La formazione dello scrittore, 15 / Marco Giovenale

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di Marco Giovenale

[Questo è il quindicesimo articolo della serie La formazione dello scrittore, parallela alla serie La formazione della scrittrice. Ringrazio Marco per la disponibilità. gm]

marco_giovenaleStarei in verità per confessarmi inadatto a parlare di formazione dello scrittore. Applicata l’espressione al mio caso – sento forse pertinente e calzante modificarla in “formazione di una scrittura”.

Parlerei dunque, come posso, di questa, della formazione di una scrittura. (Che tenta di essere senza io-moi, dunque senza io-scrittore, forse; ma non senza soggetto – dell’inconscio). (L’informe c’è. Il formato, se e quando c’è, è il testo).

Di più. La scrittura è poi in effetti, in qualche modo, scritture. Una faccenda plurale. Correggo allora: Formazione di scritture.

Come evolvono, firmate MG (o “differx”, talvolta)? Da quali possibili gruppi / groppi di premesse? Verso quali direzione?

Se almeno dal 2002 (in termini editoriali) una delle strade affrontate è stata quella della poesia, anche questa – in sé – si ramificava o contraddiceva lavorando su piani che proprio poesia non erano. Anzi chiudevano in un angolo di contraddizione l’idea corrente di poesia che (non solo in quegli anni) pareva dominante nel contesto italiano. Questo ho sperimentato, fino al punto in cui la contraddizione interna al mio lavoro è parsa spostare l’asse del discorso e del mio piccolo iter su una prosa particolare, o modo di prosa, che non era e non è prosa poetica, e che anzi rivendica un’identità di… prosa in prosa. Una roba stranissima, distante dalla narrazione come dalla poesia (e dal poetico).

[Non tanto o non del tutto Endoglosse (2004), ma Numeri primi (2006) e poi certo le prose in La casa esposta (2007) iniziavano ad andare in questa direzione, come il blog di abbozzi differxit, nato nel novembre 2005 sulla piattaforma blogspot]

Ecco. Sono entrati in campo termini o temi o luoghi che talvolta una critica distratta annette ad una sorta di direttissima filata eredità o linea “anni Sessanta” (neoavanguardia). Ma se la storia personale ha in questo una qualche voce in capitolo, per l’ennesima volta una simile interpretazione o semplificazione va complicata, precisata. Chi qui scrive infatti non viene da Darmstadt o da una assidua frequentazione della neoavanguardia, sebbene a questa riconosca un grandissimo valore e un ruolo cruciale-benefico nella cultura letteraria di secondo Novecento. Personalmente il contesto letterario e linguistico di avvio (!) è stato di tutt’altro genere (in tema di Gruppo 63 potrei semmai ripetere quasi parola per parola quello che scrive Alessandro Broggi ricostruendo il proprio percorso).

I due eventi/momenti nodali che vorrei nominare sono stati per me, a 17 anni (1986), l’incontro con l’Eliot del Waste Land, e a 27 quello con Estetica, uno sguardo-attraverso, di Emilio Garroni. Opere diversamente scompaginanti. La prima per comprendere il ruolo e il peso e le possibilità (ed estensione di tastiera) del non detto, e dei meccanismi di intarsio, di variazione tematica, di ironia, e di abbassamento non banalmente espressionista del tono. La seconda per riconoscere – come già fondata e in atto – la natura essenzialmente paradossale, da nastro di Moebius, dell’intreccio fra percezione e attribuzione di senso alla percezione.

Mi piacerebbe poi citare molti eventi extraletterari, ma di dare noia avrei certezza, più che sospetto. Del resto, sulla mia incapacità a (o non volontà di) descrivere un certo buio (formativo), penso di non essere in grado di aggiungere molto a quanto detto qui. (A conferma di ciò annoto, come facevo già in un’intervista di qualche anno fa, che – con umiltà e però anche per onestà ‘nomenclativa’ minima – devo necessariamente dichiararmi non postmoderno, se a postmoderno si dà un’impronta antitragica. Ho ascoltato e ascolto inevitabilmente le inflessioni di Trakl, Woolf, Celan, Rosselli: giocoforza il segno del nero).

§

La formazione dei vocabolari e delle attese implicite nelle parole e nelle strutture evolve in relazione al periodo storico che si attraversa, è lapalissiano. L’infanzia di chi qui scrive, e l’acquisizione dei linguaggi e dei silenzi, delle lacune, è collocata negli anni Settanta, dunque non solo in un contesto schiettamente gutenberghiano, ma in un momento in cui le esplosioni delle forme narrative (e di latenza e crisi della narrazione) vivevano una fioritura ampia anche in aree come quella, poi nei decenni rapidamente ‘normalizzata’, della tv.

La televisione degli anni Settanta prosegue e articola la stagione ricca e intelligente di esperimenti e racconti i cui stili dominavano l’arco dei Sessanta. Sceneggiati come Ritratto di donna velata (1975) mettono in campo un uso dei tempi e delle pause, un gusto dell’indugio e del non detto, dell’ombra, e un’attenzione ad alcuni spessori dei dialoghi e degli incastri anche scaleni di trama, che saranno quasi del tutto ignoti alla cultura iperlineare delle novelas e dei sequel che gli anni Ottanta massicciamente importeranno non sugli schermi ma nei gusti e nelle sintassi scorciate e sconciate di un paese che non era destino dovesse per forza morire democristiano e cerebroleso. (Come dal 1994 accade, quasi senza pausa).

(Qualche ulteriore annotazione qui).

§

Intorno al 1986 escono – a non eccezionale distanza uno dall’altro – i due meridiani dell’opera di J.L.Borges. È opportuno che lo citi perché, appena dopo Cortàzar (letto dall’83), è stato soprattutto in prosa uno dei motori principali per me (e un evidente labirinto) di strutture oltre che di immagini. Incontri successivi, con autori assai differenti (in poesia Holan per esempio; o Rosselli; o Mesa) sono stati preziosi per non rimanere nel campo gravitazionale di quel modernismo. Che pure ha orientato l’identità centrale della raggiera di scritture che ho tentato di mettere in atto. Negli ultimi anni tuttavia si è presentata – e recentemente torna in modo direi definitivo/determinante – la scelta fra continuare a praticare appunto una raggiera di stili (che permette di pensare un libro internamente volutamente contraddittorio come La casa esposta) oppure all’opposto rispondere alla sempre più acuta coscienza della chiusura di un secolo, e con esso di tutte o quasi tutte le strade che si diramano dalla già ramificata (e vitalissima) pianta del modernismo. Chiudendo, dunque, i conti con la metà di identità che risponde alle correnti di un secolo lungo sì ma anche ormai ben dentro il proprio crepuscolo.

Se questo tipo di coscienza, di presa d’atto, di conclusione di un ciclo, da qualche tempo riguarda il fronte delle scritture in versi che ho fin qui praticato (dunque riguarda libri come Delvaux, inteso adesso non come progetto ma come consuntivo [e come consunzione] di taluni stili), fin dall’inizio ha riguardato la narrativa. Fin dai primi momenti di incontro con alcune forme micronarrative – con il Cortàzar delle pagine brevi in particolare – è per me stato evidente che la forma fluviale, e il romanzo soprattutto, non aveva e non ha presa effettiva sui miei interessi.

§

Ancora riprendendo righe da precedenti note.

Nel periodo dell’occupazione delle università (25 anni fa circa), a cui ho partecipato in qualche modo, è stata per me importante l’esperienza con la rivista multilingue – e priva di testo a fronte – “Babele”, che si faceva qui a Roma alla Facoltà di Lingue, a Villa Mirafiori. Ne sono stato anche collaboratore, e… diffusore militante. Aprivo una volta a settimana un traballante tavolinetto pieghevole di legno, a Lettere occupata (dunque alla Sapienza), e tentavo quasi sempre con scarso successo di venderne copie. Su “Babele” ho pubblicato qualche forse non primissima ma comunque prima prova. La connessione con altre riviste che si stampavano – in quei mesi di politica in atto – fu naturale. Ci fu la nascita di una poi dispersa Rete delle riviste, che accoglieva “Babele”, “I Quaderni di Gaia”, “Etnostoria”, “Trame”, “Ridere”, “Foreste sommerse”, “Chimera”, “AC – Antropologia Culturale”, e altre. (Tra cui, credo ufficiosamente, “Arancia Blu”, legata al “manifesto”, poi). Una rivista non romana che seguivo con assiduità, dalla fine dell’89 credo, è stata inoltre il foglio militante bolognese di poesia “Lo Spartivento”, curata da un instancabile Gabriele Milli. È grazie a lui e a “Lo Spartivento” se ho potuto leggere Le descrizioni in atto, di Roberto Roversi (libro che sarebbe poi stato l’oggetto principale della mia tesi di laurea). Mi preme fare il nome di altre due esperienze. In primis “Ossetia”, del pittore e scrittore Ugo Pierri, foglio triestino comunista e… crepuscolarespressionista. E poi – grazie a Oriano Sportelli – “Private”, rivista “di fotografia e scrittura in bianco e nero”, che ho iniziato a leggere nel ’95 e non ho mai lasciato (saltuariamente anche collaborando).

La collaborazione a riviste cartacee, i dialoghi per via epistolare, e il tempo appunto dialogico di elaborazione – non veloce – dei materiali, è parte della natura stessa delle scritture che poi si producono. Inevitabilmente una qualche familiarità iniziale con questo tipo di relazione connota e sovrascrive gli stili. Non parlo di me ma di generazioni, è chiaro; di un numero ampio di persone. (Andando a esempi diversissimi. Sulla nascita e sugli statuti della psicoanalisi Derrida scrive pagine memorabili all’inizio di Mal d’archivio. Sotto questo aspetto, una delle impronte determinanti del Novecento, al suo nascere, è stata data dalla natura epistolare del flusso dialogico che legava Freud ai propri corrispondenti). (Ma non è forse proprio un’epistola, la Lettera di Lord Chandos, a inaugurare il secolo?).

§

Un’esperienza cruciale – in termini di laboratorio, letture, incontri – nel 2001-2003 è stata quella di Ákusma, iniziativa coordinata a Roma da Giuliano Mesa (e da lui avviata già prima del 1998 a Bologna). Il dialogo con lui sarebbe variamente continuato nel tempo, e nelle differenze.

L’uscita nel 2002 del libro collettivo Curvature (di Francesca Vitale e mio, per le edizioni della Camera verde) e poi di Endoglosse (2004, per Biagio Cepollaro E-dizioni) portano al contatto e dialogo con due autori molto appartati, pressoché miei coetanei, Gherardo Bortolotti e Michele Zaffarano, che in quegli anni avviavano il progetto dei ChapBook con l’editore milanese Arcipelago. Il confronto con loro, la quasi contemporanea conoscenza di Alessandro Broggi, la nascita di Gammm nel 2006 e l’importazione=traduzione di molti materiali inglesi e francesi, i contatti con il contesto di Lione (dunque con Jean-Marie Gleize, tradotto da Zaffarano) dopo il 2007, la pubblicazione di Prosa in prosa nel 2009 per Le Lettere (con testi di Bortolotti, Broggi, Inglese, Raos, Zaffarano, e miei), la creazione del blog eexxiitt nel 2011, e il conseguente progetto EX.IT (con Marzaioli e Guatteri, oltre a Zaffarano e me), il convegno sui Nuovi oggettivismi (2012, con atti usciti nel 2013 grazie a Luigi Magno e Cristina Giorcelli), e la nascita – nel 2013 ma dopo lunga elaborazione – del progetto Benway Series, alcuni viaggi fra Stati Uniti e Parigi, tutte queste cose hanno nel tempo portato ad acuire ancora di più la percezione di come stavano mutando – e come erano di fatto già mutate – le scritture di inizio secolo: in Italia e fuori (e le mie, ovviamente).

(In questo, l’ascolto e la complicità e ospitalità che ho sempre avuto dalla Camera verde di Andrea Semerano sono stati senza dubbio non un tassello ma un vero e proprio cantiere, dove mettere in costruzione non solo testi ma anche immagini, e soprattutto incontri).

Così come cruciale è stato il dialogo con autori come Jennifer Scappettone (straordinaria traduttrice di Amelia Rosselli, e curatrice del fascicolo di “Aufgabe” dedicato alla poesia italiana), Joe Ross, K.S.Mohammad, Charles Bernstein, Kathleen Fraser, Rachel Blau DuPlessis, Susana Gardner, Rachel Defay-Liautard, Jim Leftwich, Peter Ganick, Jukka-Pekka Kervinen, Drew Kunz, Xavier Serrano, Paul Vangelisti, Bill Allegrezza, Éric Suchère, Tim Gaze, Michael Jacobson, Rosaire Appel e molti altri.

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19 Risposte to “La formazione dello scrittore, 15 / Marco Giovenale”

  1. gherardo bortolotti Says:

    due righe per salutare marco e per ricordare con lui i tempi nell’insieme eroici delle biagio cepollaro e-dizioni (ancora mi ricordo la prima lettura delle endoglosse!).

    biagio ha avuto un ruolo chiave e del tutto in ombra nel passaggio dagli anni ’90 ai 2000 e, soprattutto, nel passaggio dal mondo delle riviste a quello del web. fu uno dei primi a mettersi “in orbita”, come scriveva lui, e da quella posizione eccentrica ha contribuito a un avvicendamento in parte generazionale ma, forse, soprattutto di paradigma. buona parte di quello che è venuto dopo (non ultimo gammm) nasce dalla sua mossa pionieristica.

  2. red. cac. Says:

    Decisamente illeggibile, inutilmente artificioso, zeppo dei tecnicismi tipici di chi non ha niente da dire, narcisismi a parte.

  3. enrico ernst Says:

    mi sbaglierò, ma vedo al fondo una voce più semplice, un volto meno complesso, meno… intellettualistico, “culturale”… più… ecco sì, individuale… eppure è nascosto, si cela, ha paura?

  4. enrico ernst Says:

    … riguardo quella foto, e quella mano che copre la parte terminale del naso, la bocca, il mento, che poi sta parlando, penso… e le fotografie le forniscono gli autori vero? sono loro anche in quel caso ha “rappresentarsi”?

  5. Giulio Mozzi Says:

    Enrico: la fotografia l’ho pescata in rete (e ritagliata) io.

    Red.cac.: sapresti fare una lista – o almeno qualche esempio – di “tecnicismi” contenuti in questo articolo? Perché, vedi, a me pare che non ce ne sia nessuno.

  6. red. cac. Says:

    Non mi stupisce il fatto che tu non ne veda nessuno. Siamo onesti, però: perché dovrei farti da istitutore? Ho letto il male naturale (lo dovresti considerare un onore) e mi è bastato. Sì forse dovrei essere più costruttivo, ma ne varrebbe la pena? Sei, anagraficamente, non ancora vecchio, ma letterariamente non credo ci sia più niente da fare. Ringrazio tuttavia per la pubblicazione del commento, che mi ha sorpreso piacevolmente. Ecco, se posso riconoscere un merito lo faccio subito e con piacere: normalmente i pretesi letterati cassano, cassano, cassano. Quanto più minimi tanto più vogliono elogi: in questo senso ti salvi, senza dubbio. Ma cercherò di essere un po’ più chiaro, a costo di sputtanarmi del tutto agli occhi tuoi e di chi legge. Non te ne so spiegare la ragione, ma il tuo post mi ha fatto tornare alla mente una lettura decisametne giovanile, ripetuta dopo i 30: la collina dei conigli. Se conosci il libro (non il film) hai una risposta più completa della potenziale lista.
    Grazie ancora per la tolleranza.

  7. Giulio Mozzi Says:

    No, red.cac., non ti chiedo di farmi da istitutore. Ti chiedo solo di provare a segnalare, visto che secondo te il testo ne è “zeppo”, un po’ di questi “tecnicismi”. Vorrei, insomma, che si potesse capire di che cosa parli.

  8. andrea inglese Says:

    ci div’essere un refuso nel titolo, esssendo marco giovenale un collettivo di scrittori, in un solo corpo, si dovrebbe scrivere nel suo caso: la formazione degli scrittori, non solo delle scritture…

  9. Cristian Says:

    mi dispiace red. cac. ma per me, a cui non piacciono per niente i narcisismi, i tecnicismi, le cose cerebrali, le artificiosità, questa profilo è parso molto autentico perché qui c’è un autore che ama una cosa molto importante: la continua ricerca.

  10. enrico ernst Says:

    sai una cosa red.cac. te la volevo proprio dire perché è un peccato. Ti guasta il livore (che fa cattivo sangue). C’è una grande emotività nel tuo scritto, ed è interessante, ma come misteriosa – cioè non ne capisco le cause e le ragioni, o meglio non le capisco appieno. Che esprimerle: le cause le ragioni, “sgonfi” il livore? Addolcisca il sangue? Solo ipotesi… Poi, volevo chiedere a Andrea Inglese cosa ne pensa del “collettivo di scrittori”… non riesco a cogliere se il suo commento è sottilmente polemico, o al contrario “rende giustizia” o cos’altro… in effetti nel post di Marco G. c’è un ripieno di nomi (di persone che non conosco). Il finale lo dice a sufficienza. Mi vorrei mettere lì a cercarli uno dopo l’altro… per capire… ma un vortice da ipertesto mi travolge e mi atterra…

  11. claudio Says:

    Ciao Marco, e il dolce Massimo Sannelli?

  12. Giulio Mozzi Says:

    Enrico, scusa: ma che c’entra il “livore”? Red.cac. ha fatto un’affermazione su un dato materiale: sostiene che questo articolo è “zeppo di tecnicismi”. Si tratta di capire se è vero o no. Se è vero, è un discorso; se non lo è, è un altro discorso.

  13. Gianluca Garrapa Says:

    mmmh, nel tag manca il fondamento di certa ‘scrittura di ricerca’, cioè Jacques Lacan, lo scopiazzatissimo Lacan…. 🙂

  14. Giulio Mozzi Says:

    Gianluca: nelle etichette, o tag che dir si voglia, metto i nomi citati dentro al testo (anche, se ci arrivo, quelli impliciti).

  15. enrico ernst Says:

    bene non so, Giulio, mi riferivo non tanto al primo commento di red. cac. ma al primo commento (nota: lì non si parla “solo” di tecnicismi; la espressione più forte è “decisamente illeggibile”) alla luce del secondo: la battuta sull'”istitutore”, e sull’onore che farebbe a leggere una tua opera (il male naturale)… e poi “non saresti vecchio, ma… non c’è più niente da fare”… bah, io lo chiamo livore, anzi mi sembra proprio di vedere una gola stretta dalla rabbia, dal disgusto, non so (anche la battuta sullo “sputtanarsi” come la interpreti? C’è un travaglio in questa scrittura…), e mi pare che ci sia emotività, quanto meno. Non la senti? Mi pare proprio stranissimo che tu nei due interventi di red. cac. non veda una emotività “grossa”; per me è chiaro il senso che tu poni nello “spostare” il livello della discussione sulla razionalità della cosa (“giustifica, citando, il tuo giudizio”); lo capisco, lo condivido (che la discussione sia “utile”, urbana, aggiunga elementi di discussione, e condivisibili). Ma che tu non senta il “calore” emotivo degli interventi di red. cac. mi lascia sinceramente interdetto. E che non sia quello il “tono principale” di quella comunicazione, bene: la interpretiamo in modo molto diverso.

  16. Giulio Mozzi Says:

    Enrico: se il testo sia “leggibile” o “illeggibile”, è cosa sulla quale si può battibeccare all’infinito; così pure – anzi di più – sul fatto che per me “non ci sia più niente da fare”.
    Invece, se ci siano o no dei “tecnicismi”, è cosa sulla quale si può arrivare a una conclusione.
    Non ho mica detto che non sento l’ “emotività” in ciò che scrive red.cac.; ho detto che non c’entra; se vuoi: non mi interessa; oppure: viene dopo.

    Tizio reagisce in un certo modo – con certe emozioni – a un certo evento. Non sono certo in grado di cambiare le sue emozioni. Posso, forse, provare a convincerlo che l’evento non ha mai avuto luogo (e sperare che poi le emozioni svaniscano).

  17. enrico ernst Says:

    Giulio: sono – spesso, o qualche volta – all’opposto: mi interessano le “vibrazioni emotive” del discorso (addirittura più del “contenuto”). Spesso (o qualche volta) non per “tuffarmici” ma quanto meno per rilevarle e dialogarci (non so se ci riesco, è difficile – e poi non è che io non sia un “emotivo”, anzi). E tuttavia capisco il tuo “positivo” punto di vista. Curioso che ci troviamo a discutere di questo a margine di una “formazione” che già dalle prime righe sottrae al discorso la propria “personale, individuale, emotiva” formazione. tanto che Marco riformula il titolo in “formazione di una scrittura” (quasi “oltre” il soggetto). Questa “mossa” per me ha un versante emotivo, più che culturale, o informazionale. E mi interessa.

  18. annotazioni su scritture: in “vibrisse” | slowforward Says:

    […] https://vibrisse.wordpress.com/2014/10/01/la-formazione-dello-scrittore-15-marco-giovenale/ […]

  19. lafinestraeditrice Says:

    “dolce Massimo Sannelli”? perché, Massimo Sannelli è dolce? e qui sarebbe dolce? http://www.trentinolibero.it/cultura-e-spettacolo/arte-e-cultura/musica-e-concerti/7529-coltrane-e-applicarsi.html

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