di Roberto Deidier
[Questo è il ventitreesimo articolo della serie La formazione dello scrittore, parallela alla serie La formazione della scrittrice. Le due serie escono, ormai un po’ come viene viene, il lunedì e il giovedì. Ringrazio Roberto per la disponibilità. gm]
Si forma, uno scrittore? E come? Ci sono modi che possiamo riconoscere o condividere? Certo non ci sono modi standard. Forse ce ne sono stati in passato, quando la poetica non era un’opzione ma una norma; lo scrittore moderno, al contrario, ha saputo conquistarsi una dose di libertà, sufficiente per affrancarsi da imposizioni e diktat d’ogni genere. Cosa abbia saputo fare di questa libertà, com’è ovvio, diventa un altro discorso. Resta che a ciascuno sono spettati i modelli e le letture, in cui si è imbattuto quasi sempre per caso.
Per me, come per tanti altri, la scuola è stata un’occasione importante. Non solo quella del liceo, che mi ha messo in contatto con i classici, ma quella primaria, con le filastrocche e le poesie del sussidiario. E con un maestro che ci metteva sotto gli occhi gli antenati di Calvino e i personaggi impronunciabili delle Cosmicomiche: vero carburante per l’immaginazione di ogni bambino. Gli infiniti di Leopardi erano già dietro la porta. Ma ricordo, tra i soliti poeti delle elementari (Pascoli e Ungaretti furoreggiavano nei libri di testo), Prévert, con una curiosa poesia, la prima lunga poesia che mi fu chiesto di mandare a mente. Non ne so più un verso: s’intitolava Per fare il ritratto di un uccello e suggeriva, per la riuscita dell’impresa, di cominciare dal disegno di una gabbia, per poi rappresentare l’uccello con le piume colorate; infine si doveva cancellare la gabbia. Strana e bella allegoria della scrittura che tenta di imprigionare il mondo, e poi ne apre tanti altri più ampi, ma allora non potevo saperlo e pure se lo avessi saputo non lo avrei compreso. Così cominciavo a scrivere senza capire quello che stavo facendo: la gabbia era diventata la mia stanza, ascoltavo i muri, la loro vita interna fatta di tubi e suoni misteriosi e appuntavo queste sensazioni in un quaderno che finì perso da un trasloco all’altro.
Quello che davvero non capivo era che mi stavo innamorando: per rendermene conto avrei dovuto aspettare gli anni del liceo, e ancora Leopardi. La mia non è stata un’adolescenza bruciante o eversiva: leggevo quello che mi capitava a tiro, e soprattutto macinavo vinili, dalla musica barocca ai Pink Floyd, dall’opera lirica a Cat Stevens. Un bel miscuglio, non c’è che dire, ma salutare: la musica è stata fondamentale per entrare nelle dinamiche del ritmo e della lingua della poesia. Ascoltavo traducendo, e traducevo diteggiando. Anche con i libri è andata in questo modo: passavo dai narratori italiani (ancora Calvino, che sarebbe divenuto l’oggetto della mia tesi di laurea, e Pratolini, Bassani, Cassola, Primo Levi) agli stranieri (l’Ottocento francese, qualche incursione russa) con disinvoltura: l’importante era avere qualcosa da leggere, soprattutto per il piacere di arrivare alla fine e ricominciare con un’altra storia. Non cercavo i libri o gli autori, come facevano alcuni miei coetanei, sempre bisognosi di un blasone: non inseguivo correnti né i titoli più chiacchierati. La poesia era ancora quella della scuola (si erano aggiunti i romantici inglesi e Baudelaire, intanto). Le grandi scoperte sarebbero venute con le informazioni che mi erano mancate e che avrei finalmente trovato nei manuali del corso di Lettere: Saba e Penna, Montale, giù giù fino a Pasolini, Amelia Rosselli, Giudici, Fortini. Proprio ad Amelia inviai le mie poesie, quando mi accorsi di averne un discreto mucchietto e la mia storia in versi, fino a Solstizio appena apparso da Mondadori, è cominciata da lì.
Quanto c’è di veramente casuale in un incontro, o meglio in quell’incontro al quadrato che possiamo avere con uno scrittore, attraverso l’opera e attraverso la persona? Tra i poeti che stavo conoscendo Amelia era la più lontana, ermetica e sfuggente: forse proprio per questa ragione mi ero adoperato per incontrarla. Non fu facile rintracciare il suo numero, trovare il coraggio di comporlo e poi salire le scale di via del Corallo, dove abitava dietro piazza Navona; ma il suo giudizio, i suoi consigli furono decisivi per proseguire, e furono un viatico per il successivo incontro con Elio Pecora, voluto da lei. Qui potevo trovare quell’ampiezza che neppure gli studi universitari avevano saputo aprirmi. La poesia del Novecento era a portata di mano, quella italiana più sconosciuta e recente, ma anche le officine più distanti: ancora gli inglesi, la generazione di Auden, i nordamericani (Berryman, Penn Warren, Wallace Stevens, William Carlos Williams), la grande poesia dell’est (Anna Achmatova, Milosz e Brodskij). E i classici dell’antichità, riletti senza lo spauracchio di un esame di grammatica.
Non potrei ridurre tutti quegli anni di avidità curiosa a un semplice elenco di nomi. La mia formazione non è quella di una squadra che posso esibire e mandare in campo con uno schema tattico. Per qualcuno può anche essere accaduto, e lascio ad altri ogni considerazione su cosa significhi oggi avere una tattica – che è cosa ben diversa dall’avere un progetto -, ma i miei personaggi sono stati mutevoli e hanno giocato ruoli diversi; qualcuno a volte è tornato in panchina, nel senso che oggi non riuscirei a dargli la stessa importanza di allora; altri sono stati carsici, come il Keats dell’ultimo anno di liceo, scomparso e riaffiorato solo adesso, attraverso un faticoso lavoro di traduzione. Se però penso a un libro su cui torno senza mai restare deluso, come a una stella fissa, è Memorie di Adriano. Gli altri sono più corrosi dai mutamenti, come dalle altalene degli umori: si cerca inconsapevolmente ciò di cui abbiamo più bisogno in determinati momenti, lo si adopera, nel senso migliore, poi lo si lascia andare. Così è talvolta delle amicizie, così è dei possibili maestri, in letteratura come altrove. Lasciare andare non significa necessariamente perdere un riferimento, ma ammettere di avere fatto insieme un tratto importante della strada: ogni genealogia diviene una compagnia, e ogni compagnia ha una sua storia in quella storia in divenire che è la vita di tutti. Allora ci accorgiamo che la libertà conquistata nella costruzione della nostra identità rende relativo ogni rapporto di filiazione o di apprendistato e ci porta sempre verso nuovi incontri e nuovi modelli, fin quando la molla della nostra curiosità resta tesa. L’età della bottega, per un artista, non finisce mai.
Tag: Amelia Rosselli, Anna Achmatova, Carlo Cassola, Cat Stevens, Charles Bernstein, Czesław Miłosz, Elio Pecora, Eugenio Montale, Franco Fortini, Giacomo Leopardi, Giorgio Bassani, Giovanni Giudici, Giovanni Pascoli, Giuseppe Ungaretti, Italo Calvino, jacques Prévert, John Berryman, Josif Brodskij, Marguerite Yourcenar, Penn Warren, Pier Paolo Pasolini, Pink Floyd, Primo Levi, Roberto Deidier, Sandro Penna, Umberto Saba, Vasco Pratolini, Wallace Stevens, William Carlos Williams
6 novembre 2014 alle 08:41
bellissimo testo. Veramente complimenti, trasmette una musicalità perfetta!
6 novembre 2014 alle 09:17
“ Domenica 7 marzo 2004 – Alla radio, in autostrada, ho sentito Elio Pecora che diceva che ha ri-scritto alcune novelle de Lo cunto de li cunti. Per fare letteratura ci vuole anche un’operosa modestia. È esattamente quello che non sono riuscito ad avere io: né la modestia, nè l’operosità. “. [*]
[*] La s-formazione dello scrittore / 75
6 novembre 2014 alle 12:33
ho un ricordo incredibile di Amelia Rosselli. Una manifestazione contro la guerra del Golfo, in Aula Magna, a Milano, e lei che leggeva “La libellula”… successe qualcosa che non saprei descrivere… era molto “oltre” qualsiasi cosa avessi mai sentito: quel “rullo”, quel “beccheggiare”… grazie a Deidier, che m’ha fatto tornare alla mente l’immagine di Amelia, e mi permette anche di elevare il mio silenzioso elogio alla sua figura, al suo lavoro… Roberto D. l’ho “conosciuto” in una bella, intensa e controversa (Almeno secondo il mio giudizio) antologia di Manacorda… i miei complimenti al suo lavoro poetico! (quanto mi è piaciuta la poesia che inizia con “I passanti sul lungomare sono fermi”!)
6 novembre 2014 alle 12:57
“Allora ci accorgiamo che la libertà conquistata nella costruzione della nostra identità rende relativo ogni rapporto di filiazione o di apprendistato e ci porta sempre verso nuovi incontri e nuovi modelli, fin quando la molla della nostra curiosità resta tesa.”
Verissimo. Ognuno va per la sua strada e costruisce lentamente e a modo suo il proprio percorso, con e oltre i propri maestri. E ogni buon maestro questo lo sa. Il suo compito è proprio questo.
6 novembre 2014 alle 14:12
tra tutte quelle lette finora pubblicate in vibrisse è quella che ho seguito nel suo fluire più volentieri, molte le ho percepite artefatte e costruite. Non questa. “… fin quando la molla della nostra curiosità resta tesa. L’età della bottega, per un artista, non finisce mai. Qui sta forse la differenza tra arte e tecnica, si può possedere l’una o l’altra e qualcosa manca, o si possono possedere entrambe, oltre alla sensibilità che fa la differenza. In questa testimonianza si avverte questa differenza.
6 novembre 2014 alle 15:27
molto molto bello.
6 novembre 2014 alle 22:03
Grazie Roberto, è un testo bellissimo, che mi ha catturata fin dall’inizio e mi ha definitivamente conquistata con la definizione di “stella fissa” per Memorie di Adriano. Non avrei saputo definirlo meglio: è il mio libro preferito in assoluto. Sei entrato nelle mie corde, leggerò volentieri i tuoi scritti.
12 novembre 2014 alle 19:14
grazie, grazie a tutti per i commenti e per avere condiviso questa piccola memoria. se c’è un fluire, è soprattutto quello dei ricordi e la memoria se ne va dove vuole, spesso ci restituisce quello che non ci aspettiamo. è stata una sorpresa anche per me.