[Questo è il sedicesimo articolo della serie La formazione dello scrittore, parallela alla serie La formazione della scrittrice (che per qualche settimana sarà sospesa, mentre le “formazioni” degli scrittori uscitanno sia il giovedì sia il lunedì). Ringrazio Andrea per la disponibilità. gm]
Un romanzo di formazione del giovane scrittore, soprattutto se autobiografico, implica almeno due cose: che lo scrittore si formi in giovine età e che ci siano un paio di momenti epifanici, durante i quali capisce che è stato prescelto per questa poco congrua attività umana. Nel mio caso, la formazione, per diversi deficit personali, è ancora in corso, e a 47 anni suonati mi sveglio alla mattina dicendo che sarebbe bello o sarebbe ora che io diventassi uno scrittore. Per questo, forse, le epifanie scarseggiano e lo sguardo retrospettivo si perde in una moltitudine di indizi, nessuno dei quali convincente a sufficienza. Però tutte le storie che riguardano le origini, sono storie belle, malleabili, elastiche, e non si fa mai fatica a raccontarle. Quindi anch’io, in modo volontaristico, sono in grado di trarre dal guazzabuglio della mia incompiuta formazione qualche episodio di rilievo. Il libro del bruco, ad esempio, che devo aver maneggiato intorno ai tre anni, avrà avuto qualche effetto propagatore? Ricordo che era abitato da un grosso buco. Un libro con dentro il niente, nel mezzo. Era un assaggio del celebre libro sul niente, che desiderava fare Flaubert? (Nell’appartamento dove leggevo il libro bucato del bruco, sopra il letto vi era un manifesto di sgargianti rossi con profili neri di persone che brandivano strane aste. “Il potere politico nasce dalla canna del fucile”, diceva. Frase di un certo Mao Tse Tung. Sarò stato ispirato anche dal Grande Timoniere?) Nel frattempo un mio nonno adottivo, buonissimo con i nipoti veri o acquisiti, ma poco amato dai figli, mi leggeva Salgari, e soprattutto snocciolava avventure di pirati e cow-boy. (Era partito volontario per fare la guerra d’Etiopia, era un fascista convinto. Di materiale ne aveva per insaporire storie dove si spara e si ammazza.) Tutto questo avrà dato il suo frutto? Quando mi sveglio alla mattina, dicendomi che è ora di diventare scrittore, io lo spero. Spero sinceramente che tutta questa semenza abbia prodotto quel disturbo mentale, quel vetro smerigliato tra la mia mente e la realtà, che trova una sua forma di accomodamento e soluzione nel fatto di scrivere. Un ruolo importante deve averlo avuto un libro scritto sessant’anni prima che io nascessi. A nove anni, ero soprattutto circondato da vecchi. (Tutta la mia infanzia è stata popolata da vecchi.) Non era quindi così strano che, per il mio compleanno o chissà quale altra occasione, degli amici di mia nonna materna, e suoi coetanei, mi regalassero il libro di Luigi Bertelli Il giornalino di Gian Burrasca. Non so se ciò rientri nei casi epifanici, ma ancora adesso io vivo un po’ di quella spinta, di quella spinta a fare l’idiota, a scrivere come un idiota, un idiota però calcolatore, che si serve di una sua schietta idiozia per fini, non dico intelligenti, ma rimuginati, abusivi, destabilizzanti. Comunque, Giannino Stoppani è diventato subito il mio modello educativo privilegiato.
Ero stregato dalla sua imperizia esistenziale e dalla sua solare malafede. Ho abbandonato progressivamente le saghe a fumetti di Thor e i Vendicatori, di cui ero fino quell’età golosissimo, e mi sono concentrato sulle coglionate a ripetizione di Giannino. Soprattutto ho abbracciato una volta per tutte la sua retorica innocentista. Nel gran mezzo del più solenne casino, della perfidia più tonta, del disastro a catena e perfettamente riuscito, Giannino esprimeva sempre una limpida meraviglia filosofica, un’innocenza adamitica, un’incomprensione assoluta dei fatti e delle concatenazioni causali dei fatti. Insomma, Giannino era la letteratura allo stato sorgivo. Ancora oggi, infatti, la letteratura non mi sembra uno sguardo terso sulla realtà, dal momento che come ricordava Gadda la realtà è tutt’altro che tersa. Neppure, però, mi sembra che la letteratura si limiti a velare la realtà, aggiungendo velo a veli. La letteratura è la manifestazione, il proclama, la difesa stoica dell’esistenza di un malinteso palese tra noi e il mondo, tra colui che pensa e agisce, e i fatti “duri” che scaturiscono da quei pensieri e da quelle azioni. Giannino era dunque perfetto, e perfette le sue sgorbiesche illustrazioni, e perfetta era la forma diario attraverso cui esprimeva la sua frantumata visione delle cose. Inoltre, come se non bastasse, il “giornalino” stabiliva una frontiera netta tra il mondo degli adulti, tendenzialmente persecutorio, e il mondo del bambino, di colui che è in posizione di assoluta inferiorità. Al bambino mancano i soldi, la patente, i muscoli. Non gli rimane che la parlantina. Non gli rimane che la letteratura, per battersi contro le armate vandaliche degli adulti.
A questo punto dovrei citare nuovamente la nonna materna, con cui ho vissuto più o meno dagli otto ai diciassette anni. Mia nonna, infatti, prese l’abitudine di leggermi un canto della Divina commedia prima del sonno. Per un certo periodo, quando ero più piccolo, mi faceva ascoltare La riva bianca, la riva nera, una canzone del 1971 cantata da Iva Zanicchi. Poi, nel periodo in cui avevo undici o dodici anni, stabilì un nuovo rituale ben definito. Una volta che io mi ero diligentemente infilato sotto le coperte, lei piazzata su di una sedia in mezzo alla stanza mi leggeva un canto della Commedia, o una parte di esso, seguendo pedissequa l’ordine delle cantiche. Ovviamente era costretta a fermarsi spesso e a spiegare. Ci tengo a sottolineare che mia nonna non era lontanamente un’intellettuale e non aveva in grandissima stima né la letteratura né le arti, che avevano ai suoi occhi l’inconveniente di essere fonti di guadagno troppo incerte per una persona seria. Questa cosa della lettura dantesca era, quindi, una trovata assai bizzarra, a cavallo tra lo svezzamento culturale precoce e una tortura in sordina.
Parecchi anni dopo, quando la letteratura divenne incontestabilmente una delle mie maggiori passioni, il ricordo di mia nonna che mi leggeva ogni sera la Divina commedia ha acquisito la dignità e l’interesse di un elemento esotico, un qualcosa da salvare in un’infanzia che non era stata particolarmente prodiga sul piano culturale. Considero, oggi, che quell’incontro con Dante non mi ha fatto né caldo né freddo. Ma anch’esso probabilmente, e me lo auguro, ha agito, e in modo velenoso e patologico, come ben si addice alla formazione di uno scrittore. Vi era qualcosa di ottuso e unilaterale in quella offerta, a un dodicenne, di un monumento letterario nazionale. In casa mia, non c’erano biblioteche guarnite. Tutti quanti i libri importanti che ho letto da giovane, li ho trovati fuori casa, cercandoli o incontrandoli per caso, spesso in relazione ai consigli di qualcuno. Anche quella del Dante serale è stata in qualche modo una lezione: in letteratura non esistono monumenti che impongono di per sé ammirazione e rispetto, come prevedeva il retaggio piccolo-borghese di mia nonna. La letteratura è innanzitutto uno strumento di lotta per chi è disarmato e imbelle. Per questo si legge sempre un libro, partendo da un proprio bisogno e da una segreta disperazione. Speriamo sempre che sia quello capace di salvarci, non eternamente, ma nella circostanza specifica, ben delimitata temporalmente, in cui ci è finito nelle mani. Salvarci dalla nostra imperizia esistenziale, senza però mai rinnegarla, anzi, in qualche modo rafforzandola, rendendola più disinvolta e sicura di sé, più sicura dei suoi disastri, più allegra in mezzo ad essi.
Oggi, dopo così tanti anni di sonnambulismi, risvegli, buona e cattiva volontà, per divenire scrittore, per portare a termine la formazione, la Bildung, mi pare almeno un po’ più chiaro il punto d’avvio, di slancio. Forse c’è sempre la storia di Giannino e del fronte, l’idea che non sia auspicabile crescere e divenire ragionevoli, perdere la propria idiozia, chiarificare i malintesi, polire il vetro e renderlo trasparente, raggiungere le armate degli adulti, esibire soldi e patenti. Ma è una chiara, tipica, illusione giovanile: lo scrittore è tale se diventa adulto, lo scrittore è tale se diventa qualcosa di finito, se ha una sua figura da portare in giro, se tutti i suoi scritti contribuiscono a fare una figura salda di scrittore. Bisogna assomigliare fino a in fondo ad uno scrittore, per sentirsi dire di essere uno scrittore. Gli scrittori sono dentro un sistema di contratti, interviste, ricompense, relazioni diplomatiche, hanno impegni e doveri, e la loro idiozia dev’essere spesa bene e centellinata, perché più si invecchia, meno l’idiozia viene tollerata in società. Gli scrittori sono figure d’intelligenza. Questo io lo avevo capito male. Ma mi ci sono messo. Mi ci sono messo anch’io dentro questi sforzi d’intelligenza. Forse ci arriverò, prima o poi, a questa patente, e scrivo di Giannino, per meglio dimenticarlo.
Tag: Andrea Inglese, Carlo Emilio Gadda, Dante Alighieri, Emilio Salgari, Iva Zanicchi, Mao Zedong, Mao-Tse-Tung, Vamba. çLuigi Bertelli
9 ottobre 2014 alle 09:20
“ Martedì 30 gennaio 2007 – Con i miei colleghi – quelli che hanno, all’incirca, una decina d’anni meno di me – mi trovo, non so come, a parlare del Giornalino di Giamburrasca. Ma quasi subito capisco che stiamo parlando di due cose diverse. Io infatti parlo del libro di Vamba, delle sue irresistibili storie, delle sue esilaranti battute, loro parlano dello sceneggiato di Rita Pavone, con le canzoncine, i balletti etc. Come si vede c’è una – sia pure piccola – differenza. La differenza che si chiama televisione. D’accordo, nello sceneggiato tv, le musiche, come si sforzano di farmi notare, erano nientemeno che di Nino Rota, d’accordo, ma la differenza rimane. Loro possono non saperlo, ma io lo so. (Lei dice che lui è morto. Io invece dico che non è nato, anzi, che è non-nato. Più o meno come la televisione. Io mi ricordo benissimo di quando non c’era, quando non era non-nata) “. [*]
[*] La s-formazione dello scrittore / 34
9 ottobre 2014 alle 09:45
mi piace questa idea dell’idiozia, dello “scompenso”: vite brevi di idioti e gli scrittori inutili di Cavazzoni… chissà se ad Andrea sono piaciuti come sono piaciuti a me, ritrovandoci quell’andamento sghembo divertito… (anche il sadomasochismo della nonna è una “epifania” interessante: quell’esercizio di immobilità, di ascolto, nel buio… che lume c’era mentre leggeva Dante? Quale ambiente intorno? fermo e ascolta)
9 ottobre 2014 alle 09:49
Il pezzo è perfetto ma c’è in esso una qualità “intellettualistica” che a me manca, e che forse perciò me lo rende in parte ostile. Questa qualità è come una patina che l’intelligenza e la cultura dell’autore del pezzo distendono su quel che davvero accadde – mi rendo conto che solo Inglese sa (o potrebbe sapere) quel che davvero accadde; tuttavia il pezzo, specie nella prima parte, mi sembra… irraggiungibile; irraggiungibile e che io non possa toccarlo. Non saprei come dirlo meglio di così, ed è un sacrosanto diritto di Inglese che io non possa toccare il suo pezzo, o fregarsene che io possa toccarlo o meno. Io, da voyeur, in queste formazioni cerco carne e sangue; e quando non ne trovo a sufficienza rimango con l’appetito, ecco.
9 ottobre 2014 alle 10:07
a Enrico E, eh sì, quel Cavazzoni l’ho scoperto una volta, che dormivo nel soggiorno di un’amica. Mi sono messo a leggerlo e come mi è accaduto poche volte nella vita, la lettura mi faceva “sganasciare” dal ridere, con Philip Roth mi è capitato, Céline, Bukowski, e pochi altri. Una lettura e scuola bellissima quella di quel Cavazzoni.
a Enrico M
C’è una patina su quello che accade? Sì. Lascia le cose in parte inafferabili? Credo proprio di sì. Che poi sia una patina d’intelligenza, non so, o d’intelletto… Di carne e sangue, sull’infanzia, ne avrei da dare a iosa. Ma non le darò in un pezzo così, né so ancora se le darò e come. Le cose si possono anche vedere in tralice. Qui era questo lo sguardo che mi sono permesso, e che ho offerto al (anche legittimo) voyeurismo del lettore.
9 ottobre 2014 alle 10:12
Molto interessante il tuo pensiero!
9 ottobre 2014 alle 13:11
Personalmente trovo lo sguardo in tralice pieno di mistero, forse un pò cervellotico è vero, ma anche rivelatore della necessità di comunicare con il lettore in modo indiretto, e quindi più intimo. Insomma per me questo pezzo non poteva essere più interessante. Anche perché mi riconosco, all’età di quarantotto anni, nella stessa attesa di poter un giorno scoprire di essere finalmente “diventata” una scrittrice.
9 ottobre 2014 alle 14:01
“ Giovedì 31 dicembre 2009 – Poi penso che, se mi chiedessero a quale diario il mio diario assomiglia di più, risponderei: al Giornalino di Gian Burrasca. Il diario finto di un bambino finto. Di vero c’è solo il disagio di dovere vivere, da piccolo, fra i « grandi ». “. [*]
[*] Potrebbe anche darsi che si tratti di vivere da grande fra i piccoli, chissà. [Nota 2014] [**]
[**] La s-formazione dello scrittore / 35
9 ottobre 2014 alle 14:20
Naturalmente un racconto di formazione può non essere romanzesco (e può anche non essere antiromanzesco).
9 ottobre 2014 alle 15:03
il giornalino di Gian Burrasca. La madre di una mia amica era insegnante alle medie e l’aveva adottato come libro di narrativa. La mia amica, quindi, ne aveva una copia e io ne lessi qualche passo a casa sua. Desideravo intensamente averlo, ma non potevo perché vivevo in un paesino con una sola libreria non troppo fornita. Nelle vacanze di Natale lasciavamo il paesino del sud per trascorrere le feste con i parenti emigrati a Milano. Un giorno, su un espositore di un’ edicola dei sotterranei della metropolitana, vidi l’inconfondibile copertina verde. Mi fermai in contemplazione, mentre i grandi proseguivano e mi lasciavano indietro, decisa a rischiare anche l’abbandono per conquistare la mia copia. Per fortuna si accorsero, della mia mancanza, mio padre tornò indietro a cercarmi e me lo comprò.
9 ottobre 2014 alle 16:49
“ Martedì 8 luglio 1997 – Stamani, mentre scorrevo distrattamente i titoli dei libri sugli scaffali della mia libreria – pensavo anche che dopotutto è un peccato che mi sia rassegnato a leggere così poco -, mi sono caduti gli occhi su un libriccino di Berardinelli di una decina d’anni fa, L’esteta e il politico, che ho già letto, e sicuramente tornato a spulciare più di una volta. Apertolo, ho riletto le pagine della « Prefazione in forma di epigrafe » nelle quali l’autore disegna un divertente e un po’ psicoanalitico – cioè psicoanalizzabile – ritratto del padre – psicoanalizzabile il ritratto, non il padre -, nevrotico, assillato, distratto lettore di giornali in quei primi anni Cinquanta che, per Berardinelli come per me, sono stati gli anni dell’infanzia. Berardinelli che, insieme alle donne di casa sua, stava a quei tempi dalla « parte » di quelli che non-leggevano-il-giornale, lascia intendere di essere rimasto fedele a questa differenza originaria, e che dalla determinazione a non farsi assillare o distrarre – dalle notizie, dalla « realtà » – è nata in qualche misura la sua vocazione a occuparsi dei libri, cioè più esattamente della letteratura. La mia, se dovessi raccontarla, è una storia tutta diversa. In casa il giornale si è sempre letto, cioè lo leggevano tutti – uomini, donne, e qualche volta anche io bambino – e anche nessuno, perché nessuno lo leggeva a tavola, nessuno si faceva assillare, nessuno, insomma, lo prendeva sul serio. Anzi a me, per quanto ricordo, il giornale sembrava soprattutto una cosa e cioé: buffo. Mi sembrava buffo che secondo il giornale fosse importante che un abitante della mia città si fosse slogato una spalla in una città distante qualche centinaio di chilometri dalla mia, molto meglio se era estera, fosse anche soltanto San Marino. Mi sembrava buffo che l’unico giornalista che conoscevo fosse un omino secco e nero che veniva in casa a fare i calli ai nonni e che, a quanto si diceva, oltre che il giornalista e il callista faceva anche il violinista, cioè suonava, qualche volta, il violino. Mi sembrava lodevole che appallottolando il giornale la zia realizzasse delle belle palle di carta che, bagnate, strizzate e fatte seccare, servivano ad accendere il fuoco nella stufa a legna. Mi sembrava altrettanto apprezzabile che le pagine del giornale si potessero ficcare dentro le scarpe per aiutarle a conservare la forma. Mi sembrava disdicevole che con la carta farinosa del giornale non si potessero fare gli zufoli, quegli aguzzi siluri di carta a cui qualcuno induriva la punta con la cera e qualcun altro, più malizioso, armava della capocchia lucente di uno spillo. Mi sembrava qualche volta rimarchevole che, foderando i libri con il giornale, si ottenessero effetti sorprendenti da collage dadaista, no, questo allora non potevo pensarlo. Mi sembrava strano che il fruttivendolo nella carta del giornale ci incartasse di tutto, senza rispetto non tanto per le notizie quanto per l’igiene. Mi sembrava folcloristico che i muratori indossassero sempre cappelli fatti di carta di giornale – non ho mai saputo come facevano a farli in quel modo -, così che se ne andavano in giro con un sacco di parole, di titoli, in testa, come involontari uomini sandwich. Tutto questo, che non aveva assolutamente niente di assillante, succedeva forse perché vivevamo in provincia, o perché, nella nostra tranquillità di piccolo borghesi tranquillamente insediati nell’impiegatizio terziario di allora, non avevamo niente di che preoccuparci. Poi però, ecco il punto, tutto è cambiato, perché proprio io il giornale ho cominciato a prenderlo sul serio. E’ cominciato come una specie di guerra, una specie di eccitazione, una specie di euforia, una specie di festa. Con certi titoli, letti in certe maliziose mattine di primavera, all’aperto, in mezzo alla strada, certe notizie che sembrava sempre mi riguardassero personalmente, parlassero sempre di me, proprio di me, non semplice lettore, ma esaltato protagonista. Come una specie di copione mondiale, in cui anche io avevo una parte, e importante. Una specie di film vero, più vero di tutto il resto. E non mi veniva neanche il sospetto che potesse essere buffo. Il giornale, un giorno dopo l’altro, scandiva nervosamente il mio tempo. Mi sarei vergognato a distrarmi da quello che il giornale, clamorosamente, insistentemente, urlava, mormorava, insinuava, riprovava, annunciava, commentava, insomma: diceva. Se lo facevo, se, oltre la pagina bianca e nera così affollata di eventi reali, di tenebrose notizie, sbirciavo qualcosa che aveva la luminosità inaccettabile e fatua di una forma femminile, per esempio, o di un paesaggio, o di un cielo, o di un ricordo, mi sentivo in colpa. Il giornale, dura lex, mi richiamava all’ordine aspro della realtà, alla corposa evidenza dell’oggi, minacciandomi anche, se esitavo a obbedire. Così ogni mattina, appena sveglio, sfogliando la copia appena comprata, vedevo che, così come le mie dita si annerivano dell’inchiostro mai completamente asciutto delle pagine, anche la mia giornata era sporcata in partenza, non sarebbe stata una giornata normalmente felice come erano prima le mie giornate, ma almeno un poco triste, luttuosa, funesta, funestata dalle disgrazie, dal male, dalla clamorosa inconsistenza del mondo. Quello che il giornale mi diceva è che dovevo fare qualcosa, in quella giornata ancora una volta « segnata » fin dal suo inizio, per riscattarmi da quella universale jattura, che, ormai non potevo fingere di non saperlo, almeno un po’ era anche colpa mia. Per farla breve, da un certo momento in poi non più sono riuscito a non leggere i giornali, o, almeno, a non prenderli sul serio. Ero diventato nevrotico, ero continuamente assillato, non guardavo più in faccia nessuno, però – va detto – a tavola non ho mai letto. Finché – dopo molti anni – ho finito per lavorare in un giornale, cioè per fare il giornalista. E allora è cambiato tutto un’altra volta. Perché ho visto come si fa. Cioè come facevano. Anzi come fanno. E faranno sempre. Però spiegarlo sarebbe un discorso lungo che ora non ho voglia di fare. Invece, per tornare a Berardinelli e al suo babbo, io non posso fare altro che congratularmi con il figlio per non essersi mai fatto assillare anche se, lo confesso, provo una certa simpatia per quel pover’uomo chino sui luridi fogli di carta mentre la minestra magari diventava fredda. Forse, chissà, la verità è che in casa Berardinelli si mangiava male, e che il pater familias, leggendo, cercava di sottrarsi a qualche piatto mal cucinato. Oppure che non si dovrebbe mai fare cucinare gli altri, che poi, a lungo andare, ti passa l’appetito. Oppure che non si dovrebbe mai avere una moglie, che poi, a lungo andare, ti passa l’appetito. Chissà. Per intanto, in questi dieci anni, i giornali e i loro lettori sono diventati sempre di più, mentre dei libri anzi della letteratura – quella che Beradinelli ama e che anch’io ho sempre amato – si hanno poche notizie. A meno che la letteratura non abbia deciso di fare, per così dire, la moglie casalinga del giornale, anzi, più esattamente, la malinconica moglie dell’uomo-che-legge-il-giornale, e che per questo la trascura, e tuttavia, assillandosi, nevrotizzandosi, rovinandosi la digestione, in qualche modo la mantiene. Spietata, lungimirante, gattamortesca astuzia della letteratura anzi della casalinghità. Perché, comunque sia, pulzella o maritata, la letteratura è un’altra cosa, su questo, credo, io e Berardinelli siamo d’accordo. Perché, anche se non si ha il padre ferroviere, anche se si vive in provincia, anche se non si prende il giornale sul serio, in ogni famiglia, in ogni casa, per ogni ragazzino, qualcosa di assillante c’è sempre, qualcosa che « molesta con tormentosa insistenza » (Devoto-Oli), per esempio qualcuno che è assillato cioè dominato da un assillo ovvero da uno « stimolo tormentoso che perseguita chi soffre di una grave preoccupazione o di un desiderio assiduo e pungente » (Ibid.) e che, essendo assillato, assilla anche chi gli sta intorno. Che poi sarebbe anche, dice sempre il vocabolario, un insetto « che molesta con la puntura gli animali domestici; tafano, estro ». E forse è per sfuggire a questo assillo che quel ragazzino un giorno comincia a leggere i libri, cioè i romanzi, cioè le poesie, cioè la letteratura e quando legge si sente felice. Perché, in ogni caso, per chiunque la ami cioè la legga, la letteratura tutto può essere fuorché assillante. Cioè non è fatta per procurare assilli, per molestare tormentosamente, per molestare, per perseguitare, anche se, va detto, c’è stato chi ha pensato che almeno pungere un poco o parecchio doveva. Perché la letteratura – a questo punto non so più se Berardinelli è d’accordo – non deve soprattutto preoccuparsi di pungere, perché la letteratura non è un insetto molesto, un tafano, una pulce, una zanzara. Quelli sono i giornali, che appunto pungono, assillano, rendono pazzo chi li legge. La letteratura, se mai ci riuscisse, dovrebbe fare molto di meglio anzi di peggio che una puntura. Dovrebbe fare come fa il cinema: colpire al cuore. Come una freccia, come un amore, come qualcosa che non si scorda più. Che poi forse non colpisce al cuore, ma all’occhio, al culo, o in qualche altro punto della mente che magari non sappiamo di avere. E che fa stare bene, e anche male, come non si è mai stati, o non si ricorda di esserlo stati. E’ anche un gioco pericoloso e solo pochi riescono a farlo. E, ora che non è più stamani ma già stasera – un’altra giornata « segnata » è passata, fra cento tormentosi assilli e mille irritanti punture, posso anche rileggere Berardinelli. Oppure no. “. [*] [**]
[*] Avendo scoperto che Andrea Inglese si è ” occupato ” di Berardinelli, mi sono sentito autorizzato a rievocare questo vecchio diario. Mi scuso per l’esagerata lunghezza.
[**] La s-formazione dello scrittore / 36
9 ottobre 2014 alle 17:59
Ma uno scrittore che dice di essere in continua formazione sta anche formando il proprio racconto di formazione. Quando riterrà di essere diventato scrittore magari avrà pronto e finito e formato il proprio bel racconto di formazione (o sarà diventato scrittore proprio perché avrà finito e formato il proprio racconto di formazione). Cioè, siamo sicuri che un autore che non si sente scrittore, una volta conquistato ai propri occhi questo status non ritratterà i termini della propria formazione di quando ancora si vedeva in formazione e non come scrittore…? Uno scrittore formato e dichiarato non è che modifica retrospettivamente la propria mitologia personale a scapito di ogni scomoda coerenza…
È solo una provocazione ovviamente, ma io ho l’idea dello scrittore come di un funzionario, che so, un legislatore che una volta divenuto tale può pacificamente legiferare su di sé. Lo scrittore che diviene tale, quando diviene tale ha già riscritto la propria storia e quindi anche la propria formazione. È nei suoi poteri e certo nelle sue capacità.
Una provocazione bonaria e scherzosa, ma si sa mai che i “momenti epifanici” in cui il destino viene chiaro non succedano una volta diventati scrittori ai propri occhi, retroattivamente intendo.
9 ottobre 2014 alle 21:30
Giulio, si potrebbe chiedere agli autori partecipanti di stilare una bibliografia delle proprie opere da accludere in qualche modo alle loro interviste?
Mi interrogavo, inoltre, sul motivo della tua richiesta, rivelata da una buona parte degli intervistati, di scrivere pezzi lunghi.
9 ottobre 2014 alle 21:32
a dm
forse la questione è un’altra, forse c’è chi pensa che il momento più fecondo dell’attività di uno scrittore sia quello in cui è convinto di non saper scrivere, d’altronde uno diventa scrittore proprio perché ha molte difficoltà a scrivere, e scrivere gli pone immensi problemi, una volta che diventasse quello scrittore che sa scrivere, perché ha risolto i problemi con la scrittura e ha imparato a scrivere “fluentemente” (romanzi o altro) allora forse è meglio dedicarsi ad altro…
9 ottobre 2014 alle 21:50
Sì, Andrea Inglese, mi convince molto “uno diventa scrittore proprio perché ha molte difficoltà a scrivere, e scrivere gli pone immensi problemi”. Basta pensare alla stretta connessione fra disturbi del linguaggio – di tipo fisico e di tipo cognitivo – e “vocazione” alla scrittura.
E anche che l’energia del dire si esaurisca nel detto mi pare molto condivisibile. (Nel mio piccolo, scrivo per togliermi la voglia di scrivere ancora.)
9 ottobre 2014 alle 22:14
Andrea Inglese (1967) vive a Parigi. Ha pubblicato uno studio di teoria del romanzo “L’eroe segreto. Il personaggio nella modernità dalla confessione al solipsismo” (2003) e la raccolta di saggi “La confusione è ancella della menzogna” per l’editore digitale Quintadicopertina (2012). Tra i suoi libri di poesia: “Inventari” (Zona 2001; finalista Premio Delfini), “Colonne d’aveugles” (Le Clou Dans Le Fer, 2007), “La distrazione (Luca Sossella, 2008; premio Montano 2009), il prosimetro “Commiato da Andromeda” (Valigie Rosse, 2011; premio Ciampi), “Lettere alla Reinserzione Culturale del Disoccupato”, nell’edizione italiana (Italic Pequod, 2013) e francese (NOUS, 2013), e “La grande anitra” (Oèdipus, 2013). Tra i testi in prosa: “Prati / Pelouses” (La Camera Verde, 2007) in parte confluiti nel volume collettivo “Prosa in prosa” (Le Lettere, 2009), “Quando Kubrick inventò la fantascienza. 4 capricci su 2001” (La Camera Verde, 2011), “I miei pezzi” nel volume collettivo “Ex.it” (La Colornese – Tielleci, 2013) e “Prese su Rembrandt” nel volume collettivo “Nell’occhio di chi guarda” (Donzelli, 2014). Ha curato l’antologia del poeta francese Jean-Jacques Viton, “Il commento definitivo. Poesie 1984-2008” (Metauro, 2009). È uno dei membri del blog letterario Nazioneindiana (www.nazioneindiana.it) e del sito GAMMM (gammm.org). È nel comitato di redazione della rivista “alfabeta2” (www.alfabeta2.it). Ha collaborato alle pagine culturali de “il Manifesto”. Per l’anno 2010-2011 è stato scrittore residente a Parigi con una borsa del Conseil Régional d’Île de France e ha diretto degli atelier di scrittura sul tema dell’espatrio e della memoria.
11 ottobre 2014 alle 23:24
Giannino Stoppani è stato il mio eroe per alcuni anni dell’infanzia. Ne ripeteva goffamente le gesta e mio papà mi scherno va. Oggi posso dire che la sua distonia con la realta’ fosse anche frutto di una buona dose di paraculaggine.
Per circa trent’anni sono andato a dormire tardo. Leggevo almeno un canto ogni sera. Ma doveva essere dell’ Inferno, perché il ‘mio’ Dante era tutto la’.
Per finire. Un grande pezzo, quello di Andrea Inglese, forse per me il più istruttivo. Per la mia sensibilità letteraria, intendo dire.
11 ottobre 2014 alle 23:28
Scrivo da cellulare. Mi scuso dei refusi a nome di ‘sto caspito di correttore automatico.
22 settembre 2016 alle 08:53
[…] Tornando a lei come è nata la sua passione per la scrittura? Per emulazione. Dopo aver letto il Giornalino di Gianburrasca, che mi è stato regalato quando avevo nove anni. Lo rilessi varie volte, e poi a undici anni, cominciando le scuole medie, cominciai a tenere un diario anch’io. Ne ho parlato qui: https://vibrisse.wordpress.com/2014/10/09/la-formazione-dello-scrittore-16-andrea-inglese/ […]