di Luigi Preziosi
Con il romanzo Roderick Duddle (Einaudi, 2014, ampiamente e positivamente recensito, anche in rete: vedi, tra gli altri, almeno qui, qui, qui, e qui), Michele Mari è entrato nella cinquina del Premio Campiello 2014.
La storia è tanto lineare nello sviluppo generale, quanto complessa nella scansione degli episodi. Roderick è un bambino di dieci anni cresciuto in una locanda malfamata del paese di Castlerough, frequentata da marinai, carrettieri, vagabondi ed avventurieri di tutte le risme. Alla morte della mamma, il ragazzino scappa dall’osteria e dalle angherie del suo padrone, il signor Jones. Porta con sé solo un medaglione, ricordo della madre, per il possesso del quale si scatenerà la caccia di una serie eterogenea di personaggi, perché prova della sua condizione di ultimo erede illegittimo della ricca e nobile famiglia Pemberton. Sulle sue tracce si pongono in tanti, dallo stesso Jones, che assolda due grassatori di strada, alla potente ed equivoca madre Badessa del locale convento che, coadiuvata da suor Allison, la cui enigmaticità nasconde una segreta condizione di ermafrodito, incarica della caccia un misterioso e terribile sicario dal beffardo soprannome di Probo. Roderick, intanto, trova un primo e precario rifugio presso un vecchio pescatore, che prima di soccombere tenterà più di una volta, nel corso dell’intricata vicenda, di aiutare il bambino.
Svariati tentativi per mettere le mani sul tesoro dei Pemberton vengono posti in atto dalla madre Badessa, a cui si affiancano e si contrappongono altre figure non proprio limpide, come l’avvocato di famiglia Peabody: non ultimo quello di spacciare per Roderick uno dei tanti orfanelli ospiti del convento, il sordomuto Michael. Mentre il fascino ambiguo di suor Allison inizia ad ammaliare alcuni dei personaggi maschili (primo fra tutti Jones) si presentano sulla scena un giovane usurpatore, che si installa nella magione avita, ed altre figure, tra cui il poliziotto Havelock e Jenny la Rossa, prostituta al soldo di Jones. Per sfuggire al Probo, che implacabile continua nell’ombra il suo mestiere di assassino, e dopo essere a stento sopravvissuto ad un poco elegante tentativo di omicidio messo in opera direttamente da suor Allison, Roderick trova rifugio sul Rebecca, al comando del capitano McLynn. Ulteriori avventure lo attendono, navigando nell’Atlantico, tra cui, in piena osservanza della tradizione letteraria marinaresca, una tempesta ed un ammutinamento. Quando infine Roderick rientrerà a Castlerough, dopo una ulteriore serie di colpi di scena, la verità trionferà. Insieme ad essa, si affermerà anche quel po’ di giustizia che è possibile in un universo permeato dal caos che la finzione romanzesca di Mari rappresenta, senza peraltro sciogliere del tutto il dubbio che si tratti in realtà di un’allusione al mondo in cui viviamo, implicita nello scambio spazio – temporale tra il protagonista e il suo autore che anima sia le prime sia le ultime pagine del libro.
Roderick Duddle: ovvero l’avventura. L’avventura senza limiti, sovrabbondante di vicende, eccessiva nei sentimenti che suscita, libera nello sfrenarsi della fantasia e credibile perfino (e soprattutto) nelle sue inverosimiglianze, e che appunto perciò ti coinvolge come nessun altro genere. E la dismisura dell‘avventura, che, per quanta sagacia di lettore tu supponga di aver accumulato nell’età adulta, riesce a sommergerti e a farti dimenticare te stesso. Se è vero, come scrive Emanuele Trevi in Istruzioni per l’uso del lupo, che “i libri si leggono con la saggezza o con il batticuore”, Roderick Duddle appartiene incontrovertibilmente alla seconda categoria. Le avventure di Roderick non derivano da esperienze o da memorie dirette, individuali o collettive che siano, e questo, per inciso, segna la distanza siderale del libro di Mari rispetto ad un altro tra i più importanti romanzi dell’annata letteraria, Il desiderio di essere come tutti di Francesco Piccolo, vincitore del Premio Strega 2014, che vive invece sul racconto della personale esperienza di crescita umana e politica del suo autore. E’ possibile che questa contrapposizione non sia casuale, ma rappresenti plasticamente la condizione attuale (e magari quella del prossimo futuro) della nostra narrativa.
Del romanzo d’avventura Roderick Duddle, del resto, pare raccogliere come in un catalogo gran parte dei topoi più significativi, a cominciare dalla struttura, plasmata sulle modalità di ripartizione della narrazione tipica dei romanzi d’appendice a puntate, dove ogni accorgimento era buono per tenere desto l’interesse, con una scansione su capitoli molto brevi, chiusi su colpi di scena o su interruzioni inaspettate. Il campionario comprende anche agnizioni varie, orfani perseguitati, tesori da far pervenire nelle mani di chi ne ha diritto, navigazioni oceaniche, ammutinamenti, trame ed intrecci malvagi complessi ed apparentemente destinati ad esito positivo, opportunità di crescita interiore per il protagonista, imposta dal tumultuoso susseguirsi delle vicende accadute, e vittoria finale, ma in modo inaspettato, del bene.
Un altro indizio per l’ascrizione del romanzo al genere è la presenza del doppio (già il romanzo d’esordio dell’autore, Di bestia in bestia, era giocato su questo tema): ovviamente Roderick – Michael, ma anche Jones, doppio in quanto irrimediabilmente delinquente e irrimediabilmente perverso, e quindi, per i paradigmi del genere, simbolo di malvagità irrecuperabile, e tuttavia capace di qualche sporadico momento di riscatto, ed ancora suor Allison, doppia per natura. Si può azzardare anche un doppio ipotetico, suor Allison e Probo, congruenti nell’anormalità e nella fascinazione del male. Lo stesso Probo, nei suoi accessi di sofferenza, non custodisce forse il senso della separatezza da se stesso che il male provoca in ognuno (un po’come il suo lontano cugino Hyde, avvolto, al manifestarsi della sua natura malvagia, nelle spire di dolorose metamorfosi)? E poi, ultimo ma non ultimo, il doppio più originale e più problematico: Michele Mari – Roderick. Il narratore si scambia di posto con il protagonista, ovvero vi aspira, non potendolo, con tutti gli spunti che ne potranno derivare per esemplari indagini narratologiche al testo, e, soprattutto, per ciò che qui più preme, dimostrando per via indiretta l’effetto straniante dell’avventura, testato su se stesso dall’autore e quindi testimoniato con dovizia di particolare ai lettori.
Anche la mostruosità delle forme umane come elemento non certo accessorio di narrazione, anzi come motore di alcuni suoi sviluppi, è richiamo indiretto al romanzo d’avventura. E mentre nella teratologia del genere la deformità di suor Allison risulta piuttosto rara, Probo pare alludere al Merrick del film The Elephant man (1980) di David Lynch, i cui fondali sono poggiati su un’Inghilterra più caratterizzata storicamente di quella di Mari, ma comunque anch’essa ampiamente disponibile all’inconsueto e allo straordinario. Mari introduce anche qualche leggera diversione rispetto ai codici consolidati del genere, come la mancanza di un vero eroe positivo adulto a cui affidare il definitivo dénouement della vicenda (potrebbe esserlo il pescatore, ma la purezza delle intenzioni non basta a salvarlo), o anche il ricorso a materiale narrativo non propriamente fruibile da lettori di ogni età.
Quanto alla macchina narrativa (elemento fondamentale in questo genere letterario), gli ingranaggi della trama oliati a dovere scattano con impeccabile precisione, e la storia procede con una speditezza che non denuncia mai momenti di fatica. Dietro al nitore della prosa di Mari, di estremo rigore formale anche nell’applicazione dei diversi stilemi propri del genere letterario, si intuisce d’altra parte un ingente lavorio di semplificazione operato su una materia lungamente accumulata ed intensamente meditata: per questo, si veda, ad esempio, in Tu sanguinosa infanzia (uscito per la prima volta nel 1997) il racconto Otto scrittori, dove compaiono come personaggi appunto alcuni dei grandi autori della narrativa d’avventura, delle cui opere si possono cogliere echi in Roderick Duddle.
Uno studiato anacronismo sia stilistico sia tematico presidia l’intero impianto narrativo del romanzo: l’impressione è di leggere qualcosa che in maniera imperfetta si intuisce di conoscere già, come in un lontano ricordo. L’apparente mancanza di originalità non tragga in inganno, il calco sugli elementi caratteristici del romanzo d’avventura, prevalentemente ottocentesco e di area angloamericana, come lo stesso Mari attesta in una interessante intervista qui, è raffinatissimo e supera la mera riproposizione di modi già ampiamente conosciuti. Nulla vi è di ingenuo o di poco consapevole, lo sviluppo narrativo è caratterizzato da una straordinaria cultura letteraria sia nei rimandi puntuali sia nell’effetto complessivo di riesumazione di una scrittura fuori dal nostro tempo, e, tutto sommato, ben poco presente nella nostra tradizione: un libro scritto su altri libri. Anche la stessa incompiutezza nello scavo dei personaggi rientra nella sfida di scrivere narrativa oggi seguendo modelli del romanzo popolare sette ottocentesco, utilizzando ampiamente, per contro, sentenziosi appelli al lettore, ammiccamenti e riassunti di vicende precedenti, considerazioni moraleggianti, riferimenti esterni al racconto (alcuni dei quali fittizi, come la mappa, o le curiose note di un fantomatico traduttore). Proprio per il confronto con l’inattualità che lo caratterizza, il romanzo di Mari è allora una sorprendente dimostrazione di fede nella narrativa, attestata attraversando il territorio impervio, rispetto al nostro tempo e alle storie a cui siamo avvezzi, dell’avventura. E’ soprattutto, se mai occorresse un’ulteriore conferma della potenza dell’ars narrandi, la testimonianza che la letteratura può bastare a se stessa, e non ha bisogno di attingere altrove le ragioni che la rendono necessaria.
16 settembre 2014 alle 09:04
Quale non è stata la mia soddisfazione, o miei neghittosi lettori [direbbe l’io narrante di RD], nel conoscere di persona, il 27 luglio scorso all’hotel Hungaria, proprio qui al Lido di Venezia, il miglior scrittore italiano vivente? Mi ha pure autografato il libro. Qualche tempo dopo, assistendo, sempre al Lido di Venezia, alla proiezione del film di Martone su Leopardi, mi sono detto: “Ma perché ‘sto babbeo, anziché appoggiarsi al libercolo di Ranieri [“Dieci anni di sodalizio con Giacomo Leopardi”, n.d.r.], non si è basato sul capolavoro assoluto di Michele Mari “Io venìa pien d’angoscia a rimirarti”?
16 settembre 2014 alle 09:22
“ 19 marzo 1984 – « Il dinosauro, che dormicchiava al museo, si sentì vellicar la groppa da zampini di lucertola, sendoché di un osso in altro quella vi andava scintillando a diporto, nell’esercizio mattutino. Disse: “ Oggi a me, domani a te “. Questa favoletta ne adduce: che i piccoli vivi amano rampicare i grandi morti. » (Carlo Emilio Gadda, Il primo libro delle favole, 1952) “.
16 settembre 2014 alle 10:36
Perché, Lucio, immagino, la scrittura di Michele Mari non è trasponibile in un film.
16 settembre 2014 alle 11:08
In compenso ho trovato estremamente leopardiano il film “NEAR DEATH EXPERIENCE” (sempre qui alla Mostra del Cinema) con protagonista assoluto lo scrittore Michel Houellebecq.
16 settembre 2014 alle 16:12
“ 27 dicembre 1986 – La nausea è un romanzo di avventura? « Questi quaderni sono stati trovati fra le carte di Antoine Roquentin… ». Tutti i romanzi sono di avventura? “.
16 settembre 2014 alle 18:44
Questa estate mi ero dato un compito: conoscere la letteratura, le opere di Mari. Ho iniziato con “Verderame”. Avevo sotto mano anche una raccolta di racconti, “Tu, sanguinosa infanzia”. L’avevo già compulsato e il mio “orecchio” aveva sentito un rumore falso. Ma “Verderame” mi ha allontanato dalla “voce” di Mari. Ho chiuso il romanzo, con un senso di fastidio (e anche con difficoltà: “non voglio” non finire il libro, in genere…). Fastidio per la maniera stilistica (per il manierismo), fastidio per il gusto ottocentesco del feuilletton. Cerco di recuperare le mie sensazioni e sono queste: una maschera dietro la quale si ascoltava un vuoto, un’aridità di fondo, una tetra serietà. Il rapporto tra il supponente ragazzino e il proletario che perde la memoria mi dava giusta la sensazione della supponenza dell’autore, gran conoscitore di lingua, uomo non colto ma coltissimo, ma povero di calore e di intensità narrativa (e sentimentale: dov’è dunque in quello che leggo il “tuo” volto?). Letteratura = maschera, = letterarietà. No, mi dicevo leggendo “Verderame”, no, non è questo che cerco, dalla letteratura, scendo. Posso aver sbagliato il “primo passo” con Mari, a volte succede. E questo “Roderick” può essere tutt’altro. Purtroppo però la prima impressione è stata… fatale…
16 settembre 2014 alle 19:10
(Il fatto, secondo me, e vale per i giganti come per i nani – è che la lingua può attingere alla letteratura, mentre il coraggio no.)
16 settembre 2014 alle 19:36
Ho letto tempo fa Fantasmagonia. Ci stavo pensando. Condivido quanto scrive enrico ernst anche se lui fa riferimento ad altri titoli.
16 settembre 2014 alle 19:41
“ 26 marzo 1985 – Letteratura come scarpe. Quel modello quell’altro. Va non va. Le grandi aziende. Le piccole aziende. Dal produttore al consumatore. Le vendite per corrispondenza. Il prêt-a-porter. Le sfilate. Primavera-estate, autunno-inverno. L’usato. “.
16 settembre 2014 alle 19:55
Concordo con Lucio. Michele Mari è il più grande scrittore italiano vivente, l’unico (per un’alternativa devo studiarci parecchio sopra) che non mi annoia e non mi delude.
16 settembre 2014 alle 20:13
Per Acabarra e a proposito delle recensioni e della critica.
Scrissi ‘sta subspecie di apologo qui, discutendo con l’autore dell’articolo. Un po’ si capisce anche fuori del contesto.
Piedi e scarpe
S’immagini una Repubblica, in qualche parte del mondo, isolata e completamente autonoma. All’interno delle mura alte alte, c’è tutto e si provvede a tutto, agricoltura allevamento manifattura terziario. Con l’esclusione di una sola cosa, le scarpe. Per qualche motivo, è illecito se non persino impossibile realizzare le scarpe. Le scarpe sono gli unici oggetti che, di tanto in tanto, vengono fatti passare su carri grandissimi attraverso la sola porta, da cui nessuno mai entra, né esce. Ed ecco il ruolo dei selezionatori di scarpe. Queste persone sono prima di tutto dei grandi camminatori e di conseguenza hanno sviluppato nella regione del piede un’enorme sensibilità. Sono loro che, ognuno secondo la propria autorità, danno disposizioni su quali scarpe tenere, perché vengano poi fatte circolare tra i camminatori di questa strana Repubblica. Ora, la gran parte dei selezionatori di scarpe considera il proprio piede la misura di tutto. Provano la scarpa: troppo stretta, troppo larga, troppo a punta? E la scarpa via. Le scarpe invece che calzano benissimo e si adattano perfettamente al loro cammino, le raccomandano le benedicono. Ora, ci saranno dei cittadini di questa Repubblica perfettamente in sintonia, pedestre, per così dire, con le scelte dei selezionatori. D’altra parte ciascuno ha il diritto di seguire il selezionatore più a propria misura. La stragrande maggioranza dei camminatori sarà rappresentata, nei piedi, da questi selezionatori. Ci saranno senz’altro tuttavia dei camminatori che, per differenza pedestre, avranno enormi difficoltà e scomodità colle scarpe che passa il convento, cioè l’elite dei selezionatori. Diranno che i selezionatori proprio non sanno camminare, no. Che sono in malafede. E le scarpe non le provano certo con imparzialità. Magari si rivolgeranno a quei selezionatori, pochi, che non considerano il proprio piede la misura universale…
16 settembre 2014 alle 20:51
” 30 dicembre 1993 – Per anni ho portato le scarpe strette. Amavo sentirmi i piedi fasciati ermeticamente, protetti da ogni rischio di restare scalzo. Camminavo molto, spesso correvo. Le scarpe-corazza mi erano indispensabili in questa lotta continua con i marciapede, gli asfalti, gli sterri, le sabbie del mondo. E intanto il mio amico insisteva a portare i mocassini. Come il babbo. Tutt’altro tipo di scarpe, scarpe comode, scarpe pantofole, scarpe felpate, silenziose, misteriose. Un po’ ipocrite. Da indiano. Come il babbo. (Si è messa il rossetto. È uscita dal bagno e aveva le labbra color arancio. Una vistosa macchia sul volto bianchissimo. Aveva un’aria puerilmente spavalda. È andata da lui) Camminavo anzi marciavo. Scalpicciatore (scemo?) attraversavo città, paesi, autostrade, sentieri come sospinto da un dio-lo-vuole inderogabile. Andavo, per non stare. Poi ho capito: scappavo.
Il babbo è un uomo gentile. Gentile e profumato. Lo immagino sempre nel bagno intento alle sue abluzioni interminabili e sonore. Faceva rumore, lo faceva intenzionalmente, sciacquandosi la faccia. Gli piaceva mettere in musica gli scrosci d’acqua, farsi sentire da tutti, celebrare il mattino. Ricordo i suoi capelli bagnati e lucidi. Risento il profumo intenso del suo dopobarba. Io odoravo, con un pochino di paura.
Però gli puzzavano i piedi. Anche questo lo ricordo bene. A me, invece, non puzzano. I miei bei piedi lunghi e magri. Nervosi. Eleganti. Vado molto fiero dei miei piedi. Piedi inquieti, pericolosi. Forse per questo li tenevo sigillati. Oppure nudi. Il mocassino cos’è, dopotutto? Una scarpa comoda. Io non amavo le comodità. Volevo le avventure. Volevo l’avventura.
Sono passati tanti anni. Il babbo non c’è più. Ho cominciato a portare i mocassini. Non cammino più tanto. Ho quasi cinquant’anni. E i piedi, qualche volta, puzzano anche a me.
(Credevo che tornasse, ne ero quasi sicuro. E invece, no. Se n’è andata e basta. Felice e dipinta) (Per me, poteva anche restare)
“.
16 settembre 2014 alle 21:38
raffinatezza, studiato anacronismo, “nulla vi è di ingenuo” (Preziosi)… che malinconica razionalità… davvero il migliore autore italiano vivente? nel suo museo delle cere? e fuori?
17 settembre 2014 alle 08:18
“…il miglior scrittore italiano vivente…”
“…Michele Mari è il più grande scrittore italiano vivente, l’unico…”
Se vi becca Busi siete fatti!
17 settembre 2014 alle 08:25
“ 28 marzo 1986 – Aldo Busi, Vita standard di un venditore provvisorio di collants, Mondadori, 1985. A. B. è molto preoccupato dell’espressività del lessico. Nonché della sintassi. Lui punta tutto sul « barocco » (vulgo: intorcinato) nella scrittura. Fa come i giornalisti la parodia dei titoli. Nasconde nei nomi dei personaggi l’immagine dei medesimi con una delicatezza da post-disneyano. Hemingueismo degli stenterelli. Uno stile faticoso: si sente che fa una gran fatica. Il lettore è disposto a fare altrettanto? Scrive: « deja vue ». E non è un refuso. È un trentenne. “.
17 settembre 2014 alle 08:42
nel museo delle cere! proprio ben detto enrico ernst
17 settembre 2014 alle 09:35
Un saggio qui.
17 settembre 2014 alle 09:47
eh, già, Robysan, mi veniva proprio da riflettere sull’espressione “più grande scrittore (italiano) vivente”. Intendo proprio dire sul punto di vista di chi elegge il Re (delle Lettere – Italiane). Busi si era autoeletto se non sbaglio (la fiaba di Biancaneve; narcisismo? Col che io – che un poco ho letto Busi – direi: narcisismo ferito). C’è – forse, in fondo, dall’altra parte – un’idea “quantitativa”: più copie vendute, in classifica da tot settimane ecc. Ma anche un desiderio di “elezione” di tono più precisamente affettivo (“non mi ha mai deluso” dice Carla)… e infine una sorta di “respiro” soddisfatto che mette a posto la molteplicità (su un’immaginaria scala gerarchica): ah, ecco chi è il più grande scrittore italiano vivente! Oh! E almeno questa è fatta!
17 settembre 2014 alle 12:31
Il più grande scrittore italiano vivente non c’è, perché – tolta l’autopromozione à la Busi – quella del più grande scrittore italiano vivente è una favola inventata da chi si crede il più grande lettore italiano vivente. I più grandi lettori italiani viventi si scontrano spesso, per decidere con la grazia delle armi il nome del più grande scrittore italiano vivente.
17 settembre 2014 alle 13:59
Il più grande scrittore italiano è sicuramente svizzero. Della Svizzera inglese.
17 settembre 2014 alle 14:10
“ 24 luglio 2004 – Ho capito di essere convinto di essere il più grande scrittore [*] sopravvivente. “.
[*] Italiano? Toscano? Anziano?
17 settembre 2014 alle 14:34
bravo acabarra59. L’hai capito, finalmente! anche se – mi sa – con imperdonabile ritardo! Però come si dice meglio tardi che mais.
17 settembre 2014 alle 14:35
A parte la questione del più grande scrittore italiano, la recensione di Preziosi potrebbe farci pensare invece a cosa sia e debba essere oggi una letteratura all’ altezza dei tempi. Se come sembra voglia dirci Preziosi la magnifica alternativa è tra l’artificio di Mari e il buonismo piccolo borghese dell’aspirazione a essere come tutti di Piccolo, allora siamo messi un po’ male.
17 settembre 2014 alle 14:42
“ 30 dicembre 1990 – La letteratura non è alla bassezza dei tempi. “.
17 settembre 2014 alle 15:20
comunque, per esempio, per Andrea Tarabbia uno dei più grandi scrittori italiani è Filippo Tuena (qualcuno sa chi è? Chi è Tarabbia invece lo so)
17 settembre 2014 alle 20:22
Beh, per ME è il più grande (e non solo per me, a quanto pare). Perché non dovrei fare una mia personale classifica? Michele Mari di certo non mi fa fare brutta figura, se sono categorica con le mie affermazioni. E poi non ho alcuna intenzione di leggere tutti gli scrittori italiani viventi per scoprire se si ribalta la pole position! 🙂
17 settembre 2014 alle 20:29
Su altri lidi vanno Moresco e Siti, siamo quindi già a quattro.
18 settembre 2014 alle 00:55
@ Cristian
Se riesco a stimolare le riflessioni a cui accenni nella prima frase del tuo intervento, sono contento.
Sì, Cristian, intendo qualcosa di simile, ma senza connotazioni negative (non so, davvero, se siamo messi così male…) .
Ho solo cercato di evidenziare che nel giro di pochi mesi sono venuti alla ribalta dei premi letterari più noti due libri dalle caratteristiche antitetiche, per quanto attiene ovviamente a quelle che una volta si sarebbero dette le fonti di ispirazione. Riassumerei molto grossolanamente così: prevalenza dell’ immaginazione (con tutti i limiti dei calchi sulla narrativa avventuroso – ottocentesca di cui s’è detto anche in questo dibattito) contrapposta a prevalenza dell’esperienza personale.
@ enrico ernst
Ciò che tento di mettere maggiormente in luce del romanzo di Mari
è che, secondo me, è riuscito a dimostrare il potere della narrazione: appunto, “la letteratura può bastare a se stessa, e non ha bisogno di attingere altrove le ragioni che la rendono necessaria.” Il che è una notazione positiva, ma non significa ovviamente che Mari sia il migliore scrittore italiano vivente, nè che nei suoi libri (direi forse più nei primi, non tanto in Roderick Duddle) non siano presenti quelle manchevolezze (manierismi, freddezze…) che segnali nel tuo primo intervento.
18 settembre 2014 alle 05:55
Confesso che ho una certa allergia per le classifiche, soprattutto per l’uso estremo delle classifiche. A me pare che Michele Mari e Filippo Tuena siano due scrittori notevolissimi; posso anche dire, per scherzo, e solo per significare la mia eventuale adesione sentimentale al loro immaginario ecc., che l’uno o l’altro (o magari tutt’e due) è “il più grande scrittore italiano”; ma non andrei oltre. Comunque facciamo così: stasera chiedo a Mari (saremo sullo stesso palco, a Pordenone) se davvero è lui il più grande scrittore italiano: e così chiudiamo la questione.
La contrapposizione che Luigi ha suggerita, e Cristian ha riproposta con un po’ di brutalità semplificatoria, mi sembra un argomento più interessante. Direi così: è possibile (e, aggiungo: a prescindere dai giudizi di valore, prendendo eventualmente per buono il fatto che certi autori riscuotono una certa stima e/o un certo successo) disegnare una sorta di mappa degli immaginari narrativi esistenti?
(Dico “a prescindere dai giudizi di valore” anche perché, ad esempio, l’immaginario presente nelle opere di Francesco Piccolo o di Andrea Bajani mi è così estraneo che i loro libri quasi mi ripugnano: ma non si deve confondere un’estraneità con un giudizio; su Piccolo e Bajani un giudizio proprio non so darlo, ecc.).
18 settembre 2014 alle 11:23
gentile Luigi – vedi: questo forse (al di là di Mari, e di “Roderick”) è interessante: secondo la mia personale sensibilità, proprio quella frase realtiva alla “letteratura che basta a se stessa”, mi viene da capovolgerla in “negativo”: cioè una letteratura che basta a se stessa – in una parola, un po’ grossolanamente, “si nutre di se stessa”, “letteratura di letteratura” – è arida, epigonale, “foglia secca” (mi sembra che si possa accartocciare, e spegnere). Mi piacerebbe però tanto discutere di questa cosa. Cioè cosa precisamente vuol dire “la letteratura che basta a se stessa e che non attinge ad altro ecc.”? Magari si possono fare degli esempi, e discuterne.
Chiudo dicendo che anche a me una “cartografia degli immaginari esistenti” oggi in Italia mi parrebbe divertente e interessante, di qualche utilità persino. (Devo dire che né Mari né Piccolo incontrano la mia sensibilità di lettore: non mi danno piacere, e mi paiono su “binari morti” per così dire; anche la Sarchi, che ho letto questa estate, mi pare su una linea di “letterarietà” che non mi ha “incontrato”,e addirittura mi ha sorpreso notare – in un romanzo di “voci” – una difficoltà a “vivere i personaggi dall’interno”; mentre ho trovato generosa e davvero stimolante l’opera prima di Montemurro, per restare a delle “presenze” vicine a Vibrisse).
18 settembre 2014 alle 11:30
@ Giulio: misteriosissima per me risulta la tua “sintonia” con Mari, perché il tuo modo di concepire la letteratura e il linguaggio mi paiono anni luce distanti dal suo: per semplificare: quando ti leggo, sei vicino, vivo, prendi il treno, il bus, pesti le strade che pesto ecc. quando leggo Mari al contrario vengo trasportato in un luogo algido, tutto letterario, ipercolto, tutto strizzatine d’occhio ecc. E questo davero al di là del giudizio di valore.
19 settembre 2014 alle 00:50
@ ernst
sì, Enrico, ci ho pensato un po’: mi pare che in fondo stiamo guardando da punti opposti lo stesso panorama. Cerco di rispondere e ringrazio per l’attenzione con cui mi hai letto.
Se per “letteratura che basta a se stessa” intendiamo “un po’ grossolanamente, che “si nutre di se stessa”, “letteratura di letteratura”, sono d’accordo nel rilevarne il rischio di aridità o di freddezza, di povertà di calore e di calo di intensità narrativa di cui parli a proposito anche di altre opere di Mari. Tra l’altro una concezione della letteratura di questo genere (molto alla grossa, possiamo dire: molta letterarietà poca vita?), mi interessa assai poco.
Io però intendevo evidenziare come positivo il fatto che in “Roderick” (devo tornarci per forza, perché è su di lui che ho azzardato il discorso) Mari si si sia dimostrato un narratore di razza, proprio perché ha “prodotto” una narrazione ben costruita, leggibile, avvincente (forse per chi, come me, si lascia trasportare dai ricordi), nonostante tutti i paletti che si è imposto, e che in un autore meno cultore del suo mestiere di narrare avrebbero avuto un effetto deleterio. Ha scelto un genere desueto, inventato una trama di certo non originale, utilizzando artifizi narrativi conosciuti da un paio di secoli. Ha invece rinunciato, per fedeltà al genere scelto, agli approfondimenti psicologici dei personaggi che sono acquisizione pacifica della narrativa novecentesca. “Nonostante” tutto ciò, potremmo dire estremizzando, la narrazione esiste ed ha una sua dignità ed autorevolezza tanto che il libro si colloca tra i più importanti dell’annata letteraria. Questo intendevo dire quando parlavo della forza della narrativa: il narrare per il narrare, il raccontare come (tanto per enfatizzare un po’) bisogno primario che, affidato ad un vero narratore diventa letteratura, nonostante i limiti che l’autore si è dato. E’ in sintesi l’atto di fiducia nella letteratura che volevo evidenziare.
Questo prescinde ancora a mio avviso dal giudizio di valore attribuibile al libro, in qualche modo lo precede. Paradossalmente, secondo me, l’atto di fiducia nella letteratura resterebbe anche se il libro avesse tutte le altre pecche che hai elencato (soprattutto per “Verderame”). Credo però che in Roderick sia la materia stessa, che impone gli anacronismi di cui si è detto nonchè soluzioni stilistiche artefatte per maggior verosimiglianza, ad attenuare i rischi che tu denunci. E questo, pur riconoscendo che la scrittura non è completamente abbandonata alla storia che racconta, ma mantiene quasi sempre una certa distanza da essa.
19 settembre 2014 alle 09:00
Grazie a te Luigi per la risposta. E devo dire che questo tuo commento mi convince a “riaprire” un conto con Mari. Aprirò il “Roderick” e chissà che si potrà parlare inseme nel merito. Per intanto, complimenti per la chiarezza e la comunicatività, la dedizione, la serietà, il rispetto per l’opera presa in esame. Nel mondo della critica letteraria (o se vuoi delle “note di lettura”), mi pare un valore forte, da sostenere, da coltivare.
10 ottobre 2014 alle 11:51
Caro Mozzi, sai che bazzico poco internet e i blog ma ogni tanto digito il mio curioso cognome (d’origine poschiavina), faccio un controllo e trovo belle cose. Sono lusingato. Ma certamente concordo con te: ‘scrittore notevolissimo’ mi fa enormemente piacere e le classifiche lasciano invece il tempo che trovano. Il discorso sull’immaginario mi porta molto vicino ai miei interessi e ai percorsi della scrittura. Che poi è naturale che siano individuali e nascosti – anche se si pubblica – e per forza di cose estremamente riservati soprattutto se comportano deviazioni dal contemporaneo e si perdono in storie ancorate al passato. una volta un’attenta lettrice mi ha detto: “ma a me, che me ne fregava di Scott e il polo Sud prima che tu trovassi il modo di raccontarlo.” E’ su quel ‘modo’ che mi arrovello. Ogni tanto lo trovo, ogni tanto no. Saluti carissimi a tutti.