La formazione dello scrittore, 26 / Federico Platania

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di Federico Platania

[Questo è il ventiseiesimo articolo della serie La formazione dello scrittore, parallela alla serie La formazione della scrittrice. Le due serie escono, ormai un po’ come viene viene, il lunedì e il giovedì. Ringrazio Federico per la disponibilità. gm]

La formazione del non-lettore

Tutti i miei compagni di scuola avevano la tv a colori. Io no. La mia casa era piena di statue. Nessuno dei miei compagni di scuola poteva dire altrettanto.
Credo che la mia relazione con la cultura sia stata segnata da questa diversità che io ho sempre vissuto con orgoglio. Mio nonno, Pasquale Platania, era uno scultore (ero il nipote di uno scultore!). La mia casa era piena di libri (quanti? sicuramente più di quanti ne vedevo nelle case dei miei compagni di scuola). A otto anni ero affascinato dall’atmosfera del salotto di casa mia con tutte quelle statue, quei libri e quel vecchio televisore dove mi rassegnavo a vedere Jeeg Robot D’Acciaio in bianco e nero.
Così affascinato che l’idea di prendere uno di quei libri per leggerlo non mi ha mai sfiorato. Per anni.
Ricordo però quel pomeriggio in cui mio padre, dopo aver preso un volume da uno scaffale, mi disse: vedi questo libro? Pensa che ci sono persone, anche molto intelligenti, che non sono riuscite a finirlo.
Quel libro era l’Ulisse di Joyce. Ecco. Se oggi sono un “lettore forte” è perché quel giorno mio padre (il quale, per paradosso, faceva parte di quel gruppo di lettori che non è riuscito a finire l’Ulisse) mi ha indicato una vetta da scalare, un traguardo da raggiungere. Sono stato folgorato sulla via della letteratura non grazie alla promessa di un piacere, bensì alla prospettiva di una difficoltà.
Dieci anni dopo sono sulla scalinata esterna dell’Aula Magna dell’Università La Sapienza di Roma. Ho quella copia dell’Ulisse tra le mani. E non mi sembra vero. Mi sento come uno scalatore che dopo una serie di ferrate in montagna giunga finalmente al giorno in cui è pronto per affrontare l’Everest.

La formazione del correttore

Mio padre, dunque. La curiosità verso la scrittura mi ha colto prima della curiosità verso la lettura, prima ancora di quel pomeriggio in cui mio padre mi indico la vetta dell’Ulisse, prima ancora delle mie svogliate letture scolastiche. Mio padre scriveva. In continuazione. Scriveva per lavoro (era un funzionario della Polizia Municipale e collaborava con diverse testate di settore) e per passione. Mio padre non scriveva poesie, né romanzi. Tra le sue carte ho trovato un solo racconto. Mio padre scriveva diari. Uso il termine al plurale perché mio padre non teneva un diario, ma lavorava per strati, per piani. Aveva diverse agende aperte contemporaneamente sulla scrivania, dove accanto alla breve cronaca dei fatti salienti della giornata appuntava minimi dati quotidiani (il suo peso, il saldo in banca, le medicine che prendeva e, non ho mai capito perché, la temperatura esterna). Poi, in genere la domenica nel tardo pomeriggio, convertiva la massa di dati raccolta nel corso della settimana in una narrazione più ariosa, non priva di una certa retorica e con considerazioni quasi sempre benevole nei confronti delle cose che facevamo io, mia madre, i nostri parenti.
E poi c’era la macchina da scrivere con la quale mio padre preparava le bozze degli articoli per i giornali con cui collaborava, le bobine di nastro inchiostrato, risme di carta nei cassetti. Lo studio di mio padre era più fornito di una cartoleria. Come tutti i bambini imitavo mio padre. Lui passava molte ore tra quegli oggetti e io facevo altrettanto. Giocavo nel suo studio e giocavo con la carta, le penne, i nastri inchiostrati (a un certo punto mio padre rimpiazzò con una nuova la sua vecchia macchina da scrivere, che divenne ovviamente il mio giocattolo preferito).
Infine, lo accompagnavo in tipografia dove lui andava abbastanza spesso (perché ci teneva a controllare che i suoi pezzi uscissero senza errori ma soprattutto, così credo, perché a lui piaceva molto quell’ambiente). La tipografia era un mio luogo segreto, che ancora una volta mi distingueva dai miei coetanei. Nessuno di loro sapeva delle rotative, dei banchi con i caratteri mobili (era la fine degli anni Settanta, non c’era ancora la stampa digitale), delle lastre per le immagini, dei clichés.
Tutto questo (gli appunti copiati dalle agende ai quaderni, il passaggio dai fogli dattiloscritti alle riviste rilegate) mi ha insegnato qualcosa sulla scrittura che avrei capito solo in seguito: da ragazzino non avevo ancora dimestichezza con concetti quali il personaggio e la trama (anche perché leggevo poco e niente). I concetti di bozza e stesura definitiva, invece, mi erano già chiarissimi.
Ho capito fin da bambino che scrivere significa cancellare e riscrivere, selezionare, scegliere, scartare e riscrivere ancora. L’ho capito perché questo era quello che faceva mio padre nel suo studio, quando tirava via con uno straaaaaaap il foglio dal rullo della macchina da scrivere e lo gettava accartocciato nel cestino, oppure quando con una penna rivedeva il dattiloscritto e cassava interi paragrafi oppure tracciava lunghe frecce che attraversavano il foglio per ricordare a se stesso: questo paragrafo va prima di questo, quest’altro meglio spostarlo alla fine.

La formazione del lettore

Con la lettura ho cominciato a fare sul serio tardissimo. A diciotto anni circa. Fino a quel momento leggevo solo i libri di scuola e per me leggere era come fare un esercizio di matematica o imparare a memoria gli affluenti del Po. Non avevo una mia opinione sull’atto della lettura.
Un giorno accompagnai un mio amico in libreria, lui sì un lettore “forte” (io, ricordatevi, ero sempre quello con il nonno scultore, il papà cronachista, la casa piena di libri, dunque, sì, il mio amico “doveva” leggere, poverino, io invece ero colto per nascita). Usciti dalla libreria il mio amico ricontrollò quello che aveva comprato – almeno sette, otto volumi – e: toh!, disse, che scemo! Questo ce l’avevo già. Beh, dai, te lo regalo.
E mi passò I fiori del male di Baudelaire in una di quelle respingenti edizioni amaranto chiaro della Newton Compton. Io mi ritrovai tra le mani questa tegola dal cielo, chiedendomi cosa ne avrei fatto.
Lo lessi. Mi piacque tantissimo (oggi mi viene da dire: dov’è la notizia? Capirai, un diciottenne che legge un maudit. Logico che gli piaccia). Ma al di là del libro in sé, a essere importante fu la curiosità che quella lettura mi ispirò. Mi venne voglia di leggere altro. Lessi altro.
Scoprii che i libri erano tutti collegati tra loro. Esistevano percorsi, scorciatoie, salti, passaggi segreti. Internet non esisteva, ma bastava guardare bene nelle prefazioni, nelle introduzioni, c’era sempre un rimando, un riferimento, c’era sempre, nascosto da qualche parte, il titolo del prossimo libro da leggere.
I libri del salotto di casa smisero di essere oggetti appoggiati lì e presero vita. È stato lì che ho incontrato Dostoevskij, Pratolini, Tomasi di Lampedusa, Elsa Morante, quel Joyce che mio padre mi aveva indicato tanti anni prima. E Sartre.
Tra i libri che aveva mio padre ce n’era uno intitolato La nausea. Io credevo, senza ironia, che fosse un testo di medicina. Mi sembrava impossibile che qualcuno potesse dare un titolo del genere a un romanzo e forse fu proprio quello a incuriosirmi (più tardi avrei scoperto che Jean Paul Sartre voleva intitolare quel libro Factum sulla contingenza. Ma Gallimard, l’editore, disse: sei matto? Non venderebbe una copia!). Insomma lessi La nausea e fu come se un meteorite si schiantasse nel salotto di casa mia. Quella è stata la prima volta che ho pensato che la letteratura era un forma terribile e meravigliosa di magia. E che io volevo essere uno stregone. Volevo imparare anche io, con la sola forza delle parole, a scagliare meteoriti nei salotti degli altri lettori. Cominciai a scrivere. Racconti.

La formazione dello scrittore (a pagamento)

Di quel periodo ricordo soprattutto la mia presunzione. Non avevo letto che pochi libri, avevo appena cominciato a scrivere e già mi sentivo Proust. Nel giro di pochi mesi misi insieme due raccolte dai titoli tronfi (Sentenze e allarmismi, la prima e Mercurio e vendetta la seconda). Cominciai a spedire quelle due raccolte a vari editori, commettendo un errore tipico: spedisco a casaccio, da Einaudi a Stampa Alternativa, da Adelphi a case editrici che sento nominare per la prima volta. Mi rispondono tutti. Alcuni dicendomi che il loro piano di uscite editoriali è già completo, altri chiedendomi dei soldi per pubblicare.
Tra chi mi chiede soldi c’è anche la Maremmi Editore/Firenze Libri. È il marzo del 1993, ho compiuto da poco 22 anni (e io, da bravo giovin esistenzialista, sapevo bene cosa diceva Paul Nizan: “Avevo vent’anni. Non permetterò a nessuno di dire che questo è il periodo migliore della vita”). Mi illudo che pubblicare un libro possa migliorare la percezione che ho di me. Accetto l’offerta della Firenze Libri.
Per stampare seicento copie dei miei racconti (di cui duecentocinquanta mi verranno recapitate direttamente a casa) la Firenze Libri mi chiede tre milioni seicentomila lire. È una cifra importante, praticamente tutti i soldi che ho messo da parte fino a quel momento con lavoretti saltuari, regali di parenti, etc. Decido comunque di procedere (avevo, evidentemente, un grande bisogno di far crescere la mia autostima).
Prima ancora che io accettassi la loro offerta, la Firenze Libri mi aveva inviato un libro di memorie del fondatore Giorgio Maremmi in cui si parlava dei rapporti tra editore e autore, di conversazioni di letteratura intorno a un buon bicchiere di vino, di passioni e sogni in comune. Quel libro fu determinante nello scegliere di accettare la loro offerta. Tanto che quando mi spedirono a casa il contratto da firmare e rispedire io chiamai al telefono l’editore e comunicai a una segretaria piuttosto perplessa che preferivo andare di persona a Firenze e firmare il contratto davanti a loro.
Quella mattina di inizio luglio, mentre viaggio in treno verso la Toscana, sogno le conversazioni letterarie che farò con Giorgio Maremmi, i bicchieri di vino che berremo insieme parlando di Sartre, ovviamente, e del mio futuro come scrittore. Quando arrivo alla casa editrice scopro che l’editore non c’è, che non ci sarà nessun pranzo tra letterati, nessuna conversazione tra spiriti affini. Una donna, presumo la stessa che mi aveva risposto al telefono qualche giorno prima, mi accoglie cordialmente, rileggiamo insieme il contratto, lo firmiamo. Il volume si intitolerà Mercurio e sarà composto da una selezione dei racconti migliori delle due raccolte che avevo spedito.
Esco dalla casa editrice neanche mezz’ora dopo esserci entrato. Mangio un pezzetto di pizza al taglio (ricordo ancora: carissimo) dalle parti della stazione di Firenze-Santa Maria Novella e nel primo pomeriggio sono di nuovo a casa, a Roma, con un po’ di mal di testa.
Comincio a sospettare di essermi imbarcato in un pessimo affare. Compio giri perlustrativi tra le librerie del centro, per chiedere se ne sanno di più della Maremmi Editori / Firenze Libri. Le risposte che ottengo sono sconfortanti. Le principali librerie (Feltrinelli, Rinascita) mi dicono che non trattano libri pubblicati da case editrici a pagamento. L’unica speranza che ho è che qualche cliente ordini loro esplicitamente una o più copie del libro. Solo in quel caso loro chiederanno al distributore di fargli avere le copie richieste (e solo quelle, non una copia di più!).
In una desolata giornata di agosto arriva a casa lo scatolone con le 250 copie di Mercurio di mia spettanza. Rigirarsi queste copie tra le mani in questo giorno di solitudine canicolare è tutto quello che mi resta di quell’esperienza. Di Mercurio non parlerà nessuno, nessun giornale, nessun addetto ai lavori. Un’amica di mia madre si offrirà di comprarne dieci copie per incoraggiamento. I miei amici dell’epoca si metteranno d’accordo e ne compreranno altrettante. Alla fine Mercurio venderà ventidue delle seicento copie tirate dall’editore.

La formazione del redattore

Ma io non ho intenzione di rinunciare. Anzi. Continuo a leggere, molto. Continuo a scrivere. Mi rimetto addirittura a studiare: dopo qualche lavoretto in piccole aziende (so programmare i computer e all’epoca questa cosa significa lavoro assicurato) mi iscrivo all’università, facoltà di Scienze Politiche. Già mi vedo, intellettuale e politologo, che scrivo poderosi saggi a cui affianco, ovviamente, una produzione narrativa e perché no? drammaturgica per spiegare al popolino il mio alto pensiero (ancora una volta, Sartre è il modello. Manca ancora qualche anno alla sua defenestrazione dal mio immaginario).
Invio un racconto al bimestrale Storie (avevo letto un loro annuncio su un quotidiano: “Al popolo di poeti e raccontatori. Mandateci i vostri racconti e le vostre poesie – non più di quattro cartelle dattiloscritte. I vostri scritti saranno pubblicati o, comunque, recensiti“). Il mio racconto viene pubblicato. Qualche settimana dopo, è l’ottobre del 1994, mi telefona Gianluca Bassi, il direttore di Storie. Mi fa ancora i complimenti per il racconto e mi dice che stanno per avviare un corso di giornalismo e scrittura. Mi chiede se potrei essere interessato a iscrivermi. Ovviamente dico di sì.
Ho bei ricordi di quel corso. Gianluca Bassi era bravo, coinvolgente. Alle lezioni ogni tanto partecipavano come ospiti personaggi famosi (Teresa De Sio, Roberto Cotroneo, Sandro Ciotti) ognuno raccontando la scrittura secondo le rispettive competenze. All’inizio del corso Gianluca ci aveva detto che i due iscritti più meritevoli avrebbero “vinto” uno stage di un anno presso la redazione. Sono uno dei due iscritti più meritevoli. Inizio a frequentare quotidianamente la redazione.
Sono mesi molto intensi, leggo e scrivo in continuazione, anche a scapito dello studio e dell’università. Il sogno dell’intellettuale politologo sta già lasciando spazio al sogno del giornalista scrittore. I miei genitori sono un po’ preoccupati ma mi lasciano fare.
Cominciano ad apparire miei racconti e articoli sui vari numeri di Storie. Gianluca, oltre a pubblicare i miei scritti, mi fa anche partecipare attivamente a tutte le fasi realizzative della rivista. Imparo tantissimo. Come si “passa” un pezzo, come si costruisce un titolo, come scrivere in tempi e spazi limitati.
Frequenterò la redazione di Storie fino al 1996, quando interromperò la collaborazione perché nel frattempo ho cominciato a soffrire di crisi depressive e non ho più voglia di fare nulla.

La formazione del beckettiano

Sono anni neri. Niente amore, niente lavoro, niente studio, niente scrittura. Mi dà fastidio perfino ascoltare la musica. Passo gran parte del tempo buttato sul divano a vedere la TV. Una notte danno l’allestimento di Finale di partita di Samuel Beckett per la regia di Carlo Cecchi, con lo stesso Cecchi nel ruolo di Hamm e Valerio Binasco in quello di Clov.
Fino alla metà degli anni ’90 per me Beckett non era che uno dei tanti scrittori che leggevo con soddisfazione, ma non primeggiava ancora su nessuno. Tra l’altro non avevo ancora letto Finale di partita e quella poteva essere una buona occasione per conoscere quell’opera.
Beh, come spettatore, fu una delle esperienze artistiche più devastanti della mia vita. Se mai sono stato vittima della Sindrome di Stendhal è stato quella volta lì. Quella notte Samuel Beckett divenne il mio autore preferito e io capii che non mi sarebbe più bastato leggerlo, ma bisognava fare qualcosa di più: studiarlo, approfondirlo, finirlo insomma. Comincio a raccogliere informazioni, scrivere brevi schede critiche, procurarmi i testi che mi mancavano.
Per essere depresso sono fin troppo attivo. Nel frattempo nella mia vita privata accadono grandi sconvolgimenti: muore mio padre, conosco la donna che diventerà mia moglie, trovo un lavoro stabile. E in mezzo a tutto questo, Beckett. Testi, teatro, materiali. Decido di razionalizzare il tutto in una mini enciclopedia online. All’epoca Wikipedia era appena nata e io comunque non la conoscevo, ma quello che stavo mettendo su in quei giorni, senza esserne consapevole, era una sorta di wiki-Beckett. Nell’agosto del 2003 appare per la prima volta su internet l’home page di quello che poi sarebbe diventato www.samuelbeckett.it
All’inizio quel sito era uno strumento pensato soprattutto per me, perché volevo avere sempre a disposizione tutta la messe di dati che a mano a mano raccoglievo. Poi, nel 2006, ricevetti una mail dall’Accademia di Belle Arti di Macerata. Mi invitavano a tenere un intervento al convegno che stavano organizzando in occasione del Centenario della nascita di Beckett. Io risposi: ma… io sono un semplice lettore, non sono neanche laureato!
Loro mi dissero che la cosa non costituiva un problema. Avevano visto il mio sito e si fidavano di me, anzi mi chiesero di partecipare con un breve saggio a un volume collettivo sulla multimedialità in Beckett. Quel giorno ho capito che samuelbeckett.it non era più solo il frutto di una fissazione personale ma stava diventando uno strumento utile anche ad altri. Da lì è cominciata la dimensione pubblica di questo lavoro che mi ha portato, tra le altre cose, a tenere un incontro su Beckett con alcuni studenti dell’Accademia di Brera, a fare da consulente per Rockabeckett (un festival beckettiano che si è tenuto a Milano) e a partecipare con miei testi ad alcuni saggi.

La formazione del drammaturgo

Piccolo passo indietro. Torniamo nel 1996. Nella mia vita di perdigiorno decido di collaborare con la compagnia teatrale del quartiere. Il regista cerca qualcuno che gli dia una mano con i testi. Ha bisogno soprattutto di qualcuno che si occupi degli adattamenti (tipo fare in modo che i sedici personaggi dell’Amleto diventino tre e tutte donne perché in quel momento ci sono solo tre attrici disponibili. Oppure che i quattro atti del Giardino dei ciliegi diventino uno solo. Eccetera). Poi se voglio proporre anche qualche testo mio, ben venga.
Io non avevo mai scritto nulla che potesse essere messo in scena. All’epoca però avevo appena finito un romanzo, intitolato Come se nulla fosse accaduto, che secondo me poteva prestarsi per un adattamento. Già stavo lavorando al copione quando il regista mi disse: che fai? Non c’è bisogno. Va già bene così. È un monologo perfetto.
Nella primavera del 1997 va in scena la mia prima e unica pièce al piccolo teatro di quartiere che si chiama davvero “Piccolo Teatro” e che ovviamente non ha nulla a che fare con il grande “Piccolo” di Milano. Io sono tra il pubblico, in apnea, e riprendo fiato solo quando sento la gente che applaude. È una bella sensazione.
Tutti i luoghi comuni che avete sentito dire sul teatro – il cameratismo, il fascino del dietro le quinte, il divertimento delle pizze a notte fonda dopo le repliche – è tutto vero. Ma è altrettanto vero che il teatro è la forma d’arte più autoreferenziale che abbia conosciuto. È un mondo che si autoalimenta, dove chi sta in scena una sera è tra il pubblico di un altro spettacolo la sera dopo. Forse anche per questo motivo la mia avventura nel teatro finisce molto presto.

La formazione del lettore (in pubblico)

Fine anni Novanta. Boom di internet. Comincio a frequentare il newsgroup it.cultura.libri. Inevitabilmente si finisce col dire: conosciamoci di persona. Incontro alcuni degli altri frequentatori che abitano a Roma. Con alcuni di loro divento amico. Tante cene insieme a chiacchierare di libri. Va a finire che decidiamo di dare una forma pubblica a questa nostra passione comune. È così che nascono I libri in testa. Ci definiamo un “pericoloso gruppo di provocatori letterari”. La nostra formula è questa: anziché leggere cose scritte da noi (come avviene nei reading classici) leggiamo cose scritte da altri. Lo facciamo a voce alta, dapprima nella sala-ballatoio dell’Antica Libreria Croce di corso Vittorio, poi (ma io nel frattempo avrò già lasciato la band) alla Libreria Altroquando.
La squadra de I libri in testa cambia nel corso degli anni. C’è chi va e chi viene. Tra tutti ricordo Michele Governatori, Nadia Terranova, Igiaba Scego, Giuseppe Ierolli, Alessio Brandolini, tutta gente che prima o poi sarebbe finita ad avere un ruolo attivo nel mondo delle lettere, scrivendo narrativa o poesia, mettendo su una piccola casa editrice o traducendo e curando volumi di autori classici.
Mi chiedo: eravamo velleitari? Non lo so, ricordo però un grande entusiasmo, soprattutto agli inizi (eravamo dadaisti, facevamo striscioni scenografici, usavamo megafoni) e – di nuovo – tante ore passate a parlare di quello che a me piaceva davvero insieme a gente che ne sapeva. Tanti libri scoperti, tanti suggerimenti, tante litigate anche (pro/contro quell’autore, quel romanzo, quella tendenza).
Io, ripeto, me ne sono andato nel 2007, alla fine della sesta stagione. Loro continuano ancora, se siete di Roma andate a vederli. Sono bravi.
Ma la forma associativa della letteratura continua ad attrarmi. Uscito da I libri in testa decido di aderire ad altre iniziative: i Piccoli maestri, un gruppo di scrittori volontari che va per le scuole a raccontare ognuno il proprio libro del cuore (io ne ho più d’uno: Canto di Natale di Dickens, Cattedrale di Carver, Il castello di Kafka e, ovviamente, due o tre testi di Beckett) e poi Bombacarta, il network di associazioni fondato quindici anni fa dall’ormai celebre Antonio Spadaro. Qui partecipo al laboratorio di lettura Flannery O’Connor e all’Officina.

La formazione dello scrittore (finalmente)

La perdita della verginità editoriale è uno dei più importanti momenti di passaggio nella vita di uno scrittore. Come nel caso dell’altra verginità, raramente la perdita avviene per caso e raramente avviene nel modo in cui ce l’eravamo sempre immaginata.
Io erano anni che ci provavo (non considerando valida la prima volta, quella con l’editore a pagamento, perché – volendo proseguire lungo la scia di questa appiccicosa metafora – un conto è farlo pagando, un conto è farlo perché l’altra parte lo vuole quanto te).
Anni che ci provavo, dicevo. Almeno dal 1999. L’ultima cosa che avevo scritto era una raccolta intitolata Nove racconti egoisti. Mi sembrava la cosa più matura che avesi scritto fino a quel momento. Di nuovo l’avevo spedita un po’ in giro senza fare troppa selezione tra i destinatari.
Tra questi anche la neonata collana Ossigeno della Feltrinelli Traveller il cui elemento di richiamo era la cura di Stefano Benni. Il 13 ottobre del 1999 ricevo una lettera da Carlo Marulli, editor della Ossigeno, in cui mi dice, in sintesi, caro Federico, i tuoi racconti sono davvero interessanti e potremmo cominciare a ragionarci su se non fosse che la Ossigeno già chiude i battenti. Tutto quello che possiamo fare è segnalarti alla Feltrinelli ma non possiamo garantirti nulla.
Come direbbe Homer Simpson: doh!
Ma quella lettera della Ossigeno era tutto quel che avevo in mano per richiamare su di me l’attenzione di qualche nome del mondo editoriale italiano. E dunque, forte di questo attestato di merito, mi presentai appunto via e-mail a un po’ di scrittori che in quel periodo frequentavano, anche solo di rado, it.cultura.libri: Giulio Mozzi, Eraldo Baldini, Simona Vinci, Piersandro Pallavicini, Matteo B. Bianchi.
Fu proprio Pallavicini, che allora credo avesse pubblicato solo Il mostro di Vigevano con Pequod e un paio di saggi con Theoria e Fernandel, a rispondermi dicendo, beh, se questi racconti sono così belli come dicono fammeli leggere e vediamo quel che si può fare.
Anche Simona Vinci fu molto gentile e mi diede il contatto dell’editor di Guanda, Daniela De Rosa, chiedendomi di inviarle i racconti (la De Rosa mi telefonò dopo aver ricevuto lo stampato. Non espresse giudizi di valore sulla mia raccolta, ma disse che pubblicare racconti di un esordiente non è una scelta editoriale valida. Amen). Matteo B. Bianchi lesse, si complimentò e mi consigliò di presentarmi a Ricercare, la famosa rassegna letteraria di Reggio Emilia (poi non ci andai).
Ecco, ricordo soprattutto questo: gli scrittori con cui ero entrato in contatto non avevano quell’atteggiamento del tipo “io sono arrivato, tu non rompere” che temevo. Anzi, erano tutti molto gentili e prodighi di consigli. Forse sono stato solo fortunato, forse le cose sono già cambiate, forse la loro disponibilità all’epoca derivava dal fatto che pur pubblicando per case editrici medio-grandi ancora non erano famosissimi, non so, ma anche se non riuscirono a farmi avere un contratto mi fecero sentire parte di un mondo e all’epoca per me questo era forse più importante della pubblicazione, mi dava speranza e – cosa decisiva – mi faceva venire voglia di continuare a scrivere.
Pallavicini mi mandò una mail dopo un po’ di tempo dicendomi che aveva girato i miei racconti ad Alberto Gozzi per la sua piccola casa editrice, la Portofranco, per la quale – secondo Piersandro – i miei racconti erano perfetti. Le giornate passavano allora in attesa di telefonate o mail da Gozzi. Dopo un numero incalcolabile di mesi Gozzi mi disse che i racconti erano belli, erano piaciuti a tutti i redattori della casa editrice, che scrivevo bene, ma che la lunghezza troppo esigua ne impediva la pubblicazione.
Di nuovo, il buon Pallavicini riprese in carico la faccenda e mi disse che Fernandel, la rivista, stava riaprendo dopo un lungo periodo di sospensione delle pubblicazioni (doveva essere il 2001 o il 2002, non ricordo). Così sottopose i miei Nove racconti egoisti all’allora per me sconosciuto Giorgio Pozzi, che ne selezionò uno e lo pubblicò (si intitolava Il disperante). Io non ero felicissimo, perché per me i Nove racconti egoisti erano un tutto unico e pubblicare solo un pezzo non aveva molto senso. La pubblicazione di quel racconto si rivelò invece una svolta, perché finalmente entravo in contatto diretto con un editore. Non dovevo più scrivere “Buongiorno, mi chiamo Federico Platania e vorrei sottoporle questo romanzo”, potevo finalmente scrivere “Ciao Giorgio, ti ricordi? Hai pubblicato un mio racconto sulla tua rivista. Ora vorrei farti leggere questo…”.
Pozzi si rivelò un osso più duro del previsto. Cominciai a sottoporgli altri racconti: qualcuno lo pubblicava, qualcun altro lo demoliva con i suoi modi angelici. Il mio vero obiettivo restava comunque la pubblicazione di un libro e non fu facile. Nel corso degli anni gli sottoposi due romanzi (uno completo, uno solo in forma di progetto) e furono entrambi respinti. Mi si chiederà: nel frattempo tentavi con altri editori? Risponderò: no. Ma non saprei spiegare perché.
Sul numero di gennaio-marzo 2004 della rivista Fernandel uscì un mio racconto intitolato Body rental. Era ambientato in un’azienda. Continuai a scrivere racconti su questo tema. Il successivo fu Gracchiante. Lo feci leggere al mio amico e scrittore Michele Governatori (che nel frattempo aveva già perduto la sua verginità editoriale proprio con Fernandel pubblicando il romanzo Venere in topless). Michele mi disse: questo per me è l’inizio di una raccolta di racconti sul lavoro. Perché non prosegui?
Avere amici scrittori sinceri con cui scambiarsi le bozze di scrittura è una cosa molto utile. Presi sul serio il suggerimento di Michele. Cominciai a ragionare sulla cosa e mi resi conto che non volevo parlare di lavoro precario (nel frattempo Pausa caffè di Giorgio Falco aveva aperto le danze di quel filone narrativo) ma dell’ormai leggendario “posto fisso”. Gracchiante era il primo racconto di questa raccolta ancora tutta da fare. Ne scrissi in breve tempo altri tre.
Spedii questi quattro racconti a Giorgio Pozzi spiegandogli il mio progetto. Qualche settimana dopo Giorgio mi telefonò a casa, era un sabato mattina, me lo ricordo ancora. Ogni volta che Giorgio mi telefonava entravo in stato di agitazione perché pensavo “questa è la volta buona questa è la volta buona questa è la volta buona”. Il problema è che Pozzi non è che ti dice: “ti pubblico / non ti pubblico”. No, lui fa una premessa di venti minuti e tu sei lì che fremi e poi alla fine scioglie la riserva (che fino ad allora si era sempre risolta in un “…purtroppo ancora non ci siamo”). E invece quella volta mi disse di colpo: ho letto i quattro racconti che mi hai mandato e… cavolo Federico hai scritto quattro racconti bellissimi!
Era la prima volta che sentivo la sua voce zen tradire un’emozione. Capii che avevo fatto breccia. Dopo più di dieci anni dai miei primi tentativi di scrittura, potevo finalmente dire di aver perduto la mia verginità editoriale.

La continuazione dello scrittore

Ci pensavo l’altra sera, mentre ragionavo su come avrei concluso questa lunga storia di formazione: i primi libri che ho scritto li ho scritti perché avevo paura di qualcosa e scrivere di quel qualcosa mi aiutava a tenere a bada il terrore. Avevo paura del lavoro, della perdita di libertà che ne conseguiva, ed ecco i racconti di Buon lavoro. Avevo paura della povertà, ed ecco il romanzo Il primo sangue, avevo paura del mondo che mi circondava che sembrava deridere, quando non attaccare, le cose in cui credevo, ed ecco il romanzo Il Dio che fa la mia vendetta.
Bambini esclusi (uscito prima del Dio che fa la mia vendetta ma scritto dopo) segna già un cambio di passo: c’è ancora la paura, quella di avere dei figli, di uno dei personaggi, ma anche il desiderio di bellezza da parte dell’altro protagonista (e per chi dice che i libri non cambiano la vita: bè, che ci crediate o no, io ero contrario all’idea di mettere al mondo dei figli e dopo aver scritto Bambini esclusi ho cambiato idea).
Ora sto lavorando a un nuovo romanzo, Le resurrezioni, e una cosa so per certa: non mi sono mai divertito tanto a scrivere come stavolta. La paura, stavolta, non c’entra nulla.
Ma il punto resta: se è legittimo che ci sia curiosità nei confronti del processo di formazione degli scrittori, sarebbe altrettanto utile sapere poi come si continua la crociera dopo il decollo.
Quello che io penso della scrittura, e del mondo editoriale in generale, oggi è molto lontano da quello che pensavo dieci anni fa, vent’anni fa. Il ragazzo che nel salotto dei suoi genitori aveva assistito all’impatto del meteorite, il ragazzo che voleva i superpoteri da stregone delle parole, ecco, quel ragazzo lì secondo me non c’è più, o è molto cambiato.
In tutto questo ha influito certamente la disillusione crescente nei confronti della cosiddetta “industria editoriale”. Quando alla fine degli anni Novanta ho dovuto abbandonare la mia vita da vitellone letterato per mettermi a lavorare come tutti i comuni mortali avevo una visione manichea delle cose: da un lato c’era il nobile “mondo delle lettere”, idilliaco e sublime. Dall’altro lato c’era il vile “mondo dell’azienda”, squallido e avvilente. Ho imparato che il sublime e lo squallido abitano entrambi i mondi e che le soddisfazioni si possono trovare dove meno te lo aspetti.
E allora? Che si fa? Si smette di scrivere? Ma neanche per sogno! Si continua a scrivere? A che pro?
Beckett, pensaci tu.

“Bisogna continuare. Non posso continuare. E io continuo” (L’Innominabile)
“Ho sempre tentato. Ho sempre fallito. Non importa. Tentare ancora. Fallire ancora. Fallire meglio” (Worstward Ho)

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12 Risposte to “La formazione dello scrittore, 26 / Federico Platania”

  1. acabarra59 Says:

    “ Mercoledì 15 maggio 1996 – Ho pensato che questo diario che a quanto pare si intitola La giustizia, farebbe meglio a intitolarsi La giustezza, perché la giustizia non si sa che cosa sia, e credere di saperlo può anche essere pericoloso, mentre la giustezza è solo una cosa da tipografi, e i tipografi, si sa, non hanno mai fatto niente a nessuno. “. [*]
    [*] La s-formazione dello scrittore / 99

  2. RobySan Says:

    Ha bisogno soprattutto di qualcuno che si occupi degli adattamenti (tipo fare in modo che i sedici personaggi dell’Amleto diventino tre e tutte donne perché in quel momento ci sono solo tre attrici disponibili. Oppure che i quattro atti del Giardino dei ciliegi diventino uno solo. Eccetera).

    La tecnica è questa.

  3. maria teresa cipri Says:

    Ciao Federico, ho letto due volte la tua “formazione” e l’ho trovata particolarmente interessante, coinvolgente, vera, scritta in modo esemplare. Emozionante la prima fase e l’introiezione della figura paterna. E poi,chi di “noi” non conosce la Maremmi Editore e non ha ricevuto le sue mitiche lettere? Bravo, congratulazioni! Giulio Mozzi: queste formazioni sono così ben scritte e dei piccoli cammei, che io, fossi in te, le raccoglierei e ne farei un libro.

  4. Giulio Mozzi Says:

    Maria Teresa: eh, il libro si farà. E presto.

  5. davide Says:

    “”In tutto questo ha influito certamente la disillusione crescente nei confronti della cosiddetta “industria editoriale”. Quando alla fine degli anni Novanta ho dovuto abbandonare la mia vita da vitellone letterato per mettermi a lavorare come tutti i comuni mortali avevo una visione manichea delle cose: da un lato c’era il nobile “mondo delle lettere”, idilliaco e sublime. Dall’altro lato c’era il vile “mondo dell’azienda”, squallido e avvilente. Ho imparato che il sublime e lo squallido abitano entrambi i mondi e che le soddisfazioni si possono trovare dove meno te lo aspetti.””

    Bene.

    cmq complimenti Platania,questo globalmente uno dei migliori testi della rassegna

  6. Guido Sperandio Says:

    Scritto bene, con passione e onestà.
    (L’occasione per l’autore del post di fare il punto?… Probabilmente, e perchè no?)

  7. davide Says:

    “scritto bene” si può dire per quasi tutti i testi della rassegna

    ma quello di Macioci e questo sopra,mi pare proprio che pulsino

  8. Paolo Says:

    L’occasione di fare il punto. Sì, condivido la sensazione avuta da qualcuno (anche dal sottoscritto). E la grande diversità fra i vari contributi, che incrementano la curiosità di chi li legge. Alcuni scrittori, a mio avviso, hanno preso spunto per fare il punto o, comunque, per guardarsi indietro e dentro, con più calma e prospettiva. Rielaborando. Mettendo in bella, anche. Altri hanno eluso, a mio avviso, la domanda o hanno dato risposte secche, quasi indispettite. Altri hanno suggerito degli spunti molto meno espliciti e di certo poco biografici. Insomma, una rassegna sempre interessante e variegata. Testi interessanti e spesso arricchenti. Ancora complimenti. E… buon libro!

  9. La formazione dello scrittore | Federico Platania Says:

    […] Partecipo anch’io alla serie La formazione dello scrittore su Vibrisse. Ecco il mio intervento completo. […]

  10. Federico Platania Says:

    @Giulio
    E quando mai? 🙂

    @Guido
    Sì.

    @tutti
    Grazie.

  11. maria rosa Says:

    “Quella mattina di inizio luglio, mentre viaggio in treno verso la Toscana, sogno le conversazioni letterarie che farò con Giorgio Maremmi, i bicchieri di vino che berremo insieme parlando di Sartre, ovviamente, e del mio futuro come scrittore. Quando arrivo alla casa editrice scopro che l’editore non c’è, che non ci sarà nessun pranzo tra letterati, nessuna conversazione tra spiriti affini.”
    C’è in tutto questo un candore struggente misto allo sconfinato senso del proprio sè, che caratterizza molta parte della giovanile formazione degli scrittori. Ma forse è un pedaggio anche questo che uno scrittore deve pagareper dare inizio al suo viaggio? Me lo sono chiesto leggendo queste formazioni. E poi è sempre vero che bisogna continuare? O forse lasciar perdere? Boh.Comunque questa di Federico Platania è una bella formazione, ben scritta e “generosa” nella dovizia dei particolari. L’ho letta con vero interesse.

  12. maria teresa cipri Says:

    Davide: anche secondo me è uno dei migliori testi.

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