[Questo è il quattordicesimo articolo della serie La formazione dello scrittore, parallela alla serie La formazione della scrittrice. Ringrazio Stefano per la disponibilità. gm]
Sillabario
ARTISTI
“Quanti artisti falsi prodigano le loro energie per apparire artisti, mentre gli artisti veri ne conservano per l’arte?” (G. Pontiggia).
BIBLIOTECA
La biblioteca è l’anti-museo del libro – la biblioteca pubblica, intendo – è l’unica piazza dove le voci si sovrappongono nitide. È il posto migliore dove un libro possa riposare e trascorrere il tempo che gli resta – l’eternità, compatibilmente con l’usura della carta. È la vera casa dello scrittore. È la culla della democrazia, la biografia di un paese. Il mio primo giorno in biblioteca è stato l’inizio di una lotta scoliotica ingaggiata dagli occhi tra pagina/finestra/pagina/finestra… Luisa (la bibliotecaria che va in pensione tra pochi giorni) era lì a spiegarmi su quel grande tavolo bianco i volumi adatti alla mia età, contrassegnati da fasce colorate, separati da quelli per i grandi: un limite da infrangere appena possibile.
CAPOLAVORI
I miei capolavori risalgono alle scuole medie (dopo, solo balbettii). Sono i miei temi in classe. L’insegnante entusiasta me li faceva spesso leggere a voce alta. In prima media la professoressa di italiano mi portò tra i grandi della terza, dove lessi la meglio riuscita mistificazione della mia infanzia, la metamorfosi esemplare di mia nonna: trasformavo il patologico in pittoresco, l’incedere della demenza in poesia del tempo. Un altro capolavoro lo partorii due anni dopo, con il lungo elaborato (quattro lunghe pagine fitte fitte della mia nuova grafia appena perfezionata) per il compito sul genere giallo. L’interesse non era tanto nello stratagemma adottato per il classico “delitto della camera chiusa” (dall’interno), quanto nella scelta dei personaggi. Si trattava infatti di una rimpatriata di ex-compagni di scuola, dove l’assassino confessava tutto l’odio covato da anni verso la sua classe, radunati appositamente. Tutti quei ragazzini di tredici anni capirono, senza tante spiegazioni, l’ambigua verità di ogni finzione letteraria.
DIARIO
Non scrivo diari; quello che appunto sui miei quaderni (che di solito hanno durata stagionale) vi arriva in forma già mediata, filtrata per uno scopo letterario: gli incontri quotidiani diventano personaggi, due o tre parole ben ritmate si fanno un verso, le conquiste intellettuali contratte in aforismi. L’unico diario che ho tenuto fedelmente (dal quindicesimo al sedicesimo anno) lo ha meritato il mio primo (sconclusionato e spropositato) innamoramento. Solo per celebrare quel fatto (tutto interiore e mai sfociato in dichiarazioni o contatti) mi sono dedicato alla trascrizione quotidiana (quasi oraria) di azioni ripetitive, luoghi statici, nomi identici. E bisognava, naturalmente, ribadire costantemente quello che provavo, con vette strapiombi altalene di umori. Ho capito che il diario può essere il modo migliore per esortare se stessi a cambiare senza cambiare nulla del mondo.
ERMENEUTICA
Come sarebbe stato bello, non credi?, iniziare fin da piccolo a recitare, apprendere insieme alle prime parole e i primi passi l’arte di usare il proprio corpo come se potesse essere una bussola per quelli degli altri. Invece di perdersi così tanto, troppo, dentro a tutte quelle pagine, a quegli strati di carta che pretendono di darti, ognuno, un’indicazione esatta: mappe contraddittorie per luoghi a volte inesistenti. Ora, ma è troppo tardi, se mi allontano dai libri, è per aggrapparmi con rispetto al bordo del palcoscenico: e osservo, applaudo, suggerisco. Ho tutta la vita ancora per perfezionare quest’arte, quella di guardare: non si tratta soltanto di puntare su un oggetto la mia lente fornita di pensieri. Il critico è uno che non fa, ma che guarda con tutto il corpo. Mentre preparo la recensione dell’ultimo spettacolo teatrale, non vedrai il grigio cipiglio di chi punta il dito sui tuoi sbagli, ma il sorriso e il polso fermo di chi sa d’essere tornato a casa.
FIORI DEL MALE
Il primo libro proibito che ho letto è stato I fiori del male, nell’edizione Bur vecchia e grigiastra. Nessuno mi aveva mai proibito quel libro, ma averlo visto sempre e solo in mano di adulti (avevo dodici anni) me lo ha subito acceso di riflessi sulfurei – la letteratura francese poi era in fondo all’ultimo corridoio della biblioteca, piuttosto in penombra. Lo leggevo capendo ben poco, nascondendolo alla bibliotecaria (e agli altri libri): nemmeno preso ufficialmente in prestito, ma sottratto dallo scaffale per una settimana. Insieme a Madame Bovary letto tre anni dopo (che noia quel bravo dottore fedele, evviva l’anatomia inversa di un cuore ribelle), I fiori del male mi hanno indicato quanta crudele precisione richieda la scelta della parola giusta, capace di dannare o salvare chi scrive o chi legge.
GRAFIA
Non ricordo come scrivevo da piccolo; ho smarrito tutti gli indizi possibili. Ricordo però quando ho deciso di cambiare grafia. Ho adottato uno stampato minuscolo talmente fitto e millimetrato da far impazzire i professori nelle correzioni, per cui venni invitato a scrivere “più grande”. È stata l’unica, breve e volontaria fase sadica della mia scrittura.
HOPPER
Nessuno sa dipingere il sole nudo:
lo si deve contornare di spiragli porte mani
per suggerire che la luce ha direzione
che il peso e il profilo di quello che è chiaro
sono scoperte di un istante a occhi aperti.
Vivrei sui tetti per non perdermi i tramonti.
Nei miei versi vorrei scrivere soltanto
un momento di una luce in un mattino:
si scoprono, fermi al suo apparire,
scoprono inizi più lunghi della fine.
IO
La cucina di casa, in un pomeriggio d’estate. Sono solo e guardo la televisione dove c’è un mostro viola con tante zampe che uccide tutti. Piango e scappo fuori. Cerco le mie sorelle nel giardino della vicina, ma il cancello è chiuso. Resto a piangere sotto il sole, poi torno indietro. Mia madre mi chiede se ho litigato con qualcuno o se mi sono fatto male. Io non rispondo. Mi sembra di non riuscire a dire – io. Dopo cena mio fratello ride quando gli spiego che ho paura di morire.
JEUX
Quando scrivo, copio. I taccuini “della realtà”, riempiti dagli sbadigli e dagli affanni del mondo, compilati con cura e rigore, rimangono lì, inerti; facce e frasi affascinanti catturate in strada si afflosciano una volta rientrato. Invece amo prendermi vicine le pagine di un libro sottratto alla polvere della biblioteca o all’usura di una bancarella; seguo la traccia stampata e replico con la mia voce quella storia. Da un romanzo psicologico, usurato, quasi appallottolato, ho ricavato ricette di amore; dagli aforismi di un filosofo, storie di animali parlanti. La parodia mi rende la gioia di avere una pelle sottile, sempre pronta a cambiarsi in piumaggio o squame. Mi basta creare uno scarto casuale tra poche parole per giustificare questo mio gesto del copiare: l’arte, più che il “nuovo”, è il “di nuovo”.
KOLIBRI
IL MIO STILE è accumulare speranza
una botta dentro che sposta e scalda
IL MIO STILE è vanga
(si scusa con i vermi e crede ai semi:
verranno dopo e ci sapranno fare)
è volare a bassa quota con affetto
per il sole alleggerito della terra
è usare le ali per alzarsi uniti
restare un colibrì nell’uragano.
LATTE
Prima del latte c’è la mamma, ma a volte si brucia tutto e allora c’è il fumo e la voglia di finestra. Poi vengono i biscotti, quelli che mi parlano li preferisco, hanno una bocca e potrebbero mordermi, hanno gambe e potrebbero salvarsi da me che li mangio, non sono indifesi come quei dischi rotondi e piatti.
Il latte per me è una festa dove io ci sono sempre.
Dopo il latte c’è la scuola, con l’autobus che mi aspetta se non l’aspetto io, ma si corre lo stesso perché i marciapiedi mi devono suonare sotto i piedi. E poi arriverò al banco e sarà l’inizio dell’abbuffata di tutto quel bianco che c’è nei quaderni. Scrivere è come il latte, ma senza prima e senza dopo.
MUSE
A me le muse mi sono venute addosso un pomeriggio d’estate – senza essere D’Annunzio, senza lauro o paradiso artificiale – mi sono venute addosso d’estate, stagione di visioni e svenimenti. Ero lì nel mio cortile, steso a leggere per la sola voglia che scorressero parole sotto gli occhi – il caldo, l’ora inutile senza compiti e senza giochi, vuota d’altri, senza nessuno a chiedermi “regalami una poesia”, erano passati già tre anni dai tempi della Rosa (vedi alla voce VOCABOLARIO): quell’ora così pesante che vuoi rimuoverla, o t’invade, panica – quell’ora che scoppia (o s’affloscia, o si spera) e appena la nuvola inattesa arriva e cade qualche goccia, ecco che vedo una musa – scrivimi, dice: associo le gocce comparse improvvise sui sassi all’inchiostro, al segno che lascia una traccia e tu devi guidare, così irrazionale questa associazione che poteva essere solo una visione, uno svenimento, un regalo piovuto dall’alto – o un po’ tutte e tre le cose insieme.
Allergici ai miti e agli dèi, chissà che pensate se parlo di muse. Eppure, quasi agìto, io non l’avevo ragionato, di mettere in fila quei segni-frasi, scritti per necessità di forma e suono. Da allora, alle parole dovute (compiti e temi, tesi, messaggi e consegne) si affiancano le parole gratuite e involontarie. Non è solo lo slancio dell’ispirazione: con quelle gocce di pioggia estiva (chiamalo temporale) il pensiero mi è sembrato innanzitutto ascolto, attesa di un messaggio dalla dubbia provenienza. Musa, nervi, dèi, inconscio, stomaco, ricordo: cosa fa nascere una parola, e poi un’altra? Aspettati che piova, anche se a volte l’afa è lunga.
NOTTE
La notte è la prova del nove per l’arte: solo se la creazione ti tiene in travaglio almeno una volta fino all’alba, solo se distogli l’orecchio dalle lancette e senti che l’anello che tu hai forgiato si infila nell’anulare della poesia: allora sì che ne vale la pena, dell’arte.
OFFERTORIO
A messa, al momento dell’offertorio, porto spesso all’altare come ostia personale la mia scrittura. L’idea di un racconto, la struttura di un libro possibile, un distico o un titolo: messe vicine alla croce o alla gran bella festa di Dio che perdona (questa è per me la messa), ecco che molte parole virano, cambiano colore – sbiadendo o schiarendo, secondo i casi. Come se il primo editor fosse il prete.
PENNA ROSSA
Con le bozze dei primi libri sembra di giocarsi tutto – il futuro, e pure il passato. Poi si acquista tranquillità, si capisce quanto sia divertente usare la penna rossa su se stessi, e ti accorgi di sorridere sempre di più mentre ti correggi.
QUASI FINALE
Se chiedono conto del perché si scrive, si tende a dire non “il primo…”, ma l’ultimo (lo scritto di recente pubblicato, l’ultima idea di un romanzo, il progetto ancora in corso) così che, quasi sempre, più che genesi sembra un testamento, la scrittura. Ecco: finito questo sillabario di prime volte sarebbe ora di mettermi a farne uno speculare sull’ultima poesia scritta, l’ultima musa incontrata, e così via. Avrebbe posto in un’altra rubrica, forse più elegiaca, più o meno funebre: La decomposizione dello scrittore.
RINGRAZIAMENTI SPARSI E PROVVISORI
Mia sorella – mi ha insegnato ad aprire un libro.
I miei genitori – mi hanno insegnato a chiudere un libro.
Pier Vittorio Tondelli – e il suo lascito: la letteratura non salva.
Giulio Mozzi – sì, la letteratura non salva sé stessi, ma può salvare gli altri.
Alcuni editori: per stampare non è indispensabile leggere.
Altri editori: ogni libro è incontro, e l’autore può starsene lì ben solido, come un ponte, o sparire dopo la sua funzione, come un punto di sutura (quelli riassorbili).
Claudio Longhi: una parola è sempre etica.
Morena Silingardi: il potere salvifico del comporre sonetti, l’entusiasmo nel leggere quel libro caleidoscopico che è la piazza.
La mia gatta – mi ha insegnato che ci si rilassa benissimo anche senza libri.
Il cane del vicino – svegliarsi tra latrati è meno dura se hai un libro a fianco.
SCRIVERE
La differenza tra scrivere pagine e scrivere un libro è che i pezzi scritti a un certo punto si mettono per bene insieme, tanto che stanno sempre e sempre meglio tra di loro. Stanno meglio al punto che chiacchierano, si correggono persino, evidenziando l’uno all’altro ripetizioni o falle. Come una festa, una festa organizzata a lungo e con parecchi sforzi, con ritagli di stoffe e di tempo; e poi devi impastare, pulire, allestire lucidare e illuminare, tutto per far stare bene l’ospite gradito, il lettore (ma anche per mettere in un angolo e angosciare l’ospite inattuale, perché non credo all’ecumenismo di un libro universale). Un libro non letto diventa così una festa disertata – pensate, lo scrittore lì nel mezzo del suo salone ad aspettare un cenno, uno qualsiasi: anche una porta sbattuta va bene piuttosto che il silenzio. Esagero in metafore, me ne rendo conto, ma è che sullo scrivere è più saggio suggerire che insegnare.
TEATRO
Se potessi scegliere dove nascere, vaglierei seriamente l’ipotesi del teatro: crescere poi sulle assi del palco, iniziando a gattonare, balbettare i primi nomi, tenere stretta una matita, compiendo infine quel passaggio fondamentale e irreparabile dal disegnare allo scrivere. Insieme al latte, afferrerei precocemente quando un dialogo si fa dialettico e, nella platea, l’arte durevole della riflessione senza specchio. Il dialogo: non è certo il fiore all’occhiello della giacca sgargiante e rattoppata che indossa la società contemporanea. Invocato nei dibattiti televisivi e smentito dal sovrapporsi delle voci, aggirato da una comunicazione infarcita di classificazioni aprioristiche e statistiche schiaccianti, si potrebbe provare a cercarlo in teatro. Intendiamoci: non è certo sempre e solo qui che possiamo riscoprirlo. Provate con i libri, con l’arte, con i vostri vicini di casa e – perché no – provate con il vostro cervello. Il teatro non è l’ultimo pusher di idee rimasto in circolazione, ma è pur sempre un possibile supporto (incarnato) per l’articolazione di un discorso. Ci sono alcuni, testardi, che le cose se le vogliono sentir dire da una bocca.
UCCELLO
“Una volta hai detto che la poesia è la parola. E lo sguardo? Non è poesia lo sguardo? Perché la natura ama nascondersi, e bisogna coglierla di sorpresa osservandola a lungo, appassionatamente. Lo sguardo è un’ala, la parola è l’altra ala di quell’impossibile uccello. Sguardo e parola, almeno, fanno il poeta. Ecco il tuo lavoro, l’ozio: devo guardare e poi devi aspettare l’avvento della parola.” (L. Cernuda).
VOCABOLARIO
È stata proprio lei, la Rosa, la compagna delle elementari più ribelle e sgangherata, è stata proprio lei la prima a chiedermi di scriverle una poesia. Dieci anni: quando scrivere equivaleva a sbrigare compiti, arriva lei, la Rosa: lei che abitava a cento metri da me, nei palazzoni popolari; proprio quella che faceva versi come un’ossessa e pestava i piedi davanti alla maestra; ancora lei, quella che prendevamo in giro per la precocità dello sviluppo. Arriva e chiede: mi scrivi una poesia e me la regali?
Io le dico sì – bambino beneducato bendisposto e benpensante – e mi metto all’opera. Mi aggrappo subito a lui, al mio primo compagno di creazione: il vocabolario. Perché per me poesia era parola strana sonante molto alta e ricercata: più ti allontanavi dalla chiacchiera corrente e più volava lontano il suono – trascurabile l’oggetto e l’argomento, l’importante era il vocabolo inusuale: e più era desueto, più era esatto. Scrivi la cosa più straordinaria. Più eccentrica. Remota. La parola – non era una sorella, ma una legione straniera.
Pieno di questa velleità verbosa (solo molto dopo ho letto Jean-Claude Tardif: “scrivere/ parole dal gusto di pane semplice”) produco una paginetta che ricopio accuratamente con inchiostri diversi e che regalo alla Rosa. Deve aver detto “che bella” anche senza leggerla – per l’aspetto di miniatura, al di là dei versi ridondanti. Mi ha detto, poi, che l’aveva incorniciata. Me l’immagino là, sul muro di casa sua, nel momento in cui anni dopo l’avrà staccata dicendosi – se pure ha detto qualcosa – “ma quanto ero scema”.
WOLFGANG
Il piccolo Mozart piangeva, nascosto. La madre lo trovò subito: s’era rifugiato sotto il clavicembalo.
“Amade’, che c’è?”
Subito dietro, la sorella: “Stavamo studiando le regole per chiudere una fuga, è scappato come un matto. Gli avevo solo detto…”
Il bambino non l’ascoltava: gli occhi e i pugni erano puntati verso l’alto: “Mamma, non è giusto! Perché la musica deve finire?”
XEROSI
Non si scrive bene che con gli occhi. Questo è il principale precetto estetico che ho imparato nel mio lavoro assistendo i malati di S.L.A, una malattia degenerativa che paralizza progressivamente tutti i muscoli del corpo – si arriva a non poter respirare da soli e l’ultimo movimento che resta è quello dei globi oculari. Allora, per comunicare, si spostano gli occhi – per dire sì, a destra, per il no, a sinistra – e si può scrivere su un apposito schermo che rileva i movimenti oculari. È uno scrivere lento, basato sul cercare lettere vagando nel campo-tastiera dello schermo e confermandole con un battito di ciglia. Qualcuno, con molta pazienza, costanza, e il supporto amorevole di chi è al fianco, scrive in questo modo la propria biografia. Un libro lento e paziente – mi ricorda, per contrasto e somiglianza, i diari gremiti di Bousquet dal suo lunghissimo letto di malattia – che dovrebbe essere letto nelle stesso modo: pagine trasformate in diapositive di poche righe proiettate sul soffitto della camera, una all’ora, finché l’occhio non accetta la sua responsabilità principale – perché non si scrive bene che con gli occhi.
YOU
Molti scrittori li ho incontrati come persone, prima che come autori, per rimandi casuali dalla cronaca o dalle loro biografie straripanti – anche se poi le vite di uomini non illustri restano sempre le più misteriose. Ad esempio, la dettatura commossa e patrizia di Amelia Rosselli: prima dei suoi versi, ho letto la notizia della sua morte. E così è stata per la maga Ortese – per l’appassionata Cvetaeva – per i riti fonici totali di Testori e per molti altri. Dopo averli letti, rimanevo con il senso di un compagno sempre a fianco che potevi richiamare in caso di bisogno, per suggerimenti o confessioni. Scrivevano “io” e dicevano “tu”. Dietro certe pagine, incontravi facce e voci: che fosse il rock tendente al sacro di Tondelli, il sortilegio lento e denso di Hermann Broch o la fanfara grottesca di Savinio. Erano corrispondenze (nel senso epistolare) nate e cresciute in quel condominio stravagante che è uno scaffale di biblioteca.
Z
Rifiuto questa lettera.
ALBA
Le 5.30, l’ora che mi alzo se ho il turno del mattino, ma se lavoro la notte è l’ora che m’allungo sulla sedia – gambe in cortile, testa nella porta per le possibili chiamate: l’ora che se posso dormo e intorno aprono i cancelli o accendono la moka. Alle 5.30 c’è chi non ha ancora fatto un sogno, c’è chi sta pisciando, chi apre gli occhi su una sbarra di metallo. Spero sempre che nessuno inizi a morire proprio all’alba – o che si sappia dopo, almeno. Qualcuno parla da solo mentre sogna di farsi la barba. Passano le suore qui vicino, due o tre alla volta, mai tutte insieme – le ultime si affrettano tenendo stretti i vestiti come se dentro ci fosse un bambino da non far cadere. Alle sei in punto le senti già al Magnificat. A quell’ora c’è gente che bestemmia solo perché è un giorno nuovo. A me l’orologio non fa paura – in ogni momento qualcuno fa quello che tu non fai.
Tag: Alberto Savinio, Amelia Rosselli, Charles Baudelaire, Claudio Longhi, Edward Hopper, Giovanni Testori, Gustave Flaubert, Hermann Broch, Jean-Claude Tardif, Joë Bousquet, Luis Cernuda, Marina Cvetaeva, Morena Silingardi, Pier Vittorio Tondelli, Stefano Serri, Wolfgang Mozart
25 settembre 2014 alle 07:02
una tras-formazione dello scrittore. bello il sillabario! e molto bello nel vocabolario: ‘La parola – non era una sorella, ma una legione straniera’. grazie. un buon giorno
25 settembre 2014 alle 07:15
Tutto bello e, consentimi il termine, fruibile! Insomma, arriva. Grazie e buon giorno.
25 settembre 2014 alle 07:52
“ Giovedì 25 settembre 2014 – Comincio a pensare che avesse ragione Vassalli: « 25 marzo 1992 – “ Piaccia o no il mondo in cui viviamo è migliore di quello delle epoche passate e noi, per giunta, abbiamo anche la fortuna di trovarci in una parte del mondo dove il miglioramento dell’animale-uomo è in atto. “ (Dice Sebastiano Vassalli) » “. [*]
[*] La s-formazione dello scrittore / 11.
25 settembre 2014 alle 08:03
Stefano Serri è un mio carissimo amico, lo dichiaro in partenza perché è una ricchezza di cui vado molto fiera. È molto più giovane di me, ma gli chiedo spesso di accudirmi intellettualmente, perché ha un animo generoso capace di attivare le mie risorse migliori. Rubiamo al tempo il piacere di stare insieme, parlando fittissimo, spesso di libri, cinema o teatro, ma sempre di noi attraverso quelli. Leggere questo suo sillabario mi commuove nel senso etimologico del termine, perché mi restituisce parti di lui che io so intime. Stefano ha secondo me grande talento e una riservatezza innata, signorile: quando mi parla di sé con la franchezza di cui anche è capace io mi sento destinataria di un dono. Ha la qualità rara di essere persona affidabile, la passione intellettuale non gli ha fatto perdere il contatto con la realtà quotidiana e i bisogni delle persone.
Sono certa che anche altri, leggendo questo sillabario, o le sue poesie e i suoi libri, sapranno riconoscerne il valore.
Ringrazio moltissimo Giulio Mozzi per questa sua iniziativa: io sono persona romantica e cagionevole, trovare Stefano su Vibrisse ha per me l’effetto benefico di una medicina.
25 settembre 2014 alle 08:20
OT ciao morena, è bello ritrovarti! 🙂
25 settembre 2014 alle 10:12
Sarà che conosco quel mestiere. Sarà che le prime luci del giorno portano spesso delle rivelazioni. Sarà che non possiamo farci niente. Ma in “Alba” trovo verità e “poesia”.
Complimenti.
25 settembre 2014 alle 13:07
Quante cose avevo avvertito in te, Stefano, anche se non ti ho mai capito bene…
25 settembre 2014 alle 13:39
Più leggo di questi autori e delle loro formazioni più mi accorgo di quanto il percorso sia fortunoso ma anche coraggioso, disinteressato e faticoso, e più ancora di quanto talento necessiti la scrittura.
25 settembre 2014 alle 13:55
Questa non è un’intervista: è un brevissimo e bellissimo romanzo di formazione.
25 settembre 2014 alle 14:50
ho trovato molta poesia e molta sensibilità in questa “formazione”, più di quanta l’autore voglia esternare. Alba è una tranche de vie così realistica e allo stesso tempo così emozionante che tocca il cuore.grazie Stefano
25 settembre 2014 alle 18:31
Grazie a tutti, conoscenti o meno, per i commenti, e grazie a Giulio per avermi chiesto di partecipare a queste formazioni.
25 settembre 2014 alle 20:34
Stefano, aspettati che piova! Ma che bella cosa!
26 settembre 2014 alle 12:14
“ 11 giugno 1994 – Per pagare l’assicurazione della macchina, per rinnovare l’abbonamento alla televisione, per andare qualche volta al ristorante cinese e qualche altra al cinema, per vestirmi, per farmi i capelli, per comprare le sigarette, per pagare le spese condominiali, per acquistare purtroppo sempre il giornale e quasi mai libri nel senso di libri nuovi, per guadagnarmi la vita, ammesso che sia vita, insomma, io lavoro in un luogo che è un luogo di culto. Più che una cattedrale con lo sfarzo degli altari, l’opulenza dei paramenti, la magnificenza delle cerimonie, è una chiesona sgangherata e piena di gente: un luogo di modesto popolaresco culto. I fedeli – a che cosa? – sono per lo più giovanotti e giovanotte in tutto e per tutto identici a quelli dei concerti rock o della pubblicità del cornetto Algida, camminano, confabulano, si sbaciucchiano negli angoli e non solo negli angoli. Il fatto che siano là dentro ci fa capire che, come quasi tutti i giovanotti e le giovanotte, sono, come si dice, studenti. Che siano studenti lo si vede anche dal fatto che fanno le fotocopie, a migliaia, a miliardi. Nel luogo di culto dove lavoro si onorano alcuni milioni di strani feticci di un culto del secolo scorso: i libri. Si onorano senza scaldarsi troppo. Si spera che, in futuro, meglio poi che prima, facciano qualche miracolo. Per esempio: diano da mangiare. A me – che non mi lamento – lo danno già. Un pochino, ogni giorno, come nel secolo scorso. “.
26 settembre 2014 alle 12:22
P.s. Naturalmente era La s-formazione dello scrittore / 12
26 settembre 2014 alle 17:26
@Patrizia:Piove anche con il sole!
@ acabarra59. Bella, davvero molto bella l’immagine del tempio-bibliomondo e quel che ne consegue o ne precede. A me i libri non danno da mangiare, e nemmeno io mi lamento (mangio lo stesso ogni giorno, non vi preoccupate).
26 settembre 2014 alle 17:40
“ Torino, ottobre 1973 – Alla biblioteca si verificano numerosi lapsus (cosiddetti freudiani, cioè interpretabili maliziosamente). La signorina Fazzi, megera, maligna, viene chiamata « Faussi » (in torinese « faus » vuol dire « falso », p. e.: « Dio faus! », vulgo « Dio fa! »). Il dottor Selvaggi, poeta paranoico e terrone, detestato dall’establishment autoctono, viene chiamato « Servaggi ». No comment. “. [*]
[*] La s-formazione dello scrittore / 13
P.s. Caro Stefano Serri, casomai volessi leggermi – peggio per te -, puoi farlo digitando ” Diario romano / Stupidità “. Mi accontento di poco: mi bastano 2,5 lettori. Ma forse è meglio che io legga te.
26 settembre 2014 alle 17:56
Caro acabarra59 mi autodenuncio pubblicamente come primate della letteratura contemporanea: la forma-blog non è il mio forte, pur se vi sono ospitato in questo momento. Non sputo nel piatto in cui mangio (mangio lo stesso ogni giorno, non vi preoccupate): ammetto soltanto una mia abitudine di consumo. Leggerò dal tuo blog, anche se la fedeltà quotidiana (caratteristica base per un blog) non mi contraddistingue. E la cosa migliore (e rara) e leggersi, reciprocamente.
18 novembre 2014 alle 09:28
Ho letto con piacere vivissimo. Complimenti davvero a Stefano di cui approfondiró la lettura e, fai bene Morena, ad essere fiera dell’amicizia di persone come lui. Christian
20 novembre 2014 alle 14:41
Grazie Christian!
23 febbraio 2015 alle 21:51
[…] di Stefano Serri […]
5 aprile 2015 alle 23:37
[…] Per capire che cosa e perché scrive: https://vibrisse.wordpress.com/2014/09/25/la-formazione-dello-scrittore-14-stefano-serri/ […]
23 ottobre 2015 alle 15:47
[…] Per capire che cosa e perché scrive clicca qui. […]