[Questo è il dodicesimo articolo della serie La formazione dello scrittore, che appare in vibrisse il giovedì (ed è parallela a quella La formazione della scrittrice, che appare invece il lunedì). Ringrazio Antonio per la disponibilità. gm]
Ho studiato con diligenza. Anche con esagerazione. Dai sei ai trent’anni, cioè dalla scuola elementare fino allo scadere di una borsa di studio dopo la laurea.
Ho letto con passione. Prima narrativa, poi anche poesia. Non c’era nessun libro nella casa in cui sono cresciuto,(oggi sono diventato un compratore compulsivo), tranne qualche libretto d’opera, finito in fondo ad un armadio.
Il primo che ho letto si intitolava Il libro di Tonino, dello scrittore marchigiano Fabio Tombari. La copertina raffigurava un bambino che ascoltava il suono di una conchiglia. Ho letto con esagerazione. Interi pomeriggi senza uscire di casa. L’apice della passione l’ho raggiunto nella tarda adolescenza, in concomitanza con la scoperta dei grandi scrittori europei di primo Novecento. Oggi sarò forse più smaliziato, ma ho perduto quella capacità di farmi coinvolgere.
E poi c’era il tema. Intendo dire proprio il tema in classe, l’unico tipo di componimento previsto a scuola, senza le inutili complicazioni che qualche pedagogo ministeriale ha voluto aggiungere poi. Mi piaceva molto il tema, proprio per la sua natura anarchica, senza regole, che stimolava la fantasia.
Verso i diciassette anni ho cominciato a buttare giù qualche verso. Imitavo Montale, che allora era per me il non plus ultra della letteratura. Questo montaleggiare è andato avanti per un po’. Poi ho smesso. Sia di imitare Montale che di scrivere poesie. Non ho nessun rimpianto per quei testi, che non ho conservato. Rimpiango però quella età, torno a dire. (Tra l’altro, l’infanzia, l’adolescenza e la vecchiaia mi sembrano in assoluto le fasi della vita più poetiche da rappresentare. A confronto della loro fragilità, che suggestione può avere l’età adulta?).
Mi sono iscritto all’università di Padova. Che per me ha coinciso per più di dieci anni soprattutto con un nome: Gianfranco Folena. Un grande studioso e un vero maestro. Sono cosciente di avere un temperamento ossessivo per quanto attiene ai ricordi negativi, ma penso di essere anche molto fedele verso poche figure cui sono stato particolarmente legato. Ma sul mio rapporto con Folena, (e con i suoi successori), pubblicherò uno scritto a parte. Molto importante è stato anche l’incontro con Pier Vincenzo Mengaldo, con la sua antologia e con i suoi studi sul Novecento poetico. E ho frequentato le lezioni di metrica del professore-poeta Fernando Bandini. Eravamo in pochi, dato il carattere specialistico della materia, e lui era una miniera di aneddoti. Erano gli anni Ottanta. Mi piaceva girare e ascoltare le voci dei poeti. Ricordo una serata vicentina a sentire Caproni, presentato proprio da Bandini. Un ospite ricorrente del Circolo filologico-linguistico padovano di Folena era Andrea Zanzotto. E c’era spesso Franco Fortini. Che però non mi è mai piaciuto, per la monumentale prosopopea, inversamente proporzionale alla capacità di incidere nella società italiana. Infine, in quel periodo sono passati per le riunioni del Circolo diversi futuri scrittori, come Alessandro Banda, Stefano Dal Bianco, Stefano Strazzabosco.
Sto facendo molti nomi. Tutto questo tirocinio di studi filologici non c’entra niente, a dire il vero, con i contenuti della mia poesia, che sono venuti fuori dopo. Ma c’entra molto con la formazione del mio
gusto letterario, sia per quello che include (ho molta simpatia per poeti stilisticamente conservatori, che oggi non vanno per la maggiore, come Sergio Solmi o Diego Valeri), sia per quello che esclude (ad esempio la neo-avangardia con le sue propaggini).
Intorno ai trent’anni ho smesso con gli studi accademici e ho ripreso a scrivere versi. Ho attraversato un periodo non facile, da un punto di vista psicologico, lavorativo e familiare. Una crisi che, come una specie di geyser interiore, ha fornito temi e pathos alle mie poesie. Argomenti intimi, che mi è venuto spontaneo versare in testi poetici. Non me la sono mai sentita di riferirne in una prosa razionale e analitica.
Tra i modelli letterari di cui sono consapevole, c’è una certa linea narrativa della poesia italiana della prima metà del Novecento, dai crepuscolari a Saba. Mentre sono debitore della misura epigrammatica e del gusto per il colpo di scena finale (tecnicamente: fulmen in clausola), al grande Kavafis, di cui ho sempre in mente la traduzione di Nelo Risi e Margherita Dalmàti. Qualche suggestione proviene anche dalle novelle di Federigo Tozzi. E con questo, mi sembra di aver vuotato il sacco.
A un convegno universitario a Bressanone, risale la conoscenza, diventata poi un’amicizia, con un altro professore-poeta, Franco Buffoni, instancabile talent-scout (nel momento in cui scrivo [estate 2014] i giovani da lui promossi nei Quaderni italiani di poesia contemporanea ammontano a settantadue). Gli diedi da leggere alcune mie poesie. E lui le ha incluse nel sesto dei Quaderni.
Mi accorgo che ho parlato molto di università e di scuola, entrambe bersagliate da tempo da tagli e brutte riforme. Certo, non tutto quello che mi interessa l’ho trovato lì dentro. Così come ammiro degli scrittori che sono stati in sostanza, e a volte anche letteralmente, autodidatti.
Voglio aggiungere però che ancora oggi continuo ad avere una grande considerazione per queste due istituzioni così come dovrebbero essere. L’università com’è mi sembra purtroppo una famiglia nobile decaduta, i cui esponenti, avendo colpevolmente trascurato negli ultimi decenni il dovere dell’arruolamento dei giovani, tendono ad arroccarsi in un’autoreferenzialità corporativa. La scuola com’è spesso distoglie gli insegnanti dal piacere della letteratura, caricandoli sempre più di incombenze burocratiche che li riducono a piccoli travet.
In particolare a me non riesce di affrontare letture impegnative, e tanto meno di scrivere poesie, se non durante le vacanze estive. Conosco altri che sono più capaci, ma io devo avere la testa vuota, libera da impegni. Allora è un po’ come se tornassi indietro, alla mia adolescenza, quando niente inibiva il piacere di leggere. E di scrivere.
Tag: Alessandro Banda, Andrea Zanzotto, Antonio Turolo, Diego VAleri, Eugenio Montale, Fabio Tombari, Federigo Tozzi, Fernando Bandini, Franco Buffoni, Franco Fortini, Gianfranco Folena, Giorgio Caproni, Kostantinos Kavafis, Margherita Dalmati, Nelo Risi, Pier Vincenzo Mengaldo, Sergio Solmi, Stefano Dal Bianco, Stefano Strazzabosco, Umberto Saba
11 settembre 2014 alle 06:52
“ Domenica 2 giugno 1996 – Se ho detto che mi piace scrivere, non per questo penso di essere uno scrittore. Mi piace scrivere perché mi piaceva, molti, forse troppi anni fa. Mi piaceva scrivere i temi. Tema: « In casa, da solo, in un pomeriggio di pioggia » oppure: « Stanno per arrivare le vacanze: speranze e progetti ». Svolgimento etc. Io partivo, sicuro e calmo, andavo lungo la mia scrittura infantilmente rotonda, « svolgevo », mi svolgevo, in ampie, sinuose figure, eleganti, talvolta ardite, compiendo larghe evoluzioni, meravigliose acrobazie, sfrecciavo, planavo, in uno spazio che, per me, non aveva segreti e non era mai vuoto. Presto il foglio si riempiva. Un po’ stanco, piacevolmente eccitato, scrivevo le parole di chiusura. Avevo finito, quasi sempre prima degli altri. Li vedevo, ancora chini sui banchi, e qualcuno nemmeno era riuscito a cominciare. Le mamme dicevano: « Come farà? ». Non lo sapevo nemmeno io, come facessi. Mi veniva facile, ecco tutto. Avere dei pensieri – pensierini -, scrivere qualcosa su qualcosa che non esiste – si chiamava la « fantasia » – mi sembrava normale. Forse mi limitavo a seguire la traccia delle parole, una parola tira l’altra – come le ciliege, come le disgrazie -, come se ascoltassi qualcuno parlare, come quando si faceva il « dettato ». Questa strada invisibile, fatta soltanto di suoni, forse la scorgevo soltanto io, come volando nel buio, guidato da un infallibile radar. Forse me le sognavo la notte, quando i miei sonni erano profondi e incontaminati, inspiegabilmente pieni di cose, figure, pensieri di una vita che non avevo ancora vissuto e che nel sogno mi era come promessa, anticipata, donata come infallibilmente certa. “.
11 settembre 2014 alle 11:38
“””E poi c’era il tema. Intendo dire proprio il tema in classe, l’unico tipo di componimento previsto a scuola, senza le inutili complicazioni che qualche pedagogo ministeriale ha voluto aggiungere poi. Mi piaceva molto il tema, proprio per la sua natura anarchica, senza regole, che stimolava la fantasia.””
CONCORDO
11 settembre 2014 alle 11:49
“”Voglio aggiungere però che ancora oggi continuo ad avere una grande considerazione per queste due istituzioni così come dovrebbero essere. L’università com’è mi sembra purtroppo una famiglia nobile decaduta, i cui esponenti, avendo colpevolmente trascurato negli ultimi decenni il dovere dell’arruolamento dei giovani, tendono ad arroccarsi in un’autoreferenzialità corporativa. La scuola com’è spesso distoglie gli insegnanti dal piacere della letteratura, caricandoli sempre più di incombenze burocratiche che li riducono a piccoli travet.””
notevole-vorrei però aggiungere che anche all università la burocrazia non manca,eccome
nella scuola superiore pubblica c’è poi una mancanza di disciplina (regalino del ’68)che in alcuni casi finisce per rovinare tutto il resto
11 settembre 2014 alle 12:16
Fuori tema:
Il ’68 è passato da 46 anni. Gli ex-68ttini son quasi tutti in pensione. Chi sia nato in quell’anno (e quindi non abbia visto “il movimento”) potrebbe oggi essere Preside (si dice ancora così?) in un Istituto Superiore Pubblico. Possibile che la mancanza di disciplina sia ancora retaggio del ’68?
11 settembre 2014 alle 12:51
No, sul tema non sono d’accordo; il bello è proprio stare dentro a determinate regole. Così si impara a scrivere, a pensare, così ci si affina
Sulla disciplina, 68 o no, credo abbia ragione davide. Sulla porta di una scuola superiore dovrebbe esserci qualcosa tipo Lasciate ogne speranza, voi ch’intrate. Qui siamo in un mondo altro rispetto a quello fuori
11 settembre 2014 alle 12:57
si rob-e io ho lavorato,non anni e anni ma qualcosa si,pre-era gelmini, come educatore via coop sociale in vari istituti,in passato,e ti posso dire,che anche senza contare i casi eclatanti che succedono talvolta (perlopiù in istituti tecnici e professionale,ma accadimenti al limite del incredibile avvengono anche nei piu blasonati licei),c’è una stanca e una mancanza di agire molto diffusa-casi di sospetto bullismo non intercettati da subito,magari non gravi ma che impediscono di far lezione,genitori petulanti se non ostili,presidi che non si trovano,un lassismo molto forte e poi diciamolo ..l’80 % degli insegnanti è donna e, a detta di molti “..qualche uomo in più farebbe da deterrente a certe smargiassate dei ragazzi..”
Una volta avevo bisogno di una firma per uscir prima dall’ istituto (ovviamente avevo chi mi sostituiva),come educatore,dovevo avvisare il preside (andavo dal dentista,e l’appuntamento era in orario di lavoro,dalle 17 era tutto pieno)..ma il preside a scuola..non c’era!!!e il gg dopo le bidelle mi fecero pur capire che non andava disturbato troppo spesso!!!!
ah si so cosa uno potrebbe dire “ma magari era in giro per lavoro”..eh magari..beh il gg prima lo avevo avvertito con email che passavo dal suo ufficio..ma nel 2005 le email in italia evidentemente le guardavano in pochi…Cmq le lamentele contro i presidi come figura dopo al riforma berlinguer son varie e diffuse
credimi il ’68 ha fatto tanto di buono ma su alcune -alcune eh!-cose,beh..aggiungi anche la non riuscita riforma del 96-97
11 settembre 2014 alle 13:01
antonio turolo è un ottimo, disperante, estremo poeta. grazie. azzurra
11 settembre 2014 alle 13:12
“ 26 gennaio 1994 – « Diversamente dalla lettera, il diario può giungere ad abolire l’io e può del tutto trascurare il dato spaziale, il qui: non può, se è diario, abolire il nunc, il punto del tempo in cui ciascuno di noi vive in certo modo l’ultimo momento del mondo, in solitudine o in sincronia con gli altri, e fissa la sua ultima esperienza. Nel diario è essenziale la dipendenza dal tempo della scrittura, la segmentazione progressiva, la discontinuità. Il diario è in correlazione necessaria, anche se nascosta, col sentimento del tempo: del tempo dei gesta Dei per homines, come nelle notizie del mondo registrate dal monaco nell’isolamento della sua cella; del tempo-denaro, come nei diari dei mercanti; del tempo-spazio, misurato in parasanghe da Senofonte o in giorni di marcia da Marco Polo o in leghe marine dal capitano Cook, come nelle note dei viaggiatori e nei diari di bordo; del tempo-coscienza, come nelle meditazioni di filosofi e di poeti; del tempo-resistenza, come nei diari di prigionia. » (Gianfranco Folena, 1985) “.
11 settembre 2014 alle 13:42
Io il ’68 l’ho vissuto, sia al termine della scuola che durante i suoi epigoni quando attesi alla Facoltà di Ingeneria. Posso dire che accanto a dei meriti, specialmente in campo sociale, procurò danni permanenti al sistema complessivo dell’Istruzione.
I primi due anni di università furono orribli, io che provenivo dal Classico avevo bisogno come l’aria di seguire le lezioni di Analisi Matematica, Geometria Analitica, Meccanica Razinale e Disegno Industriale. Ma figurarsi, la Facoltà fu occupata da dicembre a Giugno, dovetti fare sforzi tremendi che per un po’ influirono sulla mia salute.
Riaguardo alla scuola, molti anni dopo appresi che Luigi Berlinguer, Ministro della P.I. del Governo D’Alema, stufo di un egualitarismo funzionale alla mediocrità di molti addetti ai lavori, varò una riforma che vi metteva fine, proponendo l’istituzione di esami interni che ogni tot anni accertassero il grado di preparazione e la capacità pedagocica dei docenti. Se li superavi avevi l’aumento, se no restavi al palo. Per carità, gli insegnanti, aizzati da una parte dei sindacati, scesero in piazza esibendo la gigantografia del povero Berlinguer con le orecchie di asino. Vabbè.
11 settembre 2014 alle 13:45
Mi scuso per i refusi e ripropongo il testo corretto.
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Io il ’68 l’ho vissuto, sia al termine della scuola che durante i suoi epigoni quando attesi alla Facoltà di Ingegneria. Posso dire che accanto a dei meriti, specialmente in campo sociale, procurò danni permanenti al sistema complessivo dell’Istruzione.
I primi due anni di università furono orribili, provenendo dal Classico avevo bisogno come l’aria di seguire le lezioni di Analisi Matematica, Geometria Analitica, Meccanica Razionale e Disegno Industriale. Ma figurarsi, la Facoltà era occupata da dicembre a Giugno, dovetti fare sforzi tremendi che per un po’ influirono sulla mia salute.
Riguardo alla scuola, molti anni dopo appresi che Luigi Berlinguer, Ministro della P.I. del Governo D’Alema, stufo di un egualitarismo funzionale alla mediocrità di molti addetti ai lavori, varò una riforma che vi metteva fine, proponendo l’istituzione di esami interni che ogni tot anni accertassero il grado di preparazione e la capacità pedagogica dei docenti. Se li superavi avevi l’aumento, se no restavi al palo. Per carità, gli insegnanti, aizzati da una parte dei sindacati, scesero in piazza esibendo la gigantografia del povero Berlinguer con le orecchie di asino. Vabbè.
11 settembre 2014 alle 14:40
Non sono una sessantottina, nel Sessantotto avevo tredici anni e mettevo appena appena il naso fuori di casa. Né voglio addentrarmi in una analisi delle conseguenze positive e negative del fermento che animò il periodo che siamo soliti indicare con questa definizione. Una cosa però mi colpisce, da parte di chi attribuisce conseguenze nefaste al Sessantotto, ed è questa: sembra che non ci si renda conto che quella data rappresenta una cesura, un cambiamento che doveva avvenire, inevitabilmente. Il mondo non è lo stesso rispetto al periodo precedente quella data, e in questo senso non mi sembra molto ragionevole dire “colpa del Sessantotto” o “merito del Sessantotto”: è accaduto, doveva accadere. Chi potrebbe immaginare i ragazzi d’oggi in una scuola come quella che hanno fatto i nostri fratelli più anziani? Chi potrebbe immaginare i valori, gli obblighi, i comportamenti di allora replicati al giorno d’oggi? È proprio un altro mondo e non ha senso dire “colpa del Sessantotto”, “se non ci fosse stato il Sessantotto”.
Con buona pace poi di tutti coloro che rimpiangono i bei tempi andati, anche dopo il Sessantotto si è studiato, ci si è impegnati, oserei dire che si è potuti diventare persone colte anche essendo nati dopo il 1950. Persino riguardo alla scuola mi capita di leggere talvolta: “l’attuale degrado è colpa degli insegnanti che si sono laureati dopo il Sessantotto, che non sanno nulla”. Allora, di grazia, spiegatemi. Se io, che ho 59 anni e sono una veterana dell’insegnamento, nel Sessantotto avevo tredici anni, che età dovrebbero avere gli insegnanti laureati prima di quella data? Settanta come minimo. Nessuno di essi è più in servizio nelle scuole (forse qualcuno nelle università), e menomale! O davvero si crede che la salvezza della scuola consista nel rispolverare ultrasettantenni, magari coltissimi, ma lontani anni luce dai giovani?
Infine, sulla famosa selezione meritocratica a suo tempo proposta da Berlinguer: io me ne ricordo bene, perché c’ero. Ero, come sono tuttora, un’insegnante di ruolo. Mi ero laureata a suo tempo, avevo vinto un concorso, avevo una discreta esperienza. Non ero contraria, come non lo sono ora, ad essere giudicata sul mio valore di insegnante. Ma la proposta di Berlinguer, che indignò tanti di noi, era questa: sottoporsi a una batteria di quiz, un fuoco di fila sui più svariati argomenti per ottenere, in caso di superamento, un incremento stipendiale. Un quiz. Nulla che verificasse la nostra esperienza, la nostra capacità di rapportarci con i ragazzi, il nostro modo di far lezione, la nostra onestà professionale. Un quiz. Per prepararci al quale, magari, avremmo trascurato un po’ il nostro lavoro ordinario, così umile e sempre tanto vilipeso, perlopiù da incompetenti.
11 settembre 2014 alle 14:51
C’è una interessante opera teatrale di Valerio Magrelli, “Il Sessantotto realizzato da Mediaset”, pubblicata da Einaudi. Ne consiglio la lettura.
11 settembre 2014 alle 15:12
sinceramente da quando berlusconi è molto meno potente di prima(al contrario di alcuni che dicevano il contrario, l’estate scorsa, sbagliando) evito accuratamente di leggere ogni cosa che riguarda mediaset: come dicono molti da sempre, ogni tanto bisogna anche tirare una riga e non fissarsi continuamente sul passato,esercizio troppo diffuso,in italia
..anche se ,la fininvest degli 80’s non sarebbe mai nata se non ci fosse stato il ’68
11 settembre 2014 alle 15:20
evidentemente alcuni non mi hanno letto bene
non ho mai sostenuto sopra,che “dopo il 68 non si è studiato”-certo si è studiato come prima,a volte magari meno ma con metodi piu moderni-da qui a dire efficaci,ce ne corre
il problema è la MANCANZA DI DISCIPLINA-e parte da quella data,prima era molto diverso
non opera bene la scuola con presidi che non si trovano, con insegnanti donna 40-50 enni petulanti,con studenti che arrivano a scuola alle 8,30 che crollano dal sonno,con gente con capelli inguardabili spacciati come senso artistico,con studenti che qua e la o non rispondono o se ne fregan e in casi limite fan pure gli aggressivi-ti raccomando poi alcune tipologie di genitori..
si dirà “ma in centro a bologna o a torino mica saran così!”
oh no in centro a bologna no..ma in periferia si,a volte…
l’italia mica è solo il centro delle città un tempo ricche ricche..
11 settembre 2014 alle 15:21
” 5 luglio 1984 – Diranno: era un sessantottino. Chi, io? “.
11 settembre 2014 alle 15:32
“ Sabato 21 giugno 1997, Lido Macarro, Maratea (PZ) – « Io sono di sinistra », tiene a farmi sapere il dolcissimo poliziotto della Stradale che mi ha fermato dopo che avevo fatto un sorpasso vietato sia pure avendo l’attenuante dell’esagerata lentezza dell’auto che mi precedeva. Si era subito capito che avrebbe « chiuso un occhio », quel tenerissimo tutore dell’ordine, fin da quando, sorridendo, mi aveva detto: « Sessantottino, eh? » (si riferiva alla tenebrosa capellosa barbosa faccia che continuo a esibire nella fototessera della patente), aggiungendo, a chiarire il concetto: « C’è chi li guarda male… ma io no ». E io, intanto, a giustificarmi: « Sono passati tanti anni… eh, sì, gli anni passano… », perché sapevo di avere sbagliato e temevo le inevitabili sanzioni di legge. E anche perché di quella foto, esagitata, esagerata, esasperata, come un brutto film italiano degli anni Settanta, tutto sommato mi vergogno, anche se, vent’anni dopo, si scopre che può anche tornare utile (a non prendere multe). E ora che ho dismesso la mia livrea di conducente per indossare la consueta più adatta più intima veste di diarista dilettante, penso che vorrei dirgli, a quell’affettuoso servitore dello Stato: « Sarai anche di sinistra, ma sempre poliziotto resti. Sulla strada, al freddo e al gelo, e se sparano, sparano a te. E, se come hai dimostrato di pensare – anche tu, come l’impiegata della posta, come il controllore sul treno, come il cassiere alla banca, come il portiere d’albergo -, il Sessantotto è stato, dopotutto, solo una barba, un capello lungo, un occhio spiritato, come in un brutto film italiano degli anni Settanta, allora io ti dico che avresti dovuto farmela la multa, sì, e bella grossa, farmela pagare, cara, tutta, subito. Per tutti gli errori che ho fatto, per tutti i sorpassi – vietati – che ho fatto. Perché i sorpassi, se non si devono fare, non si devono fare ». Ma poi ci penso meglio e concludo che ha ragione lui, ce l’ha sempre avuta, ha sempre capito tutto, il Sessantotto, le barbe, le multe, lui, sì, proprio lui, quel saggio, cinefilo, indimenticabile proletario in divisa. (Se erano carabinieri non andava così liscia) “.
11 settembre 2014 alle 15:38
“(Se erano carabinieri non andava così liscia) “.”
Notevole! 😀
11 settembre 2014 alle 15:40
Davide, per piacere. Non abbiamo bisogno di qualcuno che ci dica che tutto va mal, madama la marchesa. E non abbiamo neanche bisogno di luoghi comuni maschilisti, di luoghi comuni sui giovani, di luoghi comuni sui genitori, e tutte queste balle qua.
11 settembre 2014 alle 15:50
Perché le insegnanti donna 40-50 enni devono essere definite tout court “petulanti”? Alcune possono esserle, altre no. Gli insegnanti uomini a loro volta possono essere petulanti o avere altri difetti caratteriali.
La disciplina: siamo sicuri che la mancanza di disciplina dei giovani d’oggi sia diretta conseguenza degli sconvolgimenti provocati dal Sessantotto? E perché non dalla Rivoluzione Francese?
11 settembre 2014 alle 15:52
“ 8 maggio 1990 – Letteratura è: sapere con certezza che non ci sarà nessun romanzo « sul Sessantotto » tutt’al più un film e non è mai la stessa cosa. “.
11 settembre 2014 alle 16:15
giulio ,su una cosa che forse ricorderai, “panta-scrittura creativa” 1997,c’è uno scrittore e manager editoriale italiano che dice qualcosa tipo:
“..lo scrittore,gioca col luogo comune,almeno ogni tanto,addirittura a volte lo va verificare, il luogo comune” (suppongo voglia dire che alcuni luoghi sono un po meno comune di quanto si creda..)
ad ogni modo scusate la forma politically uncorrect sopra,ma davvero le cose a volte le si può dire anche in maniera..ruvida
quanto a :
“E perché non dalla Rivoluzione Francese?”
no marisa,dopo la rivoluzione francese a scuola non ci andavano comunque tanto, le masse ,la scuola pubblica in grandi numeri arriva un pò molto dopo-in realtà il 68-75 è un vero spartiacque, l’italia di oggi nasce li,non prima..
nb:marisa di uomini petulanti ne conosco davvero pochi..altri difetti si,ma non quello..
11 settembre 2014 alle 16:48
Per colpa di una mia domanda (peraltro circoscritta e con avviso di “fuori tema”) questa serie di commenti è andata del tutto fuori obiettivo: si parlava di Turolo e del suo testo. Chiedo scusa a Giulio.
11 settembre 2014 alle 18:18
Giusto parlare del testo di Turolo, le divagazioni lasciamole fuori. Un testo misurato, che restituisce uno scrittore, un poeta, parco, calato nella realtà, con un background di tutto rispetto, e che non lascia l’impressione di tirarsela. Naturalezza e la giusta dose di sana umiltà. Mi piace.
11 settembre 2014 alle 19:55
“ Domenica 7 marzo 1999 – « Un attimo dopo ebbe il piede destro staccato di netto. Quasi si metteva a ridere. Oh, la morte nello spazio era una lunga farsa. Ti tagliuzzava pezzo per pezzo, come un nero e invisibile macellaio. Strinse la valvola sopra il ginocchio, la testa presa in un turbine di dolore atroce, sforzandosi di non perdere i sensi, finché la valvola fu chiusa al massimo e il sangue fermato, l’aria respirabile. E continuava a cadere, a cadere; perché non c’era nient’altro da fare. » (Ray Bradbury, Caleidoscopio, in Il secondo libro della fantascienza, a cura di Carlo Fruttero e Franco Lucentini, 1961) “.
12 settembre 2014 alle 12:25
Gentile Antonio, questa tua “formazione” mi ha permesso di conoscerti, e leggere qualcuna delle tue poesie, che ho trovato in Internet: quindi volevo subito dirtelo: un’emozione molto forte. Come dire: qualcuno che trova la cruna dell’ago della poesia, nel cuore delle sue metamorfosi, nel cuore di una estenuazione da inizio nuovo millennio, e vi entra (non so perché questa metafora biblica) con una naturalezza che è al contempo (mi pare) frutto di un profondissimo lavoro di scavo, e di sobrietà. Non so se dirò bene. Batte nella tua poesia nient’altro che la tua voce, e il tuo tempo. Uno, due passi, fuori qualsiasi palude post-ermetica, quale limpidezza di sentire, quale autenticità. E mi viene voglia anche di esagerare. Genna scriveva in un pezzo che considero “ingiusto” e – se mi si passa il termine – profondamente sbagliato: “la poesia italiana fa schifo”. Dunque, tra gli altri, non aveva letto Antonio Turolo. Grazie.
12 settembre 2014 alle 16:50
” Venerdì 12 settembre 2014 – Poco fa ho letto uno – uno che, per così dire, conosco – che si lamentava che in Italia non si legge. Dopo che l’ho letto, ho pensato che, forse, tutto quello che voleva era essere letto lui. Ma di leggere lui, che si lamenta che in Italia non si legge, potevo farne, sia io che l’Italia, abbondantemente a meno. Ci vuole altro per – da – leggere. Parola di uno che, da quando legge quelli che si lamentano che in Italia non si legge, ha smesso di leggere. “.
12 settembre 2014 alle 18:52
La discussione si è incentrata prevalentemente sulla scuola. Al riguardo voglio aggiungere che un ostacolo frequente che incontrano gli insegnanti è dovuto ad una mentalità utilitaristica diffusa tra molti studenti e le loro famiglie.
Si può riassumere nella domanda-tormentone: “A cosa serve?” (ad es. “studiare il latino”, o la Divina Commedia, o l’inglese di Shakespeare?). Ne fanno le spese non solo le materie umanistiche, come può sembrare, ma anche quelle scientifiche, come fisica o matematica, quando non hanno una ricaduta pratica immediata.
Alla quale domanda rispondo sempre, con pazienza, che lo studio ha un carattere di curiosità gratuita, e libera. E magari un certo allenamento alla lettura si rifletterà in futuro nella qualità del tempo libero, nella scelta dei film o dei programmi televisivi.
A parte ciò, grazie per i vostri commenti, e a Giulio per l’ospitalità!
12 settembre 2014 alle 22:30
“ 26 ottobre 1986 – All’ammasso fra i tutti a duemilacinque trovo anche un Marcel ritrovato di Gramigna. Colto da improvviso pudore non lo compro. Dato che spero ancora di volerlo leggere. “.
P.s. Un cordiale saluto a Antonio Turolo, uomo giusto, direi.
12 settembre 2014 alle 22:54
Il ritratto non solo è lucido, ma anche molto bello. Come la poesia di Antonio, il cui “Corruptio optimi pessima” è stato giustamente incluso in una lista dei libri di poesia più importanti del decennio 2001-2011: http://www.pordenonelegge.it/it/tuttolanno/i-10-libri-piu-belli-di-poesia.html Sono contento che alcuni di coloro che sono passati per questa pagina abbiano sentito la curiosità di andare a leggere i versi di Turolo, e spero che altri lo facciano: le sue poesie sono tra quelle che rileggo più spesso, ogni volta rimanendo colpito, e turbato, dalla loro nuda potenza.
Solo: è un peccato che non riesca a scrivere se non durante le vacanze estive. Allunghiamogliele!
13 settembre 2014 alle 17:38
Com’è dosato Antonio. Anche una cosa un po’ rara, se devo dire. Un lato del carattere. Una dirittura mi pare. Il sacco è vuotato. Non c’erano mille cose, ma quelle che c’erano avevano tutta una luccicanza particolare. L’estate, il vuoto nella testa. L’estate. VSu Saba. Sembra il grande maestro – riconosciuto o meno – di tanta meravigliosa poesia italiana recente (forse anche più di Caproni, o di Zanzotto, che pure sono dei “fari” importanti).
15 settembre 2014 alle 15:58
“A cosa serve?” è una domanda da schiavi. L’uomo libero non se la pone.