La formazione della scrittrice, 32 / Maria Teresa Cipri

by

di Maria Teresa Cipri

[Questo è il trentaduesimo articolo della serie La formazione della scrittrice (esce il lunedì), alla quale si è da tempo affiancata la serie La formazione dello scrittore (esce il giovedì). Ringrazio Maria Teresa per la disponibilità. gm].

Come non sono diventata una scrittrice

maria_teresa_cipriIl mio primo approccio con la scrittura – nel senso letterale del termine – è avvenuto in una scuola elementare in bianco e nero degli anni ’50, dalla quale si usciva alle 12 e trenta perché nessuna mamma lavorava, un edificio austero con le aule abitate da alunni con grembiule e fiocco muniti di cartelle non griffate contenenti quaderni piccoli dalla copertina nera, la gomma da cancellare rossa e blu e la gomma pane, astucci già usati dai fratelli più grandi. Lezioni scandite da sillabario, canzoncine e una sequenza interminabile di aste, appesi al muro la cartina geografica dell’Italia con le regioni bel delineate e il crocifisso di legno, le maestre quasi tutte anziane che bisognava salutare alzandosi in piedi, quelle maestre allergiche agli errori di ortografia che facevano fare il dettato con il disegnino a piacere sulla pagina a fianco.

Eppure mi piaceva quella scuola di Via Tevere lussureggiante di scale intitolata a Grazioli Lante della Rovere e andare a scuola mi piaceva ancor di più. Ero attratta dal rumoreggiare nell’atrio prima di entrare in classe, dal suono della campanella, il fruscio delle foglie dei platani in giardino, l’odore di carta, merende, pastelli a cera, bisognosa della traccia che il gessetto della lavagna lasciava sulle mie dita, sui vestiti, su ogni cosa. Possedere quaderni e sussidiario, matite, penne e colori tutti miei, affacciarmi al mondo della conoscenza, mi faceva sentire grande, importante.

Con parole e creature cartacee, comunque, avevo iniziato ad approcciarmi presto. La mia famiglia viveva immersa in un universo di carta stampata in tutte le declinazioni, io e mio fratello ci eravamo proprio nati tra giornali e libri, un habitat condensato in una specie di suk biblio-tipografico che dominava, imperioso, il nostro modesto appartamento. Mio padre, appassionato studioso d’arte, assetato di sapere, filologo a sua insaputa, aveva bisogno, per condurre una vita quantomeno sopportabile, di contornarsi di cataste di parole. Centinaia di migliaia di caratteri di stampa danzavano per lui e si moltiplicavano sotto ai nostri occhi, appropriandosi con disinvolta prepotenza di ogni cantuccio libero, ogni spazio, parete, pavimento, tavolo o superficie piana presente in casa nostra. Adoravo mio padre. Era un uomo singolare, colto, elegante, l’eroe della mia infanzia e la mia anima bambina si nutriva della convinzione che tutto ciò che di bello e sapiente era in lui, provenisse da quelle cataste di parole. Quindi, recarmi a scuola per imparare a leggere e scrivere poteva essere l’inizio di una fantastica avventura, un modo per somigliargli.

Appena fui in grado di farlo, divorai tutti i classici considerati “libri per ragazzi”. Piccole donne, La capanna dello zio Tom, L’isola del Tesoro, Cuore, Pinocchio, Le avventure di Gian Burrasca, David Copperfield, Incompreso e via dicendo. Invece di giocare, saltare, sbucciarmi le ginocchia imparando ad andare in bicicletta, leggevo. E in compagnia delle pagine che divoravo, mai sazia, avulsa dalla realtà, a bordo del mio tappeto volante di carta, visitavo terre inesplorate, il mondo della fantasia dove tutto poteva essere possibile.

Per fortuna mia e dei compagni, a causa di quel “vizio di studiare” non divenni la classica secchiona antipatica e saccente. Ma, quando veniva l’ora del tema in classe, non ce n’era per nessuno. Il più delle volte, ciò che avevo scritto veniva letto ad alta voce dalla maestra, sequestrato e ben riposto nella cartellina dei lavori più meritevoli da custodire in Direzione e portato ad esempio agli altri. Proprio lì, tra i banchi di scuola, deve aver preso forma in me la convinzione che scrivere qualcosa di accattivante e farlo leggere agli altri sarebbe potuta essere una piacevole occupazione. Poi, solo diventando adulta, anche riscatto, seduzione, rivincita, esorcizzazione del dolore, rifugio.

In seguito, pur grandicella, per svariati anni non ho avuto libero accesso alle librerie di mio padre e, benché nelle mie vene circolasse oltre che sangue inchiostro, la teologia della religione, le storie dei papi e il dizionario delle idee sbagliate, non erano certo letture adatte a un’adolescente. Ripiegai sulla Divina commedia, l’Odissea e I promessi sposi e questo adattamento mi giovò negli anni delle medie e nelle superiori, durante i quali sfornai, per me e per i compagni in difficoltà, versioni in prosa degne di un professore d’italiano. Ormai i miei componimenti erano divenuti leggendari e per non farmi troppo odiare dagli altri, rimediai a questa anomalia collezionando inesorabili insufficienze in matematica e ginnastica. Sì, proprio educazione fisica era la materia che ogni anno mi abbassava la media in pagella, ma della palestra mi nauseava persino l’odore. Mentre i miei compagni liberavano gioiosi le loro membra dall’immobilità forzosa dei banchi di scuola, io tra scuse varie, giustificazioni e mal di pancia, rimanevo negli spogliatoi a leggere Diabolik. Le avventure a fumetti di quell’uomo terribile, bello e maledetto, che seminava morte e terrore ma, di fronte alla fascinosa Eva, per amore solo per amore, diventava dolce e romantico, esercitavano su di me un’irresistibile attrazione. Dovevo scrivere anch’io una storia così.

Mi piaceva disegnare e mi riusciva anche bene: unii le due passioni, e iniziai a editare in proprio i miei primi libri. Circolavano allora degli spessi quadernoni formato libro che i professori ci facevano acquistare per le ricerche e la copertina iniziava a essere non più nera e leggera, bensì colorata e fatta di un materiale nuovo: la plastica.

Presi in prestito dalla biblioteca di mio padre un libro di calligrafia degli anni ’20 e con l’ausilio di quelle pagine, imparai a scrivere in caratteri gotici e svolazzanti. Divenni un monaco amanuense. Dedicavo particolare cura e attenzione all’estetica del titolo che volevo bello e intrigante. L’iniziale della prima pagina, poi, doveva essere scritta in corsivo gotico e attirare il lettore per il lussureggiare di disegni miniati, putti e svolazzi. Impostata la veste grafica, poi la penna iniziava a volare.

Scrissi in bella calligrafia un romanzo d’amore del quale non rammento né trama né personaggi, con tanto di editore (la MTC) numero di pagina in fondo e indice dei capitoli. Sicuramente staziona mummificato in cantina in uno dei bauli di famiglia, insieme agli album delle figurine Panini e ad altro materiale scolastico di quei tempi.

Poi ne scrissi uno di viaggi, corredato da illustrazioni provenienti da ritagli di riviste che circolavano in casa. Scriverlo mi servì per girare un po’ il mondo, visto che in famiglia, di viaggi veri e propri (intendo a bordo di treni o aerei) se ne facevano ben pochi. Avevo assimilato da tempo il concetto che con un libro aperto in mano poteva accadere di tutto. Anche volare, quindi staccarsi dalla realtà a volte non piacevole per visitarne o costruirsene un’altra sicuramente più consona alle proprie aspettative. Conoscere, perché la conoscenza è l’unica missione di noi esseri umani su questa terra se scegliamo di evolverci. Divertirsi. Appartenersi.

Fino ai trent’anni il mio rapporto con la scrittura fu intimo, viscerale oserei dire passionale, perché visse e fu dedicato a uso e consumo di ciò che andiamo chiamando amore. Se un uomo mi piaceva, la dinamica dell’incontro e l’evoluzione del rapporto finivano in un romanzo che subito iniziavo a buttare giù, corredato da un ricco epistolario fatto di messaggi non sempre spediti.

Mi innamorai di un certo Antonio e, siccome mi ispirava più degli altri, elaborai per lui lettere struggenti, dense di passione irrisolta e aspettative. In duplice copia, comunque, perché una doveva rimanere a me. Per ricordo.

La carta da lettere, la busta, il francobollo, a volte il sigillo rosso di ceralacca erano ingredienti di un rituale che mi prendeva l’anima.

Iniziai a scrivere dei racconti dando parola agli oggetti, ai mobili perché tutto intorno a me aveva una voce e una storia, persino una famigliola costituita da un servizio da caffè, lattiera, la zia zuccheriera e i cuginetti cucchiaini d’argento. Attraverso i loro occhi, confinati dietro a un’antica cristalliera, descrissi l’atmosfera di un atipico pranzo di Natale.

La scuola era finita da un pezzo, visibilmente nessuno era interessato ai miei scritti, per guadagnarmi qualche lettore acquistai un esoso volume dalla copertina verde dal titolo Elenco dei premi letterari italiani. Entrai così nell’universo affollato e pittoresco dei concorsi di narrativa inedita con contributo di lettura.

Quando, dopo qualche mese dal primo invio, si affacciò dalla cassetta delle lettere una busta inaspettata e pomposa recante all’interno la notizia dell’avvenuta vincita del Primo Premio Assoluto assegnato a un mio racconto, fu per circa una settimana, il mio sabato del villaggio. Era fatta, ed era stato più semplice del previsto: ero diventata una scrittrice!

Il mondo si era accorto di me, rinomati ed eccelsi professori riuniti in conclave non avevano potuto fare a meno di notare la mia innegabile bravura e il mio talento! Anzi, in quei giorni pervasi da indicibile emozione, il presidente della Commissione Esaminatrice, un certo professor Sofia, mi aveva anche telefonato a casa, sperticandosi in lodi e complimenti. Solo alla fine dell’amabile chiacchierata aveva buttato lì la richiesta di un altro contributo (di “sole” centomila lire), quale parziale copertura delle spese di pubblicazione di un’antologia che – recante tra gli altri il mio capolavoro – avrebbe girato il mondo intero e sarebbe stata adottata da tutte le scuole d’Italia.

Presi tre giorni di ferie, acquistai un vestito elegante per recarmi alla mia notte degli Oscar e viaggiai per 730 chilometri con l’anima traboccante di sogni e progetti. Appena di ritorno, mi sarei messa subito all’opera iniziando a scrivere il mio primo best seller

Per raggiungere Melicuccà – lo sperduto paese dell’entroterra calabrese teatro dell’evento, sito quasi alla punta dello Stivale – dovetti a un certo punto abbandonare il treno e aspettare ore la coincidenza di una corriera, pernottare neanchemiricordodove per recarmi, finalmente, il giorno dopo, vestita e truccata di tutto punto, all’appuntamento con il destino. Che poi tutto si risolse in una patetica e stupenda macchietta all’italiana ritengo sia superfluo sottolinearlo – fosse successo ora, che mi avvalgo della presunzione di essere meno ingenua di allora, mi sarei divertita un mondo – ma chiedo solo un po’ di comprensione e un sorriso.

La cerimonia di premiazione, con tanto di sindaco e stendardo recante i colori comunali, finì a urla e spintoni e il professor Sofia – con all’attivo un discreto bottino di vaglia postali inviati a suo nome – fu fatto allontanare alla chetichella da un’uscita laterale. Al dodicesimo primo premio assoluto, era accaduto che qualcuno dei premiati aveva iniziato ad alterarsi. Quella volta non divenni scrittrice, non ci fu nessuna antologia, e affrontai il viaggio di ritorno tra mille amarezze e senza alcun feticcio che comprovasse il mio punto d’arrivo.

* * *

La lezione non mi bastò, ormai il libro verde lo avevo acquistato e mi misi subito al lavoro per carpirne i segreti in esso contenuti. Non era ancora giunta l’era di internet, per districarmi nel variopinto mondo degli aspiranti scrittori, mi avvalsi di strumenti medievali quali posta e telefono (fisso).

Camuffata con parrucca e occhiali da sole, e usando a volte pseudonimi, mi tuffai anima e corpo nell’universo dei premi letterari (ma solo per poco tempo, lo giuro). L’episodio di Melicuccà restò unico e irripetibile nel suo genere, ma in due o tre anni arrivai a mettere insieme un paio di primi premi assoluti senza azzuffarmi con altri sventurati vincitori, tre quinti premi ex equo (al Castello di Poppi, lo giuro) e una decina di terzo classificato.

In uno di questi viaggi della speranza, una volta, per attestare la mia vittoria, mi appiopparono un quadro talmente grande – una specie di pannello cerato con disegnata al centro un’immensa peonia – che, per uno scarto di pochi centimetri, non entrò nel taxi che avrebbe dovuto portarmi alla stazione né nello sportello di accesso al treno. Grazie all’originale trofeo – e non per il racconto premiato avente come oggetto la storia d’amore tra una lavatrice e un frigorifero – ebbi il mio primo e unico momento di gloria: il capostazione – visti i miei goffi tentativi di issarlo a bordo – per riguardo alla mia persona e memore dei manifesti inneggianti al Premio Letterario Prato, Un Tessuto Di Cultura con i quali era tappezzata la città – fece viaggiare il mio trofeo nell’abitacolo del macchinista.

In quegli anni rimediai, comunque, una discreta collezione di medagliette con o senza nome inciso, alcune targhe di alluminio anodizzato, tre coppe mostruosamente lucide che si sono arrugginite quasi subito, una scultura con degli uccelli in volo dalle ali appuntite e pericolose che hanno procurato non pochi danni all’arredamento del salotto prima di finire in cantina, un marengo d’oro, un cesto di prodotti tipici, quattordici pergamene infiorettate e una targa incorniciata recante il mio cognome sbagliato.

Malgrado ciò, neanche in quel periodo divenni una scrittrice.

* * *

Dopo una salutare cura disintossicante, coadiuvata da un necessario e risolutivo resoconto di centinaia e migliaia di lire dilapidate fra contributi di lettura, alberghi e treni per raggiungere i più sperduti borghi della Penisola, abbandonai definitivamente l’universo dei premi letterari per aspiranti scrittori e mi addentrai in quello non meno insidioso del mondo dell’editoria.

Prima di iniziare a inondare incolpevoli redazioni di case editrici con i miei due o tre romanzi nel cassetto, tentai di documentarmi. In prima battuta non attinsi informazioni alla fonte giusta, perché incappai dritta dritta in uno dei più conclamati e onnivori editori a pagamento presenti sul mercato (accennare che opera a Firenze può bastare?).

Trascorso neanche un mese dall’invio del manoscritto, un’impeccabile e ben confezionata lettera ammaliatrice fece capolino tra la mia corrispondenza in arrivo. Ebbi un tuffo al cuore e attesi un po’ prima di lacerare la busta. Il momento era solenne, forse stavo per diventare una scrittrice, questa volta non di racconti destinati a rimanere inediti, ma di un vero e proprio romanzo. Lessi tremante una lettera di complimenti osannante al romanzo mirabile sfornato dal mio genio finora incompreso, opera che per qualità e contenuti meritava di rientrare nel piano editoriale dei miei mecenati. In allegato, già predisposto un contratto su delicata carta rosa in duplice copia che attendeva solo la mia firma. L’armatura di cartone era pronta, nelle mie mani, l’avrei potuta indossare sborsando solo 7 milioni di lire!

Nel corpo della lettera, ma proprio in fondo, così, giusto per dire, spuntava un piccolo particolare, un cammeo: l’editore, le copie del capolavoro che si accingeva a stampare le vendeva direttamente a me, all’autore che, per auto glorificarsi, si comprava da solo i libri.

Neanche allora divenni scrittrice, perché non ci cascai. Rottamai anche il romanzo, per sicurezza. Se lo ritenevano degno di pubblicazione loro (ma, a quelle condizioni, sarebbe andata bene anche qualsiasi altra nefandezza) voleva dire che il mio scritto non era poi così interessante.

Conservai l’originale missiva – era pur sempre un contratto editoriale, perbacco, con nome e cognome dell’autrice, che ero io, scritto in neretto – e, per niente rassegnata, acquistai due o tre manuali della serie L’autore in cerca di editore, Come farsi pubblicare & company, e raffinai i miei criteri di ricerca. Mi posi due obiettivi: imparare tutto il possibile sulla figura dell’editore questo sconosciuto e scrivere un nuovo romanzo da promuovere. Iniziai a fare le pulci alle principali Case Editrici italiane, creai un vero e proprio Albo degli Editori a mio uso e consumo. Mi procurai indirizzi, riferimenti, telefoni, materie trattate, cataloghi. Ci impiegai un anno, ma venne fuori proprio un bel lavoretto che non aveva nulla da invidiare alla Guide del Gambero Rosso sui migliori ristoranti sul territorio nazionale.

E anche il mio nuovo romanzo, pronto per la ricerca del santo Graal, aveva a che fare con la cucina perché si intitolava Il ristorante dell’anima. Una specie di trattato culinariamoroso infarcito di passione e ricette, nei tempi in cui l’abbinamento scrittura – cucina non era ancora venuto a noia.

Un amico di un amico, mosso a compassione dalle mie traversie letterarie, mi procurò un appuntamento con un anziano gentiluomo colto e raffinato, a suo tempo amico di Hemingway, l’avvocato Alessandro Gallo, proprietario di una casa editrice romana di nicchia, la Jouvence. Le mail e i suoi allegati non erano ancora state inventate e le persone riuscivano a volte anche a incontrarsi.

Mi ricevette nel suo ufficio polveroso e disordinato di sapere, sito nel quartiere Prati, stipato di scatoloni straripanti libri e carte ovunque inevase da secoli. Con a fianco un austero telefono di bachelite nera che squillava incessantemente, sopportò con curiosità e un certo divertito interesse il mio logorroico entusiasmo, sorridendo con galanteria dell’incontenibile emozione che provavo a trovarmi per la prima volta al cospetto di un Editore in carne e ossa. Sottolineò con garbata prudenza, che la sua casa editrice trattava quasi esclusivamente testi storici e romanzi di narratori arabi tradotti dal francese ma, vedendomi sbiancare, aggiunse sornione che aveva in mente da un po’ la creazione di una collana denominata Orizzonti Femminili nella quale far confluire anche autrici italiane. Accettò comunque di esaminare la mia storia.

Dopo sei mesi di fibrillante attesa, telefonate a vuoto, improvvise amnesie da parte sua, un altro appuntamento che riuscii a strappargli, viaggi in Francia e narratori arabi da tradurre e traduttori che non consegnavano le anelate traduzioni di romanzi che, il più delle volte neanche arrivavano in libreria, non mi era ancora dato di sapere se l’avvocato aveva dato uno sguardo al mio romanzo. Accidenti, era l’unica occasione che avevo per diventare finalmente una scrittrice, il mondo dell’editoria italiana era fermo, in attesa dell’uscita del mio romanzo, e il raffinato gentiluomo non faceva una piega per accelerare il compimento del mio destino!

Dopo un’estate andata persa dietro a un’inutile vacanza e in preda a un vero e proprio delirio da copertina, appena di ritorno a Roma, mi precipitai a registrare il mio scritto alla Siae. Ormai ne ero certa: il mio capolavoro era stato contrabbandato all’estero sotto falso nome! Dilapidate quelle centocinquantamilalire e trascorso un altro mese tra dubbi e rovelli, con il telefono della Jouvence sempre muto e l’avvocato Gallo a villeggiare nella sua amata Provenza indifferente ai miei patimenti, ricevetti a suo nome la telefonata di una certa Claudia Pozzessere, sedicente depositaria del mio manoscritto. Con una voce informale e lontana dichiarò che il mio romanzo era buono, l’idea originale e – apportando modifiche, cambiando il titolo e usando determinati accorgimenti – il tutto poteva definirsi pubblicabile. Immediatamente mi spuntarono le ali e le usai per compiere voli pindarici, sorvolare oceani, cavalcare sogni. Aspettando di parlare con Lui – ora anch’io avevo un Editore – per sicurezza iniziai a scrivere un altro romanzo. Ora che stavo per diventare scrittrice, dopo il successo del primo – era così che funzionava nei film – avrei ricevuto subito l’anticipo per l’esclusiva del secondo.

La rosa dei sensi nacque in una gelida mattina di febbraio, dopo altri sei mesi di inseguimenti, correzioni lampo eseguite di notte e durante mattinate meravigliose di ferie e solitudine, ispirata dal silenzio della mia casa vuota da marito al lavoro e figli a scuola. L’avvocato Gallo per inaugurare la collana Orizzonti femminili non aveva badato a spese: copertina rosso fiammante, con tanto di bandella e segnalibro, ricavata da un disegno commissionato a una pittrice, illustrazioni all’interno create da una grafica della Rai, terribile prefazione di quindici pagine a cura di Barbara Alberti reclutata a mia insaputa. Un volume invitante, simpatico, terribilmente kitsch e graficamente perfetto, che mi presentò con orgoglio il giorno che andai a ritirare le mie copie nel suo studio. Il mio primo romanzo edito, accompagnato da una frase alla quale, dopo, solo dopo, attribuii il suo significato. “Ecco, signora, il suo libro, noi abbiamo fatto il nostro lavoro, adesso tocca a lei!”

“Adesso tocca a lei” significò che la Jouvence editava libri, e per fare questo pagava traduttori, illustratori, cartai, tipografi, magazzinieri, corrieri, distributori, ma… non aveva un ufficio stampa e quindi neanche chi comunicasse al mondo l’esistenza di detti libri.

Dopo un tourbillon di emozione, festeggiamenti e telefonate ad amici e parenti, mi rimboccai le maniche. Trascinandomi in autobus un borsone capiente iniziai a visitare buona parte delle principali librerie romane. Improvvisandomi commesso viaggiatore del mio libro rosso fuoco fui abbastanza convincente e seduttiva perché rimediai numerosi ordini e anche qualche invito a cena. Ma anche recensioni su quotidiani e riviste, una “cena con l’autore” presente l’allora vicesindaco Tocci, una presentazione a cura dello chef Alberto Ciarla, premi, complimenti e acquirenti.

Ma neanche allora sono diventata quel che si dice una scrittrice. L’avvocato Gallo, nel parapiglia che avevo creato alle sue sonnolente carte, tralasciò di farmi firmare alcun tipo di contratto. Così non ho mai percepito una lira di diritti d’autore per un libro che è ancora in circolazione pur avendo 15 anni, non ho mai saputo quante copie abbia venduto; e che, sfumate cene, presentazioni e complimenti, ho dovuto abbandonare al suo destino.

Di scrivere comunque non ho smesso mai, e visto che il genere erotico-umoristico mi aveva fatto divertire, ma non mi aveva fatto sfondare come la mia ambizione reclamava e i numerosi lettori promettevano, decisi di cambiare genere. Una volta nella vita capita a tutti di sbagliare, volevo cimentarmi in una storia d’amore “seria”. Sull’argomento tutto era stato detto e tutto era stato scritto, ma io volevo farmi questo regalo. L’eredità di Antonio nacque così, in un’estate romana afosa e interminabile trascorsa ad assistere mio padre che sarebbe morto qualche mese dopo. Spedii il tutto a un editore giovanissimo, Giulio Perrone e l’operazione fu rapida e relativamente breve. La storia scelta tra altri cinquecento manoscritti, l’editing indolore e costituito da concisi e ben centrati aggiustamenti che rispettarono in tutto e per tutto la prima stesura.

Non dissi niente per la copertina più brutta, grigia e insignificante dell’anno, questa volta era veramente fatta! Gente giovane, precisa, diretta, contratto editoriale semplice e chiaro, recensioni su Messaggero, Repubblica e principali riviste, lettori entusiasti, presentazioni e cene. Era il 2006 ed ero diventata una scrittrice!

Ma a causa di qualche anatema incombente sui miei libri tutto sfumò come neve al sole e il bell’Antonio tornò nell’ombra appena un anno dopo. I riflettori si spensero, l’altarino fatto al libro nel rione Monti fu smontato per fare posto ai nuovi arrivati, il magazzino della Giulio Perrone Editore si riempì di rese, il grigio della copertina divenne ancora più grigio tanto da sparire dal catalogo e nessuno seppe o volle con nessun mezzo farmi conoscere il numero delle copie vendute. Meno che mai farmi pervenire – questa volta in euro – una cifra simbolica denominata diritti d’autore (come da contratto).

La rosa dei sensi è ancora viva e vegeta e ordinabile sul web e in libreria, L’eredità di Antonio si è dissolta nel nulla e io, imbarazzata, non so mai cosa rispondere a chi ancora vorrebbe acquistarla.

Da quella volta, non avendo nel frattempo conosciuto Pippo Baudo, Federico Moccia, Elisabetta Sgarbi, Fabio Volo e neanche Pupo, non frequentando i salotti bene della Capitale e non possedendo, a questo punto, la stoffa di una vera scrittrice, un senso di inadeguatezza e malinconia accompagna il mio scrivere e ciò che ne deriva se tento la strada della pubblicazione. Se prima era un sentiero difficile da battere, ora con “la crisi” è come improvvisarsi scalatori del Monte Bianco indossando scarpette da ballo.

Noi manoscrittari che non ci arrendiamo all’autopubblicazione siamo tosti, incoscienti e molesti. Visto che il mondo dell’editoria è brutto e cattivo, scartati gli anatemi e il sentiero più comodo di dare sempre la colpa agli altri dei propri fallimenti, non prendiamo la saggia decisione di dedicarci al giardinaggio, al volontariato, all’accoglienza di animali abbandonati, all’uncinetto o allo studio della cibernetica.

Neanche per sogno. Scriviamo, scriviamo, scriviamo. Novelle destinate a ingrossare le fila di mummificate raccolte di racconti che nessuno vuole prendere in considerazione (il genere non va più); romanzi che solo le case editrici a pagamento trovano “particolarmente interessanti”; poesie crepuscolari e metafisiche da inviare – di nuovo?! – a qualche premio letterario almenoqualcunolelegge.

Ma i sogni, concedetemelo, almeno quelli, sono gratis e fanno male solo a chi li fa.

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10 Risposte to “La formazione della scrittrice, 32 / Maria Teresa Cipri”

  1. Stefania Says:

    Una verve irresistibile! Mi son davvero divertita. Grazie.
    PS: ‘La rosa dei sensi’ è disponibile nella mia biblioteca. Ho già prenotato la copia…

  2. anna maria bonfiglio Says:

    un premio speciale Maria Teresa dovrebbe averlo assegnato per la meravigliosa autoironia di cui fa uso. Con una scrittura come la sua mi riesce diffcile spiegarmi perché le sue “opere” non abbiano trovato la giusta collocazione. ma purtroppo è così, purtroppo bisogna affollare i luoghi giusti, frequentare le persone giuste e aggiudicarsi un qualsiasi passaggio televisivo, anche il più declassante. ma in fondo che importa? secondo me la cosa più importante non è “diventare scrittrice” ma “essere scrittrice” e credo che Maria Teresa lo sia. in bocca al lupo.

  3. Carlo Capone Says:

    Brava, Maria Teresa, la scrittura ti è congeniale, ma la Repubblica delle Lettere, per il momento, ha detto no. La sento citare spesso, questa Repubblica, spero che abbia una sua Costituzione. Altrimenti che repubblica è?

  4. Giulio Mozzi Says:

    Art. 1 – La Repubblica delle Lettere è una repubblica fondata sulla cooptazione.
    La sovranità appartiene al mercato, che la esercita nelle forme che preferisce e senza limiti.

  5. acabarra59 Says:

    “ Martedì 16 settembre 2014 – La « Repubblica delle Lettere ». E poi dice che uno diventa monarchico… “.

  6. RobySan Says:

    Art. 2 – Qualora dei limiti venissero delineati nei successivi articoli, questi debbono essere ritenuti automaticamente abrogati.

  7. Carlo Capone Says:

    Art. 2 La Repubblica delle Lettere privilegia i numeri. Non da circo.

  8. barbazagn Says:

    dicono che la repubblica delle cartoline sia più accessibile

  9. dm Says:

    (La Repubblica delle Lettere è una Repubblica fondata sul livore.
    Talvolta.)

  10. Stefania Says:

    Alla fine, ho letto ‘La rosa dei sensi’, trovandolo stravagante e spassoso, condito dallo stesso spirito e dalla stessa autoironia di questa ‘formazione’. Una lettura davvero gradevole.

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