[Il testo che segue è contenuto in un’antologia redatta in occasione del ventennale del Premio Energheia a Matera. Il titolo dell’antologia è “Futuro Remoto”. Il mio contributo è pubblicato anche su Wall Street International Magazine. Qui. mc]
Anello d’Identità
Oggi ho rivisto un film 4D nel mio televisore quadridimensionale. Non lo vedevo da una decina d’anni. Si intitola Kramer contro Kramer con Meryl Streep e Dustin Hoffman. Dieci anni fa quella storia aveva per protagonisti una coppia di coniugi trentenni, ma rivedere lo stesso film oggi fa un effetto abbastanza sconvolgente. Una volta con i 3D non era così. Vedevi un film in altezza lunghezza profondità ma non c’era alcuna temporalità. La scena non invecchiava col tempo. Ma col 4D quello che accade è assurdo. Il tempo restituisce l’immagine di Dustin Hoffman e Meryl Streep per come veramente sarebbero invecchiati. Senza trattamenti, creme, cure. Dustin Hoffman rachitico e secco. Meryl Streep grassa e piena di ritenzione idrica. Dopo i trent’anni o si gonfia o ci si restringe. Non c’è nulla da fare. Un aspetto normale non lo si ha più. Flaccidi o tirati. Muscolarizzati o budini. Devo stare attento a vedere questi 4D dopo troppo tempo. Sulla custodia del Dvd c’è scritto che è preferibile non lasciar trascorrere sei mesi dall’ultima visione. Anche i grattacieli e le automobili, qualsiasi dettaglio, viene sottoposto all’erosione degli agenti atmosferici. Non so, Meryl Streep indossa gonne strappate e sgualcite, vesti lacere. Lo stesso dicasi per Hoffman e per gli altri personaggi. Alcune carrozzerie d’automobile sullo sfondo sono totalmente arrugginite. Eppure la storia raccontata dal film rimane quella, stessi gesti, stesse azioni, stesse battute, solo pronunciate più lentamente e con voci diverse da come le ricordavo. Un mondo Anni 70 del ‘900 sopravvissuto dieci anni mediante il puro scorrere del tempo. Senza eventi storici o cataclismi. Solo scorrere del tempo; ed è un bel salto temporale, in effetti, ti sballa il cervello, fa un cattivo effetto sull’umore. Però, in fondo, pur con i rischi che ho corso, mi ha fatto bene rivederlo. Il film mi ha fatto ricordare che viviamo in una dimensione spaziotemporale. Quando guardiamo da un punto a un altro punto, il nostro sguardo attraversa spaziotempo e non solo spazio. Che c’è il tempo e che pure oggi in un multi-verso a undici dimensioni, la faccenda non è cambiata rispetto a centinaia d’anni fa. La dimensione fondamentale è rimasta quella. Il tempo. Con lui dobbiamo vedercela.
Così ho chiamato Z41.
Z41 è mia moglie.
E’ lei che possiede il chip della mia identità.
Ciò che penso, ricordo, le emozioni, il mio io, attraverso un sistema d’ingegneria quantistica che non sono in grado di spiegare finisce in quel chip.
Quel chip lo possiede Z41.
Mia moglie.
Una volta (come per esempio negli Anni 70 del ‘900 ai tempi di Kramer contro Kramer, ma, se è per questo, anche negli Anni 90 con La Guerra dei Roses) ci si scambiava gli anelli quando ci si sposava. Oggigiorno ci si scambia un chip. Tu mi dai in custodia la tua identità, io mi prendo in custodia la tua. Il chip in italiano si chiama Anello D’Identità. E’ grosso quanto un atomo e viene inserito vicino al cuore. Questo scambio consente a entrambi i coniugi di prendersi davvero cura l’uno dell’altro e di amarsi l’un l’altro come se stessi perché, di fatto, si sta davvero amando se stessi. Se uno dei due ha un incidente e muore, l’altro perde il suo intero patrimonio identitario. La memoria viene in gran parte cancellata. Se si ammazza idem, memoria azzerata. A quel punto, non avendo più un’identità, va da sé che non si è più nemmeno persone giuridiche in grado, ad esempio, di incamerare i beni della persona cara trapassata. Bisogna stare molto attenti, oggi, nel 2344, a sposarsi. Anche ad avere bimbi. Perché lo scambio di “anelli” avviene anche con loro. Per legge. E non puoi sottrarti a portare dentro di te il chip. Te lo installano vicino al cuore che nemmeno ti accorgi. Metodi per evitarlo quasi non esistono. Questa legge approvata dal pluriparlamento (non bisogna far caso a questa nicizzazione dei termini; da quando le undici dimensioni sono state provate e la materia oscura si sta chiarendo via via ogni giorno che passa, si aggiunge un suffisso iper- super- extra- multi- omni- a ogni parola, anche se di fatto, lasciatemelo dire, sono sempre quei quattro concetti scoperti da Einstein, Newton, Faraday e compagnia qualche decennio prima degli Anni 70 del ‘900) rende impossibili certe furberie come spingere il proprio partner a togliersi la vita o altro della serie. Bisogna prendersi gran cura del partner, anzi. Il recupero del chip nel corpo dell’altro è assai arduo: un bit d’informazione infinitesimale. La microchirurgia atta al recupero dell’Anello Identitario fallisce sette volte su dieci. Il vantaggio è tuttavia che ciò che non puoi fare tu all’altro nemmeno lo può fare l’altro a te. Poi gli incidenti sono molto inferiori da ormai un centinaio d’anni. Viviamo in un mondo eco. E se il coniuge muore per cause naturali… non c’è molto che si possa sperare, se non seguirlo al più presto. Almeno si evitano matrimoni tra coppie con grande differenza d’età. E si sta attenti. Si sta attenti l’uno all’altro il più possibile.
D’altra parte, nella società attuale, solo attraverso lo scambio di Anelli una famiglia può resistere. Ciononostante Z41 e io abbiamo litigato.
Lei è andata via.
Ha saltato persino il lavoro – oggiorgiorno si lavora da casa con una telecamera che ti tiene d’occhio e ti registra.
Sono abbastanza terrorizzato da quel che Z41 potrebbe combinare. Molto terrorizzato.
Se a Z41 succede qualcosa di brutto, succederà anche a me.
“Sono qui dietro di te” mi fa una voce.
Mi volto.
E’ Z41!
“Ah, meno male. Ero preoccupato per me stesso!”
“E anch’io per me”
“Sempre la solita egoista…”
“Sì, e tu pure. Cos’è? Vuoi che ricominciamo?”
“No no. E’ solo che stiamo insieme per egoismo e per paura”
“C’è un altro modo per una coppia di stare assieme? Vampirismo e protezione. Tutto qua”
Tutto qua.
Tag: Marco Candida
4 ottobre 2014 alle 18:48
Geniale.
5 ottobre 2014 alle 10:28
Terribile il 4D. Temo l’avvento del 5D, poi del 6D, del 7D, fino a 11. Dimensioni come lamette sui rasoi usa e getta.
Per non parlare dell’anello, tanto più piccolo di una fede quanto più vincolante; una vera e propria catena.
Bel pezzo. Grazie.
5 ottobre 2014 alle 21:47
[…] E qui su […]
8 ottobre 2014 alle 06:06
Ringrazio Cristina e Fernando. Volevo solo dire che il testo è breve perché è stato richiesto così dall’antologia. Tra l’altro mi viene in mente che Dustin Hoffman è protagonista di un bel film che si chiama Virus Letale. Sull’Ebola.
9 ottobre 2014 alle 09:30
Innanzitutto complimenti a Marco Candida per il racconto, che trovo coinvolgente sia per il taglio che per il ritmo. Direi che è inquietante al punto giusto.
Ho però un dubbio “tecnico” e colgo l’occasione per esprimerlo, visto che non ho spesso la possibilità di discutere in tempo reale con l’autore di un buon testo narrativo. Premetto che la mia è una domanda reale e non una critica per forza.
Qualche tempo fa qui su vibrisse ed altrove si discuteva dell’opportunità di confezionare racconti puliti e ben illuminati. Ora, a me questo racconto sembra sì ben illuminato, ma forse lo è un po’ troppo e per questo non mi sembra abbastanza “pulito”. Ci sono, in particolare, due passaggi che sento “superflui” e che secondo me appesantiscono un po’:
– la spiegazione tra parentesi “(non bisogna far caso a questa nicizzazione dei termini; da quando le undici dimensioni sono state provate e la materia oscura si sta chiarendo via via ogni giorno che passa, si aggiunge un suffisso iper- super- extra- multi- omni- a ogni parola, anche se di fatto, lasciatemelo dire, sono sempre quei quattro concetti scoperti da Einstein, Newton, Faraday e compagnia qualche decennio prima degli Anni 70 del ‘900)”
– la spiegazione “oggiorgiorno si lavora da casa con una telecamera che ti tiene d’occhio e ti registra” (ma già meno del primo passaggio.
La mia domanda è: questi due pezzi di testo erano assolutamente necessari? A posteriori, cioè, servivano davvero all’economia complessiva del racconto?
Grazie.
9 ottobre 2014 alle 12:16
Valentina, questo è un testo breve. Non credo che il lettore si affatichi più di tanto a leggere qualche linea che non rientra precisamente nell’economia complessiva del racconto. Poi dipende dal lettore e da cosa cerca. Ma credo di capire di che risposta hai bisogno e allora ti dico questo. Bisogna fare attenzione a non attenersi così tanto a un criterio da farne un’ossessione. Se si fa del criterio “Mai digressioni!” un’ossessione ci sono due rischi: la maggior parte dei romanzi ci sembreranno improvvisamente pieni di lungaggini e improvvisamente sentiremo di essere superiori a Melville, Dostoevskij, Hugo, King, Balzac, Tolstoj, Manzoni… e presto perderemo il piacere di leggerli e di frequentarli.
9 ottobre 2014 alle 12:48
Proprio perché il racconto è breve, mi verrebbe da dire che dentro dovrebbe esserci solo ciò che ad esso è strettamente funzionale.
Sul resto, invece, concordo.
Grazie della risposta!
9 ottobre 2014 alle 17:49
Valentina, provo a spiegarmi più dettagliatamente. La frase che non ti piace è:
“Questa legge approvata dal pluriparlamento (non bisogna far caso a questa nicizzazione dei termini; da quando le undici dimensioni sono state provate e la materia oscura si sta chiarendo via via ogni giorno che passa, si aggiunge un suffisso iper- super- extra- multi- omni- a ogni parola, anche se di fatto, lasciatemelo dire, sono sempre quei quattro concetti scoperti da Einstein, Newton, Faraday e compagnia qualche decennio prima degli Anni 70 del ‘900) rende impossibili certe furberie come spingere il proprio partner a togliersi la vita o altro della serie.”
Se togliamo la parentesi la frase diventa:
“Questa legge approvata dal pluriparlamento rende impossibili certe furberie come spingere il proprio partner a togliersi la vita o altro della serie”
Ora, sicuramente questa frase è meno pesante, essendoci meno parole da mettere sulla bilancia. Ma, secondo me, con l’inserzione di una lunga parentesi che contiene anche diversi calembour (la materia oscura che si chiarifica… la “nicizzazione” dei termini… ce ne sono almeno tre), il periodo diventa molto più interessante e emotivamente coinvolgente. Nel testo originario non c’era “togliersi la vita”. C’era la parola “suicidio”. Questo spezzettamento, certamente fastidioso!, della parentesi crea un upsidedown nel lettore. Lo si porta a un atterraggio da un lato più morbido su quel “suicidio” che sarebbe troppo diretto, troppo forte; dall’altro, però, l’atterraggio avviene e avviene appunto sul “suicidio”. Quindi il lettore, che era appena stato riempito di piacevoli battutine sull’uso dei suffissi, cioè era stato portato su tutt’altri lidi e carinamente intrattenuto, riatterra in un luogo ostile. Ci ho messo un poco di zucchero, altrimenti la pillola non sarebbe andata giù.
In aggiunta d’accordo che questo è un racconto di fantascienza ma quel “pluriparlamento” andava spiegato almeno un po’. Non mi piace quando vengono introdotte parole inventate senza alcuna giustificazione. Perché si chiama “pluriparlamento”? Bah. Chi lo sa… Invece bisogna dare una giustificazione a tutto.
Quanto al secondo rilievo che mi muovi, stiamo veramente parlando di sette parole in totale.
9 ottobre 2014 alle 20:39
Avevo precisato che la mia era una domanda tecnica, relativa cioè all’uso delle tecniche nel raccontare. Mi serviva per capire e quindi, naturalmente, per far tesoro. Non c’era alcun intento critico in senso negativo. Grazie della spiegazione.
15 ottobre 2014 alle 16:30
Non è tanto l’essere ossessionati dai criteri quanto l’applicarli in maniera acritica. “Scrivi solo quanto necessario” è un buon punto di partenza. Oggi però si finisce spesso per applicare il criterio in modo assoluto, e dire cioè “non bisogna MAI fare digressioni”. Al contrario, bisognerebbe mettere l’effetto al centro; bisognerebbe cioè togliere le digressioni che non sono utili alla realizzazione dell’effetto voluto, ma bisognerebbe anche mettere le digressioni che permettono di realizzarlo.
Mi piace l’ultima risposta di Marco. La prima rischiava di suonare come un “be’, ma sì, ogni tanto qualche parola in più si può mettere e non se ne accorge nessuno”, mentre la seconda mostra bene come la scelta tecnica sia motivata dall’effetto che suscita.
Mi interessa questa frase:
“Se si fa del criterio “Mai digressioni!” un’ossessione ci sono due rischi: la maggior parte dei romanzi ci sembreranno improvvisamente pieni di lungaggini e improvvisamente sentiremo di essere superiori a Melville, Dostoevskij, Hugo, King, Balzac, Tolstoj, Manzoni… e presto perderemo il piacere di leggerli e di frequentarli.”
In effetti molto spesso, dopo la frequentazione di un corso o la lettura di qualche manuale anglosassone, è cosa comune attraversare un periodo dove si fanno pensieri del tipo “Qui Tolstoj ha inserito una frase inutile che io avrei soppresso. Io l’avrei scritto meglio, dunque io sono superiore a Tolstoj”.
Di sicuro anche Tolstoj faceva i suoi errori (già all’epoca gli scrivevano che il suo stile era terribile), ma mi chiedo: qual è il limite tra l’ossessione per un criterio e la sua giusta applicazione? Io mi sono già risposto sopra, e cioè l’effetto è il discriminante, ma voglio sentire altre campane.
E poi mi chiedo: in fondo, è davvero così necessario apprezzare un Dostoevskij?
16 ottobre 2014 alle 14:40
LiveALive, scrivi:
“Scrivi solo quanto necessario” è un buon punto di partenza.
Sì, è un buon punto di partenza che presuppone di sapere a) che cosa è necessario scrivere e b) addirittura quanto, ossia in che misura, le dosi. Più che un punto di partenza, questo mi sembra un punto di approdo.
Quanto a se sia necessario o meno apprezzare un Dostoevskij, sgombriamo il campo da equivoci: si può benissimo scrivere senza aver letto Dostoevskij. Lo sapevi che da giovane King ha dichiarato, in un’intervista, di non aver mai letto Tolstoj? Ciò non di meno essere in grado di motivare perché Dostoevskij ci piace o perché Dostoevskij non ci piace, e, se richiesto, perché lo ignoriamo, questo è anche meglio.
Scrivi:
qual è il limite tra l’ossessione per un criterio e la sua giusta applicazione?
Se questo limite fosse quello da te indicato ossia l’effetto che voglio ottenere, allora bisognerebbe chiedersi: “Ma questo effetto che fa così tanto effetto su di me, farà effetto anche su chi leggerà quel che ho scritto?”.
Grazie del commento.
16 ottobre 2014 alle 15:18
Di norma quando uno mi consiglia di scrivere solo il necessario io interpreto la cosa come “scrivi solo ciò che ha conseguenze sulla trama”. Presa così, quanto ci sarebbe di superfluo in Anna Karenina!
Questo intendevo per punto di partenza. Se invece prendiamo “necessario” come appunto necessario all’effetto voluto, allora è chiaro che parliamo di un punto di approdo. Anna Kanina ha molto di inutile per la storia “Anna Karenina”, ma è tutto necessario all’effetto che suscita nel complesso.
(Naturalmente qualsiasi combinazione di parole ha un effetto, bello o brutto, e il lettore non può dire se è un effetto voluto o meno; credo però di potere dire che Anna Karenina, così com’è, ha un buon effetto su molti).
So che esistono studi anche neurologici sulle differenze di percezione, davanti a certi stilemi, tra autore e lettore. Purtroppo non ho avuto modo di visionarli, anche perché per quanto ne so online non si trovano.
Si può ipotizzare che l’effetto di un dato stilema abbia una base biologica uguale per tutti. Oppure possiamo porre a priori come buoni determinati stilemi indipendentemente dall’effetto. O ancora possiamo porre a priori che un effetto sia buono, e che un dato stilema causi sempre a tutti un dato effetto. Forse avrai notato, per esempio, che molta “critica amatoriale” considera cosa buona a priori la paratassi, in quanto la considera fonte di chiarezza; e ignora il fatto che il singolo potrebbe non percepire la chiarezza come cosa positiva (tipo Leopardi, che elogia spesso il vago).
In generale, però, non credo sia possibile indicare oggettivamente un effetto positivo, né si possa dire oggettivamente se un dato stilema susciterà in tutti quell’effetto. Per questo credo che chi scrive debba cercare di suscitare negli altri un dato effetto (per quanto possibile) senza pensare però se tale effetto sarà percepito come positivo o negativo. Direi anzi che è proprio questo che determina il lettore modello: quello che, innanzi allo stilema scelto, prova lo stesso effetto voluto dell’autore.
Mi dici che saper motivare perché un dato autore piace o meno è cosa buona. Mi chiedo: se uno, ossessionato da un certo criterio, giustifica con esso il suo non-apprezzamento, offre una valida motivazione?
Grazie a te per la risposta. Tempo fa ho letto Il Ricordo di Daniele, e l’ho molto apprezzato.
16 ottobre 2014 alle 16:48
LiveALive, scrivi:
Di norma quando uno mi consiglia di scrivere solo il necessario io interpreto la cosa come “scrivi solo ciò che ha conseguenze sulla trama”. Presa così, quanto ci sarebbe di superfluo in Anna Karenina!
Bisognerebbe intendersi su che cosa sia “superfluo”. Non per fare cavilli sulle espressioni, ma proprio per discutere. Che cosa è “superfluo” in una narrazione? C’è un’intervista a Umberto Eco da qualche parte. Parla del celeberrimo passo dell’Iliade e del Catalogo delle Navi. E’ una lista lunghissima. Eco dice, grosso modo: “Quel pezzo si può anche saltare. Però la lunghezza della lista ti dà la misura di quel che salti”. Non si esce indenni dall’aver saltato il Catalogo delle Navi. C’è un qualche senso di colpa, per così dire, che da quel momento grava sul lettore. La stessa cosa possiamo dire del saggio sullo sperm whale che Melville inserisce nel Moby Dick. Okay, saltiamo pure a piè pari tutto quello che ci pare. Quel che si salta, però, resta pur sempre lì. E ha un suo peso. Non lo possiamo eliminare semplicemente facendo come se non ci fosse.
Questo significa che è molto difficile stabilire cosa sia superfluo e cosa no in un’opera letteraria. Vien quasi da dire che una volta scritta un’opera non abbia nulla di superfluo. Lo stesso Mozzi da qualche parte scrive più o meno: “Pensateci bene prima di mettervi giù a scrivere. Una volta scritto il testo ha una sua vischiosità. E’ molto difficile cambiarlo. Metterci mano”. Che vuol dire quasi che un qualunque testo non ha nulla di veramente superfluo. Al massimo è ‘tutto’ superfluo, cioè da scartare.
“Scrivi solo ciò che ha conseguenza sulla trama” oppure “Una storia è un sistema di relazioni” (Mozzi) sono principi utili, ma, anche qui, bisogna stare attenti. Perché se mi baso esclusivamente sull’utile, rischio di creare narrazioni troppo schematiche, troppo schiette. Che vanno benissimo per gli sketch e i dialoghi in treno, al telefono o in bicicletta. Ma una narrazione investe una totalità. E non vive di schematismi. La signora grassa. Il signore col cappello. Il colonnello. Il brigadiere con la divisa macchiata. Vanno bene, ripeto, per gli sketch o i conte philosophique alla Voltaire o alla Leopardi delle Operette morali. Ma nei romanzi bisogna fornire un nome, un cognome, un faccia, opinioni sul mondo – cose che Mozzi sa, sia chiaro. Questo, in genere, si fa nei romanzi.
16 ottobre 2014 alle 16:53
LiveAlive, scrivi:
Mi chiedo: se uno, ossessionato da un certo criterio, giustifica con esso il suo non-apprezzamento, offre una valida motivazione?
Lo facciamo sempre. Si legge un romanzo e si pensa: “Sì, ma non è nulla di paragonabile a Proust!”. “Bravo bravo. Ma non ha la levità di un Calvino!”. Tra noi e il testo ci sono i nostri “criteri”. Ciò di cui siamo alla ricerca. Il che complica e facilita le cose. Dipende. Se conosco i gusti del lettore che leggerà il mio scritto, se so cosa cerca, ho il compito facilitato. Se no vado alla cieca, e allora posso anche ricorrere alla neuroestetica pur di raccapezzarmi.
16 ottobre 2014 alle 17:09
Sì, mi rendo conto, infatti, che la questione sta anche sulla definizione di “superfluo”. Io potrei anche dire “è superfluo tutto ciò che non manda avanti la trama”, ma sarebbe comunque una definizione arbitraria tutta mia: magari un evento che non manda avanti la trama serve a completare qualcos’altro, o ad aggiungere un dato effetto, eccetera.
Citi la lista di Eco, e quello è un buon esempio: non leggo di tutte le navi, ma proprio perché salto la lista capisco quante sono. Anche questo, insomma, ha un effetto che si può sfruttare.
Giusto per chiarezza: io non credo che sia necessario scrivere solo ciò che ha conseguenze per la trama, l’ho scritto solo come esempio. In effetti “elimina il superfluo!” mi ha sempre convinto poco proprio perché, in relazione al mio scopo, un dato evento per me può essere essenziale per completare l’esposizione di una data idea, mentre magari il lettore che sta badando ad altro lo ritiene superfluo.
17 ottobre 2014 alle 09:15
LiveAlive, fintanto che almanacchiamo ipoteticamente sul miglior modo di scrivere un testo di finzione, quali sono i principi, quali i modelli migliori, possiamo dire più o meno tutto. Quello che conta è capire che cosa ognuno di noi, singolarmente, vuole essere. Vuoi essere autore di romanzi commerciali? Vuoi essere autore di romanzi pubblicabili? Vuoi essere autore di testi che raccontino qualcosa che ti urge raccontare non badando se possa interessare a qualcuno? Bisogna capire cosa vuoi fare. Dopodiché, una volta stabilito questo, devi fiutare in giro i tuoi migliori interlocutori. Giulio Mozzi è un ottimo insegnante dal punto di vista dell’uso delle parole e delle costruzioni sintattiche – diciamo, più pomposamente, delle rappresentazioni del mondo. Lui lavora, soprattutto, sulla qualità della prosa. Giovanni Cocco è gigantesco. Dà consigli strautilissimi – anche troppo! Raul Montanari mi sembra un ottimo insegnante di organizzazione testuale (suoi sono i consigli di scrivere capitoli che abbiano tutti più o meno la stessa lunghezza, di non fare, per dire, descrizioni di luoghi lunghissime e descrizioni di personaggi cortissime). Qualsiasi scrittore, comunque, quando parla di scrittura, è in grado di dire cose interessanti, belle, piacevoli da ascoltare. All’apparenza persin utili.
Credo potrebbe essere “furbo” iscriversi ai corsi di scrittura organizzati dalle case editrici. Minimum Fax. Las Vegas Edizioni. Perché? Perché, presumibilmente, in questi corsi, verrano forniti dei “criteri” che coincideranno con i “criteri” utilizzati da codesti editori per selezionare testi da pubblicare. Se pubblicare vogliamo. Ma non è detto che un testo pubblicabile presso Minimum Fax possa andare bene per Newton Compton o Fazi.
Vale il consiglio di sempre. Leggi e scrivi molto. Ma se sei qui, immagino che tu già lo faccia. Un altro consiglio è: ama quel che fai. L’amore che provi per quello che fai nessuno te lo potrà mai portare via o rovinare. I corsi di scrittura sono luoghi dove ti viene detto qual è il miglior modo di “amare” quello che si fa – una bella pretesa. Ma la consistenza del sentimento che provi, quella nessuno te la potrà mai sminuire o toccare. Anche se ti verrà detto che sei un pessimo amante. Questa ti potrà apparire una chiusa melensa, ma, se ci si riflette, è forse la cosa più cinica tra quelle dette fin qui.
22 ottobre 2014 alle 09:24
[…] stato invitato a scrivere un racconto per un’antologia che celebra il ventennale del Premio. Qui si può leggere il racconto. Nell’antologia ci sono altri racconti scritti, tra gli autori […]