[Questo è il diciottesimo articolo della serie La formazione dello scrittore, parallela alla serie La formazione della scrittrice (che per qualche settimana sarà sospesa, mentre le “formazioni” degli scrittori uscitanno sia il giovedì sia il lunedì). Ringrazio Fabio per la disponibilità. gm]
Ti auguro di vivere in tempi interessanti.
[Antico proverbio cinese]
Tutto doveva essere iniziato molto prima. Ancorato tra una Stratocaster nera e il Cloanto C1 Text, c’era un confine preciso che si perdeva in una notte d’estate. Alterata, come il jet lag che mi riportava in Italia.
L’America era un sogno cercato, trovato, e poi lasciato brutalmente alle spalle.
Un foglio di carta bianco, su quello stesso quaderno su cui avevo affondato i miei sogni di adolescente, era un mondo che si apriva, che ti dava per la prima volta la possibilità di scegliere tu la storia da raccontare. L’Alfa e l’Omega. Il qui e adesso, ma anche il futuro e il passato di qualunque mondo lontano.
E, allora non lo sapevo, di mondi ne avrei visti tanti.
Se mi avessero detto quella notte, che un giorno avrei scritto di medicina e fisica, e che i mei libri avrebbero varcato i confini nazionali, avrei risposto che era naturale. Perchè?
Cosa hanno mai in comune la scrittura scientifica e la narrativa?
Micheal Crichton, certo, e Frank Schätzing.
Ma non basta.
Un passo alla volta. Prima di tutto questo, prima dei libri, prima del Sud America, prima dell’Africa e dell’Australia. Era successo qualcosa. E come ogni storia anche questa meritava di essere raccontata.
Erano i primi anni ’90. In quella strana stagione, A tutto volume, della Casella imperava in televisione, il salone del libro a Torino muoveva i suoi primi passi, le classifiche di lettura spopolavano, Smilla si domandava quale fosse il senso della neve, e la Newton Compton lanciava la sua serie a mille lire, restituendo ai lettori i capolavori della letteratura internazionale.
Lasciata alle spalle la civilità dell’immagine, per la prima volta, da che ero ragazzo, i libri si respiravano nell’aria. Gli autori uscivano dai loro antri ammuffiti e diventavano protagonisti, al pari di attori e cantati da acclamare.
Eppure c’era anche altro nell’aria: Wakko Warner, e Bill Clinton col suo sax. Il giovane Indiana Jones e MacGyver. Les Misérables, Miss Saigon e Cats. Un mondo così impregato di storie, che era difficile non ascoltarle.
Fu in quegli anni che iniziai a dedicarmi alla scrittura a tempo pieno. Tra le ore passate in biblioteca e quelle sui primi ancestrali PC portatili, i libri occupavano la quasi totalità della mia giornata.
Si leggeva di tutto. Da James Joyce a Stoker, da Stevenson a Dickens, passando per Poe, Ray Bradbury, Henry James, Jane Austin, Arthur Clarke, Shakespeare, King, Maupassant, Twain, Steinbeck e Jerome K. Jerome. Non erano i libri in sé, non le storie per lo meno, ma le ore chiusi in biblioteca a gustare ogni passaggio, ad assaporare gli stili, la scelta delle parole, le traduzioni più riuscite e quelle che avrebbero duvuto rendere giustizia al testo originale.
Leggere era la ricerca di singole frasi, di stili sussurrati tra le pagine di autori classici e di sconosciuti aperti in biblioteca per caso. Volumi che sarebbero ritornati tra quegli scaffali per ridiventare anonimi e spesso impossibili da ritrovare.
I primi romanzi nascevano così. Da idee di stili, da desiderio di un’immagine da raccontare.
Si passavano ore a far ricerca, poi ci si sedeva al computer, in una vecchia soffitta gelida d’inverno e torrida in estate. A volte era frustrante. Scrivere su un 8088 senza hard-disk, con PC Tools come wordprocessor e i floppy da 3 e mezzo che potevano anche rifiutarsi di funzionare.
E lo facevano.
Perdere interi capitoli era la norma di tanto in tanto. Un esercizio utile per mantenere le mani calde e per imparare a riscrivere tutto da capo. L’editing allo stato estremo se vogliamo.
Fu allora, mentre nascevano le prime storie, che non sarebbero mai state pubblicate, che si imparava la disciplina. Ogni cosa a tempo debito. La storia che maturava, parola per parola, frase per frase. I personaggi che crescevano e si sviluppavano. I giorni che diventavano settimane, i mesi che diventavano anni. La perserveranza di sviluppare una storia, scena per scena, con i tempi dovuti. Per poi scrivere la parola fine e gettarsi a capofitto in una nuova idea da immaginare.
A volte era un pensiero notturno. A volte un ragazzo scazo che camminava per strada. Un colore o un suono improvviso. Ognuno con una sua storia celata, che a lume di candela si doveva rievocare.
In quel periodo ancora non avevo iniziato la mia carriera universitaria, per affrontare quegli studi che vent’anni più tardi mi avrebbero portato alla laurea in medicina, alla specializzazione e al master in giornalismo scientifico. Lo studio tuttavia era qualcosa di quotidiano, che non si limitava alla lettura e alla ricerca.
La mia strada inifatti era iniziata molti anni prima, forse prorpio in quell’estate a tredici anni, passata con la mia famiglia in Sud America, o tra i vicoli di Liverpool molti anni più tardi, o tra le strade di Stoccarda. Quella stessa Stoccarda che avrebbe ispirato il racconto, poi, che sarebbe diventato l’embrione di Piccadilly Line, l’ultimo libro di narrativa edito con il mio nome.
Perché era da là che nascevano le storie.
Era guardare i volti delle persone che ti stavano davanti, osservare gli sguardi, le parole che scivolavano via da visi soddisfatti o corrucciati. Storie che si intrecciavano tra di loro e che sarebbero spartite vie, trascinate con sé, una volta che quei volti si sarebbero diradati.
Si girava il mondo. A volte fisicamente, dopo ore di aereo e decine di strade sterrate. A volte nel giro di un istante, con caleidoscopi di culture diverse incarcerate per qualche minuto nei sotterranei di una metropolitana. A Londra come a Buenos Aires. A Parigi come a Melbourn, dove si sa ci sono quattro stagioni in una sola giornata.
In quegli anni migliorai il mio inglese, imparai a parlare spagnolo, a masticare il tedesco e il francese. Iniziai a leggere in lingua originale. Crichton, appunto, e James Clavell o Peter Straub.
Nel mentre non avevo smesso di scrivere. Quasi a preannunciare la mia carriera futura, in quel periodo divenni redattore per un piccolo periodico a distribuzione nazionale. Si lavorava con i fax e si impaginava su WinWord, aspettando le pellicole di stampa con la trepidazione di chi sa che ci sarebbe stato comunque qualche errore immodificabile rimasto. Erano gli albori di internet e della posta elettronica, e per certi versi, secoli di distanza dai PDF e dalla stampa digitale.
Ma era anche il tempo in cui potevi contattare via email chiunque avesse una casella di posta da cui replicare. Fosse egli Bud Spencer o il Ceo di una grande multinazionale.
Fare ricerca per i romanzi diventava improvvisamente più semplice e più complicato. Un mondo iniziava ad aprirsi, che pure rischiava di inabissare il rigore delle ore passate agli archivi cartacei in biblioteca o tra gli scaffali. Le idee però si amplificavano e là dove non si poteva viaggiare fisicamente, lo si poteva fare con la tecnologia.
Fu anche il periodo in cui cominicai a domandarmi che tipo di romanzi avrei voluto scrivere da quel momento in avanti: opere ambientate dove e con che personaggi? Scrivi di ciò che sai, era la regola dei grandi maestri, e io sapevo di mondi lontani, di viaggi, di uomini, donne e soprattutto bambini, che vivevano in altre realtà: fisiche o immaginarie.
C’era il teatro, poi. Quel mondo che cessava di esistere varcate le quinte, e questo era vero in un senso e nell’altro.Storie che si raccontavano, vivendole sul palco, e lasciandole là quando il sipario era tramontato.
Sentirsi, in qualche modo, manovrato. Da se stessi, o dalla storia. Che poi non è che la cosa cambi.
Non sarebbe tardato ad arrivare il momento, però, in cui si doveva diventare grandi. Non in senso fisico, nè metaforico, nè anagrafico. Ma piuttosto la necessità di diventare maturi con la consapevolezza che non bastava più solo la passione.
C’era ancora quel passo da compiere. Piano piano, però, lo stile – o gli stili – si affinavano, gli obiettivi cambiavano, e le parole dallo schermo del mio computer inziavano a viaggiare su altri mondi e su altre pagine. Qualcuno, da qualche parte, del mondo, stava leggendo ciò che io avevo pensato.
Era in un altra lingua, che avevo dovuto imparare a padroneggiare quasi quanto la mia, e non erano propriamente storie. Non come quelle che ci raccontavano da ragazzi, per lo meno.
O forse sì?
Avevo avuto la possibilità, infatti, di consocere e frequentare quegli stessi scenziati di cui in qualche modo avrei scritto più tardi. Di assaporarne la trepidazione, il senso di attesa, di trionfo o di delusione.
Che cosa hanno dunque in comune lettaratura scientifica e narrativa? Niente?
Perché? Ogni scoperta scientifica, meglio, ogni teoria, non racchiude forse una storia? Che non è solo quella della scoperta in sè, o della persona che ci è arrivata.
Ma è quella delle migliaia di persone che da quella scoperta ne verranno in qualche modo sfiorati. Che su quella scoperta vivranno altre storie, dalle quali ne nasceranno molte altre ancora.
E allora saranno altre storie che popoleranno il mondo, non importa se reali o immaginarie.
Perché sono storie, appunto, e come tali meritano di essere raccontate.
Tag: Alessandra Casella, Arthur Clarke, Bill Clinton, Bram Stoker, Bud Spencer, Charles Dickens, Edgar Allan Poe, Fabio Capello, Frank Schätzing, Guy de Maupassant, Henry James, James Clavell, James Joyce, Jane Austin, Jerome K. Jerome, John Steinbeck, Mark Twain, Micheal Crichton, Peter Straub, Ray Bradbury., Robert Louis Stevenson, Shakespeare, Stephen King, Wakko Warner
16 ottobre 2014 alle 06:57
Il periodo:
“Storie che si intrecciavano tra di loro e che sarebbero spartite vie, trascinate con sé, una volta che quei volti si sarebbero diradati.”
non mi convince affatto. E altre cose anche.
16 ottobre 2014 alle 07:39
Fabio è un’esperienza di vita. discuti con lui di scrittura a Torino (ammesso che lui riesca a trovare il Salone senza navigatore) e lo ritrovi in Angola con in braccio due bambini malati, sta cercando di salvarli. Il medico scrittore che si dedica agli ultimi, che non è mai nello stesso posto e ovunque tu lo cerchi puoi immaginare che stia scrivendo ma anche curando chi muore per la fame, la guerra, la miseria.
16 ottobre 2014 alle 09:14
” Mercoledì 12 settembre 2001 – Non si doveva giocare , dice Capello. Perché ha perso, dico io. ” [*]
[*] La s-formazione dello scrittore / 38
16 ottobre 2014 alle 09:48
Fabio: buona volontà, voglia di vivere e di INCONTRARE il prossimo per mettere a disposizione la sua ricca esperienza.
16 ottobre 2014 alle 10:18
Tanti anni fa mio padre aveva un amico che si chiamava Claudio Capello e faceva il giornalista a Torino. Erano gli anni Sessanta ed era scapolo. Poi Claudio Capello — mio padre lo chiamava sempre così, con nome e cognome — sposò una moglie giovane, bella e intelligente, che portò a cena da noi. Doveva essere il 1973. Non so se in seguito ebbero un figlio, ma mi pare di sì. Ecco, mi domando se questo Fabio sia il figlio di quel Claudio Capello che veniva spesso a cena a casa nostra quando io ero bambina e ci mostrava belle fotografie. Era un uomo sensibile. So che morì non molti anni dopo, di qualcosa al cuore.
16 ottobre 2014 alle 10:36
che energia! da dove la prendi? (domanda mi sa sioccarella) refusi da foga di scrittura.
16 ottobre 2014 alle 10:37
… e senza neanche un punto esclamativo (vedi Culicchia).
16 ottobre 2014 alle 11:59
Culicchia?
16 ottobre 2014 alle 12:55
che granchio: Caliceti (mi scuso; arrossisco).
16 ottobre 2014 alle 19:21
Siamo d’accordo che “impersonificarsi” è problematico, ma anche tutto questo impersonale ( “si faceva, si diceva, si pensava”) mi lascia perplessa. Si parla di una generazione, di un filone culturale, di un gruppo, una élite, una setta etc.?
17 ottobre 2014 alle 12:36
Che carriera questo Fabio Capello: dopo aver vinto la Coppa dei Campioni al Milan, insieme a quattro scudetti, lo scudetto a Roma, e allenato l’Inghilterra, ora fa anche il medico-scrittore!
(scusate la banalita’, non ho resistito)
17 ottobre 2014 alle 13:41
“ Giovedì 24 maggio 2012 – « D’improvviso avvenne qualcosa che fece allibire tutti. Il piccolo Johann scoppiò in una risata. Scrivendo aveva trovato un nome dal suono curioso e non poté resistere. Lo ripeté, soffiò attraverso il naso, si piegò in avanti, tremò, singhiozzò e non si seppe tenere. In principio, pareva che piangesse, ma non era così. I grandi lo guardarono, increduli e perplessi. Poi sua madre lo mandò a dormire… » (Thomas Mann, I Buddenbrook, cit.) “. [*]
[*] La s-formazione dello scrittore / 42