di Flavio Santi
[Questo è il venticinquesimo articolo della serie La formazione dello scrittore, parallela alla serie La formazione della scrittrice. Le due serie escono, ormai un po’ come viene viene, il lunedì e il giovedì. Ringrazio Flavio per la disponibilità. gm]
Domanda. Si può amare la scrittura avendo come stella polare questa frase di Joseph Conrad: “Il peggior nemico della realtà sono le parole”? Io volevo dipingere. Anzi, no. Disegnare fumetti. Fare il liceo artistico e poi chissà (oltre a voler fare il calciatore nelle file dell’Udinese). Invece a metà terza media – dopo che il mio rendimento scolastico era calato bruscamente, frequentavo teppistelli, importunavo vecchiette per strada e prendevo una nota sul registro a settimana – trovo un’antologia scolastica di mio padre ferroviere (i miei non leggevano, un po’ mio nonno materno che non ho mai conosciuto ma che mi ha lasciato in eredità un bel po’ di Bur grigi stagionati). Iliade e Odissea. Nelle traduzioni neoclassiche di Vincenzo Monti e di Ippolito Pindemonte. Traduzioni che oggi troverei indigeribili, al limite dell’illeggibilità, guarda tu che effetto sortiscono su un povero tredicenne. “… contra i Greci / pestiferi vibrò dardi mortali”, “Nove giorni volâr pel campo acheo / le divine quadrella”, “E come quando di Favonio il soffio / denso campo di biade urta” ecc. ecc. Basta poco e mi innamoro delle parole. Non voglio più giocare a calcio – l’allenatore della Pozzolese viene sotto casa a implorarmi di giocare, e io niente – manco dei fumetti me ne frega più e mi metto a studiare come un forsennato latino e greco. Gli anni del liceo. Spesso mi capita di fermarmi a pensare a quegli anni di letture totalizzanti e mi domando, un po’ inebetito dai ricordi: Lo rifarei? Lo rifarei di leggere per tutta la notte le tragedie di Seneca, le commedie di Plauto, gli annali di Tacito? Con mio padre che rientra a casa dal turno di notte, mi trova chino su Orazio e mormora sconsolato: “Ho un figlio cretino…”? Sì, probabilmente lo rifarei. Lì scopro la bellezza della traduzione (oltre a tante altre cose, però quei primi esperimenti dal greco e dal latino in italiano sono inebrianti).
Sono fissato con la Scuola Normale di Pisa. Voglio diventare un filologo classico. L’estate della maturità non studio molto però, leggiucchio un po’ di Saffo. Esami alla Normale: un testo latino di Velleio Patercolo (storico non minore ma minimo), un testo greco di Platone, un sonetto di Belli da commentare. Mi viene il sospetto che il testo greco di Platone non sia stato dato nella forma migliore, mi procuro l’edizione di Oxford, e infatti. Ne discuto durante l’orale con l’illustre grecista Vincenzo Di Benedetto. Nel complesso l’impressione non è molto positiva: tanta erudizione, sì certo, ma la vita dov’è? Arriva la raccomandata: sono stato preso, undicesimo posto ex aequo. Il sogno della mia vita è destinato a materializzarsi? Niente di tutto ciò. Nel frattempo ho deciso che non voglio più fare il filologo, fulminato da un verso di Giovanni Giudici: “Altro è filologia altro è la vita”. Rinuncio. E adesso? L’università più vicina è Pavia. Bene, mi iscrivo lì a lettere. Indirizzo cinematografico – poi subito cambiato in filologico, il primo amore non si scorda mai. Finora avevo scritto? Sì, dei salaci epigrammi alla Marziale in distici latini… Un progetto di poema sul Dio Ammone, e altre assurdità in latino. Una sera incontro Chiara, la mia futura moglie, la mia salvezza. Torno a scrivere per lei poesie (in italiano!) – la conquisterò con un incomprensibile testo in cui parlo di “vampiri” e “Boote” (grazie Virgilio).
Sempre nell’estate della maturità, quella della Normale di Pisa, tra un Martini e l’altro avevo covato un progetto folle. Diventerà il mio primo romanzo, uscito per PeQuod nel 1999. Michele Mari accetta di scrivere la bandella. Altri riscontri: Aldo Busi mi consiglia di buttarlo via, perché “non è più possibile in letteratura, oggi, fare sogni cattolici”. Vincenzo Consolo ne è entusiasma e mi incoraggia a continuare. Gesualdo Bufalino è più critico ma riconosce del buono. Intanto nel ’97 il Premio Sandro Penna, insieme a Edoardo Sanguineti (ricordo una cena a Città della Pieve con Sanguineti e il suo autista genovese). Comincio a scrivere in friulano. Il Friuli c’entra sempre. Mi sembra di respirare. L’italiano cos’è al confronto? Nel 2001 per Marsilio Rimis te sachete, Poesie in tasca – omaggio al mio adorato Rimbaud. Mando il libro, per caso, a Enzo Siciliano. Enzo, per caso, lo legge e scrive un pezzo. Nasce un’amicizia fraterna. Sono gli anni di Nuovi argomenti: anni per me indimenticabili in cui vedo concretizzarsi la respublica litteratorum di cui tanto avevo letto in Cicerone (Lorenzo Pavolini lo sa, quante volte ne abbiamo parlato). Anni che mi mancano dannatamente, sono circondato più da morti che da vivi (Enzo, Maria Corti, Giovanni Raboni, Cesare Garboli, Amedeo Giacomini, tutte persone per me fondamentali, innanzitutto umanamente). Simone Cattaneo, grande poeta e mio fraterno amico, muore: un mattino si getta dal balcone. Per lui scrivo Aspetta primavera, Lucky – dando corpo a una mia idea di armonia tra piccola e grande editoria, la trovate anche qui, espressa forse con più cognizione di causa. Ma il mio approdo è il Friuli: la terra di mio padre, di mio nonno, dei Sant – sotto il fascismo aggiunsero una “i” al cognome di origine ungherese: probabilmente discendiamo da zingari o mercenari. Poche balle, il “Contromano” Laterza (Il tai e l’arte di girovagare in motocicletta) mi apre finalmente gli occhi. Aprire gli occhi a quarant’anni. È tardi? È presto? Non lo so, però finalmente so cosa devo fare. Lo diceva Balzac: “Beato chi ha una provincia da raccontare.” Io ce l’ho, l’ho sempre avuta, certo spesso me ne sono dimenticato (come ho potuto? eppure…), ma adesso ho capito finalmente cosa devo fare. Descrivi il tuo villaggio e sarai universale, vero Tolstoj?
Dunque adesso funziona così: la mattina scrivo, il pomeriggio traduco (con alterne vicende, tra un thriller e l’altro ti capita però di tradurre Tenera è la notte, Bartleby lo scrivano, La lettera scarlatta, The Runaway soul di Brodkey, qualche Balzac, il gotico Maturin, uno 007), verso le sei-sette mi dedico all’orto. E soprattutto – scusate la banalità, l’incoscienza o l’improntitudine – sono felice. Eh, già maledetto Marco Tullio Cicerone (alla fine leggere l’opera quasi omnia dell’Arpinate a qualcosa è servito…): “Felice chi ha una biblioteca e un giardino”.
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13 novembre 2014 alle 09:11
“ 21 novembre 1986 – I nuovi Nuovi Argomenti. Forse il segreto di questa catastrofe soffice, di questa neo-Arcadia, di questo regresso senza avventure ha il nome di Pasolini. « È morto per tutti noi », potrebbero scrivere come epigrafe. Per tutti loro. Per loro tutti. “. [*]
[*] La s-formazione dello scrittore / 86
13 novembre 2014 alle 10:43
buiondì flavio santi,
quando scrive “Nel complesso l’impressione non è molto positiva: tanta erudizione, sì certo, ma la vita dov’è? ” nel testo sopra,si riferisce all impressione che ebbe alla Normale,capisco bene?
saluti
13 novembre 2014 alle 21:04
Per me Flavio Santi è un ottimo poeta e romanziere. Così come ottimo poeta è stato Simone Cattaneo.