La formazione della fumettista, 1 / Cristina Mormile

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di Cristina Mormile

[Questa è la prima puntata della rubrica dedicata alla formazione di fumettiste e fumettisti, che uscirà in vibrisse il martedì. La rubrica è a cura di Matteo Bussola. Ringraziamo Cristina per la disponibilità].

cristina_mormile“Sua figlia, oggi, ha disegnato una patata! Guardi!”, la maestra d’asilo costrinse mia madre in un angolo.
Lei prese il foglio tesole con timidezza, tra il perplesso e il divertito.
Mi ricordo ancora la scena. Guardavo tutto dal basso.
Mia madre era bellissima, come sempre.
La maestra meno, ma questa è tutta un’altra storia.
“Sì, beh… è una patata!”, ribatté mia madre, i cui interessi primari non erano certo pedagogia o sviluppo del disegno di una bimba dai 3 ai 6 anni.
“Sì, ma guardi. Il contorno netto, i dettagli. Sua figlia osserva, E sa metterlo sul foglio. Mi creda. E’ vent’anni che lavoro negli asili. Sua figlia ha talento!”, la maestra era convinta, e io ero trasportata dal suo entusiasmo, zampettavo tra le gambe dell’una e dell’altra, tirando sulla gonna di mia madre.
Già m’immaginavo disegnare altra verdura, frutta, e chissà quali nuove meraviglie.
Mia madre arrossì e mi guardò: “Ma non abbiamo nessuno, in famiglia, che disegni bene… non è possibile che se ne esca dal nulla con un talento, no?”.

Sapevo che pareva strano, avere un talento o un obiettivo, là dove sono nata.
Lodi è un cittadina dove tutti conoscono tutti.
Si trova nel bel mezzo della Pianura Padana e quando ci vivi ti pare un po’ di stare in una culla, protetta da tutto e forse per questo ancora più lontana dal mondo.
C’era un codice sottinteso per cui i figli avrebbero ripreso le attività di famiglia, portando in alto il nome dei padri e creando una sorta d’immobilità generazionale.
Mi rendevo conto che mia madre e mio padre si preoccupavano per me, ma in mezzo a tante persone che si alzavano la mattina, lasciavano le loro case per fare un lavoro che non amavano e rientravano col solo desiderio di dormire e dimenticare la giornata, sapere che la mia mano era un dono imprevisto, mi riempiva di gratitudine.

Gli anni passarano.
E il disegno, in casa mia, non aveva alcuna importanza.
Mia sorella era un’allieva modello, e io non volevo essere da meno.
Ottenni ottimi voti in tutte le materie (tranne che in geografia, perché la maestra decise che “il parlamento” fosse argomento migliore che “flora e fauna”).
Così alla fine delle medie, ogni professore invitò i miei genitori a lasciarmi carta bianca.
“Le riesce bene tutto”, dissero ai miei, “la lasci scegliere, e non se ne pentirà!”
Mia madre si girò, rossa d’imbarazzo (mia madre è squisitamente timida), sorrise e butto lì un “Cristina, allora, cosa vuoi fare?”
“Liceo artistico!”, risposi felice d’essere presa in considerazione.
Un silenzio glaciale scese nell’aula riunioni della scuola media “Spezzaferri” (lo so, niente battutacce, il nome è quel che è), ed intuii con grande astuzia – l’avrebbe capito anche un criceto – che i miei avrebbero accettato tutto, tranne quello.
Il silenzio ci seguì fino all’auto, un po’ come alla fine d’un funerale.
Si ha rispetto fino alla portiera, poi più nessun pudore.
“No, ma voglio dire… l’artistico? La scuola per i figli di papà? Ma dove credi che ti porti? Non offre mestieri veri. Poi fai la fame!”, sbottò papà per primo.
“Cristina… sei sicura? Pensaci…”, disse mia madre, guance rosso fuoco e sopracciglia tutte inarcate, manco avessi appena annunciato che avevo visto la statua del liceo a fianco prendere vita e camminare.

Il liceo artistico lo frequentai comunque e portai a casa ottimi voti, ma ormai avevo scavato una sorta di trincea invisibile tra il mio sogno e la stima che mio padre poteva concedermi.
Mia sorella, più grande di me di sei anni, aveva preso “la buona strada”.
Prima geometra, poi università di giurisprudenza.
Quando mi dissero che di fumetto si poteva vivere, avevo diciott’anni e avevo appena terminato il liceo senza infamia e senza lode, lanciando persino un registro contro il mio professore d’architettura (che ancora se ne ricorda con un sorriso).

Scelsi dunque la Scuola del fumetto di Milano.
E cominciai piena d’entusiasmo. Leggevo pochi fumetti: solo Topolino e qualche manga.
Il tempo restante era sempre stato dedicato ai compiti di scuola e ad aiutare il più possibile al negozio di fiori dei miei nonni.
Inutile dire che gli svaghi non erano molti, tra l’acqua dei vasi da svuotare e consegne di piante da fare, e dunque di fumetti “da grandi” non ne sapevo nulla.
A vent’anni cominciai l’ultimo anno della scuola del fumetto con l’ansia di aver fatto la mossa sbagliata, la scelta certamente più affascinante ma anche dolorosa.
Il mio disegno mi disgustava. Non riuscivo a gestire le linee, che si ingarbugliavano come fossero gomitoli.
Avevo mille immagini in testa e la mano non mi obbediva.
Credevo sarebbe stato facile, l’avevo sempre fatto, la maestra – maledizione! – aveva detto che disegnavo bene, lo ricordavo.
Eppure nulla andava.
I professori mi spiegavano le prospettive, mi incoraggiavano, mi spiegavano la gabbia bonelliana, ma io mi ci sentivo costretta. Non riuscivo.
Avevo l’impressione di andare in bici senza freni, e di aver già cominciato la discesa.
Confesso che non aspettavo altro che l’impatto imminente con una notevole rassegnazione.
Mi sentivo Icaro con le ali già sciolte.
E no, il precipitare non m’era dolce.

Poi, un giorno, entrando in classe vidi un gran fermento.
I miei compagni s’accalcavano come belve attorno alla cattedra, e visto che coprivano tutta la visuale, non riuscivo a vedere nulla.
Gomitate a destra e a manca, e arrivai al centro del gruppetto.
Seduti dietro la cattedra, un uomo, distinto, vestito benissimo, giacca e cravatta, ed una donna, elegante, guance paffute, che ascoltava lui parlare in una lingua che non conoscevo, tacere un secondo e poi parlare in un perfetto italiano gesticolando con le mani, per spiegare a tutti.
Avevo davanti il mio primo editor francese, con tanto di traduttrice.
“Un editor! Ragazzi un editor… cioè… non ci credo! Spostati dai, ho un sacco di cose da fargli vedere!”
“Ma non rompere! Aspetta. Prima io!”
I miei compagni erano in fibrillazione.
L’insegnante li calmava con un “cercate di fare buona impressione”, sibilato tra i denti.
L’editor era venuto per cercare nuovi talenti, spiegò la traduttrice.
Cercai di non farmi spingere fin contro la cattedra.
Realizzai all’ultimo secondo che avevo la congiuntivite, gli occhiali da sole e un abbigliamento indegno di un qualsiasi appuntamento lavorativo.
Ma non riuscivo a staccare gli occhi dal naso dell’editor, giuro.
Era strano, ipnotico, il più buffo che avessi mai visto.
Non grande, no. Ma a punta.
“Et toi?”, mi chiese a sorpresa l’editor.
Rimasi immobile, col mio zaino in spalla e la mia cartellina di disegni alla mano.
“E tu?”, mi tradusse paziente la traduttrice.
Non riuscii a proferire parola, tesi solo la cartellina e lo guardai sfogliare tutto con una calma esasperante.
Un mese dopo la casa editrice Delcourt mi aveva già ricontattata. L’editor era rimasto colpito.
Io, manco a dirlo, ero in estasi, completamente soggiogata dall’idea di essere stata scelta, di dire a mio padre – che non voleva facessi la fumettista – “Ehi, guarda! Non solo si può fare, ma m’hanno assunta prima di finire la scuola!”. E infatti glie lo dissi, pancia in dentro e petto in fuori. Lui abbassò la settimana enigmistica, alzò un sopracciglio, si complimentò e mi lesse una definizione dello schema di Bartezzaghi, giusto così, per crocifiggere la mia notizia con quattro chiodi.
Non ci badai.
Volai alto sulla mia nuvoletta per un po’. Uno sceneggiatore italiano cominciò a scrivere una storia, e io cominciai a disegnarla.
Un solo neo nel mezzo di tanta perfezione: dalla casa editrice non giungeva più nessuna notizia.
Il contratto promesso non arrivava.
Preoccupati, io e lo sceneggiatore scrivemmo chiedendo spiegazioni.
La mail di risposta arrivò lapidaria, non ricordo nemmeno quando.
“Siamo spiacenti d’informarvi che l’art director è cambiato. Il nuovo direttore di collezione odia gli italiani, quindi il progetto non continuerà.”

Caddi dalla nuvoletta e l’impatto fece più male di quel che pensassi.
Finii l’anno di scuola più per orgoglio che per desiderio.
Diedi l’esame con una sorta di palla di rabbia conficcata tra il cuore e lo sterno.
Poi gli avvenimenti si concatenarono, e mi trovai a lavorare per la mia professoressa di sceneggiatura e suo marito – altro disegnatore – per una trasposizione di uno spettacolo teatrale, Cyrano de Bergerac, in collaborazione tra la Scuola del Fumetto ed il Teatro Libero di Milano.
Mia madre ironizzò, facendomi notare che in qualche modo sembravo attirare la Francia.
Io ero talmente presa dal rancore che terminai il progetto in pochi mesi, poi trovai lavoro presso un altro studio nell’hinterland milanese.
Per loro realizzai – manco a farlo apposta – 480 pagine per la Francia. Un lavoro sempre basato sulla trasposizione di spettacoli teatrali, stavolta di Molière.
Ovviamente il mio nome non fu mai scritto da nessuna parte, ma a me quei soldi servivano.
Figurarsi se tornavo a casa da mio padre, ad ammettere che non lavoravo perché avevo troppo orgoglio mal riposto.
Lavoravo per loro anche la notte, spesso mi addormentavo alla scrivania, ma in compenso imparavo molto.
Consegnavo tutto per le date richieste, e in fondo mi bastava.

Poi un giorno, un gran fermento.
Un altro.
In studio tutti parlavano di Angoulème.
Non capivo la ragione di tanto fervore, fino a che, impietositi da tutta la mia ignoranza, i miei datori di lavoro decisero d’illuminarmi.
Angoulème era una fiera del fumetto.
Immensa.
Una delle più grandi d’Europa.
Mi parlarono di una cittadina piena di stand, stracolma di fumetti.
E non fumetti piccoli con la copertina morbida e la carta economica, ma fumetti grandi, con copertina cartonata.
Ricordo mi misero tra le mani il Peter Pan di Loisel, e io rimasi inebetita.
Dovevo fare qualcosa.
Non sapevo cosa, ma dovevo.
I miei datori risero, mi dissero che non ero pronta, che i francesi mi avrebbero mangiato a colazione.
Non volli ascoltarli.
Feci tre tavole di prova, a modo mio, storia/disegno/colori miei.
Ed inviai un breve riassunto e le tavole a tutti gli indirizzi mail di tutte le case editrici che trovai.
Ricordo che era settembre.

Una quindicina di case editrici mi risposero con cortesi: “Spiacenti. Il suo lavoro non rientra nella nostra linea editoriale. Distinti saluti.”
Glénat e Soleil risposero due mesi dopo. Volevano incontrarmi.

Cominciò così. Lessi diverse sceneggiature – in francese, pronunciando tra i denti tutti i santi del calendario per non aver mai studiato quella benedetta lingua -, poi ne scelsi una.
Mi diedero appuntamento alla fiera di Angoulème, per un incontro diretto.
Partii con un gruppo di disegnatori milanesi – con cui ogni tanto uscivo a cena – alla volta della celebre fiera. Colonna d’auto d’autori già affermati ma alla caccia di nuovi contratti e di giovani speranzosi.
Io ero la più piccola del gruppo, e mi sentivo come la mascotte pelosa, un po’ come il super peluche patetico che annaspa di fianco alle pon-pon girls alle partite di rugby.
Quattordici ore – 14, giuro – di viaggio in auto, una sosta in un hotel zero stelle con pareti in cartone, e arrivo all’agriturismo riservato per l’occasione la mattina dopo.
Entriamo e scopriamo che i posti letto sono pochi e presi da chi – bontà sua – il francese lo parlava già.
Il gruppo di iellati cronici – di cui ovviamente facevo parte – fu rilegato in una specie di palestra, in cui il riscaldamento era lontano ricordo.
Scoprii l’utilità del sacco a pelo, maledii l’aver voluto lasciare il materassino a casa e mi svegliai almeno una volta ogni due ore causa un ticchettio regolare e fastidioso.
Un battere dei denti.
Il mio.

La mattina dopo i disegnatori più esperti guardarono il mio book. Dissero un “niente male” e mi diedero pacchette sulle spalle.
Poi partimmo con le macchine, alla volta di Angoulème.
Agli stand della Glénat e della Soleil ci andai camminando a braccetto con la paura della mia vita.
L’espressione “cuore in gola”, mi pareva reale. La carotide pulsava ritmicamente, quasi fosse un metromono.
Sapevo dire “Bonjour” e “Comment ça va?”. Stop. Punto. La catastrofe imminente.
Diedi il book di tavole a tutti i miei interlocutori, senza parlare. Scuotevo la testa in timidi sì, risoluti no, e strambi forse.
Dizionario tascabile alla mano, mi feci capire.
Tutti sorridevano.
Tornai a casa con l’accordo di principio per due contratti.
All’agriturismo, poche parole.
Molti sguardi.
Viaggio di ritorno quasi fossimo in un film muto.
E per gli anni seguenti, nessun invito ad alcuna cena.

Festeggiai i 22 anni con l’arrivo dei due contratti a casa.
Ricordo solo che piansi, e tanto. Ma ridendo e saltando in modo scomposto e sgraziato tra la sala, le scale e le camere ai piani di sopra, abbracciando e baciando i miei.

Poi cominciarono le prime mail.
Non avevo capito, e forse non avevo voluto, che nonostante i contratti, il lavoro da fare era immenso.
Il mio sceneggiatore mi insegnò tutto quello che non sapevo sulla mise en scène – impaginazione, narrazione – e mi aiutò a capire meglio la lingua francese.
Mi disse che essere donna non sarebbe stato facile.
Mi mostrò il lavoro di mille altri disegnatori, mille volte piu bravi, e capii che ero giusto nel centro dell’arena.
A Bruxelles, solo nel quartiere di Saint Gilles – il celebre quartiere degli artisti – si vociferava ci fossero mille disegnatori e scrittori.
Mi fecero notare che in genere le donne disegnavano manga simpatici, donnine, cose graficamente “belle”. O allora facevano le coloriste per i loro mariti o compagni.
Io dovevo fare un thriller, e renderlo credibile.
Ora, col senno di poi, so che quel giorno peccai di superbia, nel credere che sarebbe stata una passeggiata.
Fu una scarpinata notevole, fatta con le cattive scarpe.
All’ordine del giorno, commenti come “Ma cosa diamine hai studiato in Italia? Illeggibile. I cavalli sembrano vacche. Guarda, la pagina non funziona, ma non so perché. Prova a rifarla.”
E io cancellavo, rifacevo, rimuginavo.
“E non andare troppo di fretta, come fanno tutti gli italiani. Pensate sempre ai soldi e mai alla qualità!”, mi sentii dire.
Trovai la critica dura e ingiusta, ma ingoiai il rospo e indagai a modo mio.
Scoprii che effettivamente, spesso e volentieri, la Francia era considerata come una sorta di “gallina dalle uova d’oro”, e che lo stile medio italiano era troppo povero di dettagli per soddisfare gli editor, a tal punto da essere considerato fatto in fretta.
Io me ne disinteressavo. Volevo provare a dimostrare che ce l’avrei fatta in campo avversario.
Ma gli orari di lavoro erano pesanti e mia madre si preoccupava, diceva che “mi vedeva sciupata”.
Mio padre, forte della sua contrarietà iniziale, mi disse che a suo avviso avrei fatto meglio a fare la cameriera.

Io comprai un biglietto di sola andata per il Belgio.
Avevo 23 anni.

Perché lo feci?
Forse perché ero stufa di sentirmi dire che fare fumetti non era un lavoro, forse perché avevo bisogno di vivere là dove questo mestiere era definita “la nona arte”, forse perché il mio sogno, in fondo, non ero pronta ad abbandonarlo.
Tanti dicono ci sia un tempo per tutto, ma per le cose audaci, o irragionevoli per la maggioranza, il momento non è mai quello presente. E allora aspettiamo, fino a che tutti approveranno le nostre scelte. Poi le si vedrà certamente approvate quando le nostre gambe non avranno più forza per portarci da nessuna parte e ci abitueremo alla vita che avremo costruito fin lì. Perchè sarà la sola che avremo ritenuto giusto costruire.
I sogni sono mal visti.
Discostano dalla realtà delle cose.

Il mio sceneggiatore, vedendomi sempre pensierosa e triste, mi convinse a fare una dedica.
Io non sapevo nemmeno cosa fosse.
“Semplice”, disse lui col sorriso, “vai in fumetteria, disegni qualcosa sul tuo fumetto e poi firmi, e conosci i tuoi lettori. Prova!”.
Mi lasciai convincere.
Lo sceneggiatore e sua moglie mi ospitarono gentilmente a casa loro, e io non dormii una sola ora.
Camminai in tondo.
Pensai.
Morsi tutte le pellicine da mordere e arrivai al mattino con la faccia sfatta.
Andai fino alla libreria alternando estasi e timori.
Entrai e guardai ovunque. A destra, a sinistra, negli angoli.
Nulla.
Il vuoto.
Mi indicarono un tavolo ed io mi ci sedetti, ubbiediente e speranzosa.
Mi pareva davvero di essere un cane che aspettava il suo padrone dietro l’uscio di casa.
Ma la porta non si apriva, e aspettai sei ore nel vuoto imbarazzato della libreria.
Il libraio fu cortese e mi offrì anche la cena.
Io avevo lacrime che non volevano uscire e tornai a casa con la coda tra le gambe.

Poi mi proposero un’altra dedica.
Volevo rifiutare.
Poi accettai.
Arrivai alla seconda libreria, posai la borsa, l’astuccio, disposi attentamente matita e gomma sul tavolo.
Poi vidi una testolina sbucar fuori, da dietro la mia scrivania.
“Mormile?”, chiese timidamente l’uomo, che ora si stava alzando perplesso.
“Beh, sì… sono io!”
“Ma… è una donna!”, ribattè lui, rigirandosi il mio primo tomo tra le mani, fissando la copertina, aprendolo e leggendo forse per la prima volta il mio nome per intero.
“Che io sappia, sì, signore, sono una donna!”
Molte persone dietro di lui – che erano sedute e non avevo visto – si alzarono.
Parlai francese. Male, ma lo parlai.
Tutto quello che sapevo, lo dissi. Feci qualche battuta e vidi persone sorridere, uscire dalla libreria, tornare con piccoli pensieri, cioccolatini, lattine di birra.
Mi divertii.
E il pubblico con me.
Di dediche, ne feci molte altre.
Ho scoperto un pubblico affettuoso, amici grandi, e librai magnifici.

Quest’anno ho compiuto 31 anni.
Contando sulle dita delle mani, non posso sbagliare.
Sono nove anni che lavoro per la Francia.
E lo rifarei.
In ogni passo, ogni strafalcione, ogni critica, ogni notte insonne.

Perché ?
Perché mio padre, mesi fa, mi ha scritto un messaggio, che diceva: “Scusa, ora so che non avresti mai potuto fare la cameriera.”
Perché vivere del proprio sogno è possibile, ed io lo faccio ogni giorno.

* * *

Cristina Mormile. Nata a Lodi, il 9 maggio 1983. Studia al liceo artistico di Lodi e alla scuola del fumetto di Milano. Ha brevi collaborazioni con editori italiani, e comincia a lavorare per la Francia a ventun anni.
Ha pochi interessi al di là del disegno e un problema costante nel riassumersi in una biografia, perché le riesce male. E lo sa. Tra i titoli già pubblicati per la casa editrice Soleil (Francia), ritroviamo: Eden Killer (2 tomi), Le Journal d’Ambre (one-shot), 3 pagine omaggio dedicate alla raccolta di Gainsbourg, Western Valley (2 tomi), Samurai Légendes (3 tomi ed attualmente in corso). Si aggiungono qua e là collaborazioni con studi italiani, pubblicitari, e con Disney.

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19 Risposte to “La formazione della fumettista, 1 / Cristina Mormile”

  1. manu Says:

    un bel mondo davvero!
    complimenti cristina, soprattutto per non aver accettato di snaturarti.
    @matteo bussola: non si potrebbe aggiungere l’immagine di almeno una tavola per autore?
    saluti

  2. Giulio Mozzi Says:

    manu: se segui il link sotto al nome di Cristina, o se fai una ricerca con un motore, trovi subito diverse cose.

  3. acabarra59 Says:

    ” 2 marzo 1985 – « Ma lei è professore all’istituto d’arte? », mi chiede la ragazza delle fotocopie. Chi, io? “. [*]
    [*] La s-formazione dello scrittore / 60

  4. RobySan Says:

    ..Sua figlia ha talento!

    Se ti dicono che hai talento vogliono anche dire che non hai genio? La maestra era, per caso, una discepola di Deleuze?

    …intuii con grande astuzia – l’avrebbe capito anche un criceto – …

    Ciò è poco gentile nei confronti dei criceti.

    …scavato una sorta di trincea invisibile tra il mio sogno e la stima che mio padre poteva concedermi…

    ‘sti padri: ammazzarli da piccoli.

    …aiutare il più possibile al negozio di fiori dei miei nonni.

    Qui c’è dell’Alan Ford!

    …si complimentò e mi lesse una definizione dello schema di Bartezzaghi…

    Il Bartezzaghi è un dannato castigatore.

    Cristina Mormile. Nata a Lodi, il 9 maggio 1983

    Noi, nati di Maggio – sotto il segno del Toro – sì che siamo tosti. Chi vuoi che ci fermi? Ci abbiamo du’ maroni così!

  5. manu Says:

    giulio, si, naturalmente ci avevo guardato

  6. Cristina Mormile Says:

    Grazie a tutti anche solo per avere trovato il tempo di leggere.
    Grazie a Giulio e a Matteo, che mi hanno dato fiducia.

  7. Yvette Agostini Says:

    “… “Ma… è una donna!”, ribattè lui, …”
    Conosco questa sensazione…

  8. La formazione del rivoluzionario | iCalamari Says:

    […] Matteo Bussola, “La formazione della fumettista e del fumettista” che prende il via oggi con un testo di Cristina Mormile. Mi ha fatto venire voglia di prendere su la tastiera e […]

  9. Carlo Scaricabarozzi Says:

    Non riesco ad immaginare un esordio migliore per una rubrica. la scelta di Cristina è stata davvero azzeccata. Oltre ad essere una disegnatrice formidabile, che se fossi un editore italiano farei di tutto per strappare alla concorrenza francese, Cristina è anche una bravissima scrittrice. I suoi post su Fb che seguo da tempo sono sempre sinceri, dimostrano la sua sensibilità non comune verso gli altri e ti aprono la mente. Come questo ricordo bellissimo che ci ha regalato. Quindi complimenti davvero a Cristina e chi ha pensato a lei Matteo e Giulio.

  10. Mrs Fog Says:

    Complimenti Cristina. Ho un paio di anni più di te e mi sono commossa. Hai il coraggio e l’ostinazione che io non ho ancora trovato. Belle anche le tavole che ho sbirciato in rete!

  11. andrea Says:

    Questa rubrica è fantastica e vale oro per chi,come me,inizia ad affacciarsi a queta realtá.

    Bellissima storia mi è piaciuta un sacco,piena di cose reali che accomunano quelli che inseguono i propri sogni.Alla fine mi è scesa la lacrimuccia.

  12. Giulio Mozzi Says:

    Vedere cosa scrive Francesca Perinelli (grazie, Francesca).

  13. Nicola Losito Says:

    Complimenti per un bellissimo racconto che sa tanto di vita vissuta…
    Nicola

  14. frperinelli Says:

    Prego, mi fa piacere contribuire in minima parte a questo esordio.

  15. Guzio Says:

    Senza parole…Hai veramente un cuore esagerato! Mi da coraggio sapere che persone come te, che ci hanno creduto fino in fondo, alla fine ce l’hanno fatta! Mi aiuta a credere che un giorno forse ce la farò anch’io, non appena troverò la mia strada! Grazie! 🙂

  16. Cristina Mormile Says:

    Grazie a te. Grazie a voi tutti che avete letto fino all’ultima riga.

  17. La formazione del fumettista | afnews.info Says:

    […] di fumetti facendo click qui e vi consigliamo di leggerli a partire dal primo, quello di Cristina Mormile che racconta una storia personale di “vocazione fumettistica” e di fatica, coronate dal […]

  18. Cristina Says:

    Leggo i vostri commenti a distanza di mesi,e me ne scuso. So che siamo in tanti ad aver provato, e in molti ad aver rinunciato. Ma penso che chiunque abbia letto, certamente sappia sognare. 🙂
    Grazie davvero a tutti.
    Un ringraziamento particolare agli amici a me cari, che mi seguono sempre e che spero un giorno di incontrare dal vivo.
    Grazie Carlo, e grazie Yvette.
    E un grazie speciale anche a Mrs Fog. 🙂
    Un abbraccio a tutti quelli che passano di qui.

  19. Vito Says:

    Sei bravissima.
    Ti ho conosciuta solo oggi e per un ” vecchio amante dei fumetti ” in tutti i sensi, puoi far cosa ancora più belle di tutto il meraviglioso che hai disegnato fino ad oggi.
    Continua, perché 45 anni fa lasciai il disegno per un posto nello stato. Da dieci giorni sono in pensione ed ho ripreso la matita HB.
    CIAO

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