
ma si enrico, il tutto era in tono di scherzo, e se vuoi rileggerti nel contesto, si trova nei commenti al post ‘il ricordo d’infanzia: 250’ (io non so mettere i link)
un caro saluto
manu
19 dicembre 2014 alle 12:20
Certo Manu! e anzi ti ringrazio! sono colpito dalla tua “memoria storica”… è qualcosa di raro… un caro saluto a te! (in più davvero il tuo scherzo mi fa riflettere su di me… doppio grazie)
19 dicembre 2014 alle 17:55
“Mi educo di continuo all’ascolto vigile e partecipe. Ecco quello che faccio davvero…”: è la verità. Enrico sa ascoltare. Non solo, sa tirare fuori il meglio dalle persone e lo fa senza etichettare, giudicare, classificare nessuno, ma allo stesso tempo senza fare sconti: se qualcosa secondo lui non va, lo dice chiaramente, pur non mettendosi mai in cattedra. Il suo metodo non è “riproducibile” perché assolutamente personale e strettamente legato alla sua personalità enfatica, verbosa, cumulativa come la sua preparazione: è uno che nella stessa frase cita Teofrasto così come Renato Zero, passando per Borges e la Lamarque, Quentin Tarantino e Manzoni. Non so se sia il metodo migliore, anzi i primi tempi mi lasciava abbastanza sconcertata per la totale mancanza, almeno apparente, di un ordine “sistematico”. Eppure funziona. Le sue lezioni sono come un folata di vento: ne esci spettinato e frastornato ma quando torni a casa il silenzio sembra disadorno, sterile, vuoto. Ed è allora che lo riempi scrivendo.
20 dicembre 2014 alle 08:28
Enrico, giustamente dici che abbiamo caratteri diversi. E per questo, prima di manifestare il mio “sospetto”, ho aspettato che arrivasse un qualche intervento che testimoniasse l’autenticità di quanto hai scritto.
Perché, secondo me, certe affermazioni degli insegnanti diventano credibili solo quando gli allievi le confermano.
20 dicembre 2014 alle 13:32
Aggiungo, Giulio, che penso sia importante per un docente chiedere riscontro ai propri allievi. Per dare il giusto peso al loro punto di vista.
In questo senso, anche il commento di Antonella – come quelli di Renato – è veramente utile per me, oltre che gratificante e bello, e la ringrazio.
Ribadirò che il tema dell’ascolto, per un insegnante, mi pare dirimente.
Ho trovato suggestioni notevoli, in tal senso, nel libro di Marianella Sclavi: “L’arte di ascoltare” (le sette regole dell’arte di ascoltare qui: http://www.pratika.net/portal/formazione/510-le-sette-regole-dellarte-di-ascoltare-di-marianella-sclavi.html).
22 dicembre 2014 alle 17:54
[…] Novità: su Vibrisse un articolo di Enrico Ernst […]
23 dicembre 2014 alle 14:26
Ciao Enrico, ti faccio una domanda.
Se ho capito bene, nei corsi cerchi di insegnare, prima del controllo, la libertà dell’invenzione o qualcosa del genere. E ricordavo dell’esercizio ispirato dal libro della Goldberg, che ne avevamo parlato una volta a tavola, se ricordi. Però, e questa è la domanda. Non temi così facendo di andare incontro a pericoli ingestibili come la fuoriuscita di materiale lavico dall’inconscio dei corsisti o come il crollo dovuto ai conti in sospeso con dei rimossi? Voglio dire. Questo genere di insegnamento confina evidentemente con l’arteterapia. Ma l’arteterapeuta è appunto un terapeuta ed è stato formato, cioè, prima ancora che per curarsi della bellezza e della potenzialità estetica dello scrivente, per mettersi in serio rapporto con il male o con il profondo del cliente (e poi dello scrivente). Non so se mi spiego, scrivo di fretta. Non temi il personale vaso di pandora dei tuoi corsisti insomma?…
23 dicembre 2014 alle 17:14
grazie della domanda Daniele. Forse si può iniziare dall’oggi. Nel senso che in undici anni di insegnamento non mi è mai successo di dovermi occupare di questioni terapeutiche, di psicodrammi, o simili.
Dipende anche dal “contratto formativo”. Nel senso che non sono un terapeuta e quindi non chiamo le persone ai miei laboratori per essere “curate”. (Non se lo aspettano, ecco).
Però evidentemente faccio un lavoro sulla espressione di sé, sulla ricerca dei propri temi, quindi di “scavo” nella nteriorità (magari di più se faccio “scrivere Zen”, un poco meno se faccio scrivere fiabe, anche se poi gli archetipi, le prove…).
Anche per questo – e per come sono io, forse – il clima che cerco di creare è “dolce”, “maternelle” se vuoi: valori decisivi sono: l’ascolto; l’accoglimento; il rispetto; la delicatezza. In campo artistico ho incontrato maestri che preferivano: la performance, la tensione, che creavano competizione tra gli allievi. Ho provato persino la paura, in certe aule, l’astio, il conflitto tra “fratelli” per l’amore del padre. Ecco io spero di essere vaccinato da tutto questo, che “davvero” crea problemi, e che in definitiva non mi interessa e mi pare controproducente.
Sciogliere dei blocchi, liberare la penna, fare i conti anche con emozioni “difficili” – visto che mi occupo di creatività e di arte – mi pare indispensabile, per fare un “buon lavoro”. Io direi: se tutto avviene nel rispetto e nell’accoglimento, perché dovrebbero esserci sofferenze, rischi, “esplosioni”? Anzi, vedo che nei gruppi il “calore” della comunicazione, se ci si apre con fiducia, cresce, fino ad attingere nuovi livelli di intimità e di condivisione. Nuova fiducia in se stessi e negli altri.
Problemi di conflitti (anche aspri) tra le persone li ho incontrati quando ho cercato di far fare opere a più mani e più teste. Lì sì, ho dovuto “guidare” il gruppo con accortezza, e anche ponendo questioni di auotrevolezza, e di “dovere”, riportando tutti al “contratto formativo”. Mi sono dovuto rimboccare le maniche, insomma, è stato interessante, e non facile. Ma quando invece (per fare un esempio) una mia allieva è scoppiata a piangere perché ha “toccato” un punto delicato della sua vita, leggendo un proprio testo, è stato un momento importante per il gruppo, e per lei; oggi quel gruppo, a Sesto San Giovanni, ha una coesione e una gioia di stare insieme straordinaria.
Col che, Daniele, non si tratta – secondo me – in arte di “erompere” emotivamente, ma di ascoltare e dare voce alle emozioni e trovare la via di una forma per esprimerle. Una battuta. La Goldberg non è una “hooligan” ma una persona che crede nella scrittura come meditazione. Saggiamente penso. Spero di averti almeno in parte risposto…
23 dicembre 2014 alle 18:17
” Martedì 23 dicembre 2014 – Nei gustosissimi disegni di Pino Zac che ammiro nel libro che ho appena comprato al solito mercatino – Rouge et noir, 1959 -, i neri pretini che sfilano in processione contro un Diavolo immancabilmente rosso hanno sempre la bocca spalancata. Noi sappiamo che dipende dal fatto che cantano, ma, mi chiedo, uno che fosse privo della facoltà dell’udito, altrimenti detto, un sordo, che penserebbe? Vedrebbe solo una bocca inspiegabilmente – minacciosamente? – aperta, una rotonda, nera – paurosa? – cavità. Esattamente come quelle che disegnava Pino Zac. Che non so se non ci sentisse, ma so che era un bravo disegnatore. Che forse è uno che, comunque, non vuole sentire, e, come si sa, non c’è peggior sordo etc. Nell’occasione penso anche che è morto Joe Cocker, che aveva la mia età e non era un cane, ma un cantante. Che aveva una bellissima voce. Per quelli che potevano sentirla, naturalmente. Qui habet aures, e chi no. “. [*] [**]
[*] La s-formazione dello scrittore / 174
[**] Ri-Buon Natale a tutti.
23 dicembre 2014 alle 18:21
Sì, Enrico, mi hai risposto. Grazie.
In sincerità tutto questo ha del sovrumano, almeno per me. Ad esempio io, tra le decine di aspiranti scrittori incontrati e conosciuti in questi due tre anni, credo di aver incontrato una (forse due) persone smurate da se stesse. Perlopiù, almeno secondo me, gli aspiranti sono ciechi e sordi. Con un’empatia difficile. (La teoria di una persona che non nominerò, perché è stata formulata informalmente al bar, è che in molti si mettano a scrivere narrazioni e dunque a cercare una relazione profonda con il prossimo – il destinatario, il lettore – proprio perché nella vita di tutti i giorni sono incapaci di questo movimento semplicissimo. È una teoria che ho fatto mia.)
Per questo mi stupisco. Puntare così tanto sulla capacità di condivisione, di coesione, di relazione tra persone (tra aspiranti scrittori!) mi pare davvero un gioco sul filo.
Ma evidentemente fa per te.
Buone cose, Enrico.
23 dicembre 2014 alle 18:22
(Ciao Adriano. Anche a te buone feste, che siano lievi.)
23 dicembre 2014 alle 19:40
Grazie dm. Grazie davvero.
Quando ti ho incontrato off line ho sentito quanto tu fossi “smurato” (aperto, amichevole). Mi è piaciuto molto. Sei un “aspirante” anche tu, no?
Cerco di incontrare i miei allievi e che ci si tenga smurati, aperti; è anche un percorso da fare insieme, con del buon tempo.
Ho visto trasformarsi persone che parevano altezzose e murate, cambiare e aprirsi con gruppi stimolanti, in mesi di lavoro insieme. (Non mi piacciono le forzature.)
Procedevano in una familiarità con la scrittura creativa ma procedevano anche nella fiducia e nella esposizione delle loro idee, sentimenti ecc. era importante che loro sapessero di “non temere” – per esempio che non tremassero di fronte al giudizio altrui, o di fronte alla propria severità, o negatività…
quando si crea un bel clima, è possibile “scoprire” di più mi pare, e meglio… (vengo anche dal teatro dove narcisismi e narcisismi feriti, il terrore del giudizio altrui, e la gestione dei piccoli poteri possono creare incredibili “ingorghi” e persino malattie, sofferenze mentali: mi hanno formato tante situazioni in cui dico, parafrasando Montale, ecco cosa non sono, ecco cosa non voglio).
Buon Natale (che acabarra si chiami Adriano: questo sì, questo sì è un dono!). Buon Natale Giulio e Buon Natale Vibrisse.
23 dicembre 2014 alle 20:30
(È buffo come in tantissime circostanze abbia tentato e tentato e tentato di stabilire un contatto con un altro scrivente ostinato, cacciandomi a volte in situazioni grottesche, ridicole e – guarda un poco – romanzesche. Cercavo gente impantanata nella scrittura sia per un’esigenza di condivisione, sia per necessità di uno scambio di indicazioni e letture (nessuno dei miei amici più cari legge; hanno altre qualità, sono comunque ottime persone). Ma si è rivelata una ricerca abbastanza umiliante, e quindi poi ho smesso. È l’ennesima parentesi).
24 dicembre 2014 alle 00:58
Caro Enrico, posso solo dirti che sono contenta che il mio primo corso di Scrittura creativa sia stato quello tenuto da te. Non potevo chiedere insegnante migliore per me che avevo interesse, curiosità, voglia di sperimentarmi senza sentirmi particolarmente dotata. Dalla prima lezione ho capito che avrei continuato a frequentare perché è bello ascoltarti, sai accendere le lampadine giuste nell’anima delle persone perchè anche tu ci metti la tua. Lo scrivere zen è poi un’esperienza liberatoria, catartica, indimenticabile. Le parole affluiscono quasi da sole, un moto di ribellione dell’anima dalle trappole della ragione.
Condivido appieno il commento dell’altra Antonella: tu sai ascoltare e credo tirare fuori il meglio dalle persone. Non so che metodo tu segua e non mi interessa granché ma penso funzioni anzi ne sono sicura almeno su di me che non ho paragoni ma le cose le sento di pancia prima ancora che di testa. Tu sei una persona colta anche se non lo dai a vedere e non hai la spocchia di chi lo fa pesare ma le tue lezioni arricchiscono e senza un giudizio troppo pesante la scrittura affiora.
24 dicembre 2014 alle 12:25
… “senza un giudizio troppo pesante la scrittura affiora”. Grazie Antonella, sono parole proprio importanti… e dm, mi viene da fare il saggio… magari si trova quando non si cerca più (con ostinazione)…
24 dicembre 2014 alle 15:34
volevo scrivere “troppo severo” in realtà ma è la stessa cosa…ciao a presto Enrico e buone vacanze!
25 dicembre 2014 alle 20:20
Caro Enrico, ho letto il tuo articolo e penso che rispecchi totalmente la tua personalità che regala ricchezza e stimoli ad ogni lezione di scrittura che tieni; tu ci offri su un vassoio d’argento tanti buoni pasticcini letterari e con umiltà ci ascolti e ci incoraggi a scrivere. Io,neofita della scrittura e strapiena di ignoranza letteraria, mi sento compresa, quando leggo davanti a te ed al gruppo. Pur essendo timida nel leggere affronto le mie emozioni perchè mi fai sentire come un bambino che impara a pedalare in bicicletta o come Ulisse che affronta il suo viaggio, ma dentro sa che alla fine arriverà. Viva i tuoi corsi al sapore di Zen.
26 dicembre 2014 alle 11:02
Grazie Sandra… che hai scritto a Natale!… per le belle parole… mi piace questa immagine della scrittura creativa come dell’andare in bicicletta…
19 luglio 2016 alle 18:52
[…] Ernst enrico.ernst@fastwebnet.it Docente di scrittura creativa clicca qui per leggere il […]