[Questo è l’undicesimo articolo della serie La formazione dello scrittore, che appare in vibrisse il giovedì (ed è parallela a quella La formazione della scrittrice, che appare invece il lunedì). Ringrazio Raul per la disponibilità. gm]
Ho imparato a leggere e scrivere a quattro anni, seguendo le lezioni in tv del maestro Manzi nella trasmissione “Non è mai troppo tardi”, una gemma del canale unico della Rai. Ho un vago ricordo di un parente che viene a trovarci nella casa sul lago d’Iseo dove abitavamo allora. Io sono seduto al tavolo della cucina, davanti al piccolissimo televisore in bianco e nero, e mia nonna sta sparecchiando (o apparecchiando). Il parente cerca di parlare con me, io lo ignoro, infastidito. Un piccolo trionfo della comunicazione scritta sull’oralità – ma forse quel parente era noioso, tutto qui.
Le prime letture sono state soprattutto fumetti. Penso che il fumetto popolare, quello in cui l’inventiva dei creatori è assoggettata a rigide cadenze spaziotemporali, sia sempre stato sottovalutato per quanto riguarda l’influenza che ha avuto nel forgiare un linguaggio e un immaginario comuni.
Le mie tre stelle polari sono stati Tex, Paperino e Alan Ford, quest’ultimo incontrato più tardi, quando ero in prima media.
Ho imparato da Tex (ossia dal suo autore, Bonelli) il fascino di una storia che inizia fingendo di essere un’altra storia. Per esempio nel numero 34, Sinistri incontri, che da bambino consideravo a ragione uno dei più belli, all’inizio Tex si accampa di notte presso un bosco e viene svegliato dai rumori di un grosso animale ostile, che però non lo attacca; nel frattempo, due indios derubano un giovane e ricco messicano e lo abbandonano in una cava di pietra. Tex (il fumetto, ma forse anche il personaggio) mi ha insegnato la fiducia e la pazienza del lettore, che va avanti sicuro che prima o poi i rami laterali confluiranno nell’asta principale della storia, o che uno di questi affluenti si ingrosserà tanto da rivelare di essere lui stesso il fiume. Insomma, la differenza fra fabula e intreccio.
Però non credo che in Italia si sia mai visto niente di paragonabile ai primi settantacinque numeri di Alan Ford, quelli disegnati da Magnus. L’accoppiata Magnus e Bunker, quando funziona al meglio, crea opere di una densità, una genialità e una fantasia sbalorditive, che passano attraverso il surreale per ottenere effetti brutali e irresistibili di realismo. Mozzano il fiato certi dialoghi di Bunker (Luciano Secchi), la sua inesauribile generosità inventiva, servita a meraviglia dalle matite di Magnus.
Ricordo un giorno, credo fosse il 2005. Tiziano Scarpa ha mangiato a casa mia e adesso siamo attesi da un appuntamento urgente. Per caso, mentre io mi allaccio le scarpe, prende in mano un numero di Alan Ford che sto rileggendo in quei giorni, e mezz’ora dopo siamo ancora lì tutti e due, io orgoglioso come quando si presenta a un amico una ragazza bellissima, Tiziano – uno dei più grandi creatori di forme nella letteratura italiana contemporanea – che sfoglia lentamente il fumetto, attonito, e ripete: “Non è possibile… ma come fanno? Davvero erano solo in due e dovevano buttarne fuori uno al mese, di questi albi? In ogni vignetta, in ogni singola vignetta c’è un’invenzione! Ma da dove le tirano fuori?”.
Allora diciamo, per amor di sintesi, che ho imparato da Tex e da certe avventure di Paperino a congegnare le storie, e da Alan Ford a scrivere i dialoghi. Ma allora non lo sapevo ancora; mi piacevano e basta.
A parte le letture d’infanzia, fra cui il povero Pinocchio che solo molti anni dopo mi è apparso per quello che è davvero, ossia il capolavoro della narrativa italiana dell’Ottocento, il primo libro-libro che mi è stato regalato è stato Cuore.
Certi zii erano venuti in visita alla mia famiglia alla vigilia del Natale del ’67, e io, scartato il pacco, rimasi incantato davanti alla copertina morbida del libro, che riproduceva il viso di un ragazzino molto bello e molto dolce. Leggendo il risvolto, appresi che il protagonista si chiamava Enrico e che aveva giusto la mia età, otto anni.
Già da tempo la mia ambiziosissima mamma bergamasca, che veniva da una famiglia di Lumpenproletariat dove pestare i bambini era la norma e ora riproduceva con grande impegno filologico i suoi scenari d’infanzia, usava con me questa antica pedagogia: minimizzava i miei successi scolastici, storceva il naso davanti ai 7 che potevano essere 8 e agli 8 che avrebbero dovuto essere 9 (ai 10 poi mancava sempre la lode), mi riempiva di insicurezze e ansie da prestazione e intanto, in mia assenza e a mia insaputa, bolliva i coglioni ad amici e parenti dicendo a tutti che ero un genio destinato a orizzonti grandiosi. Il risultato era che si ritrovava in casa un disadattato, per di più odioso a tutti i genitori di figli “normali” e sogguardato con diffidenza anche dai coetanei. Questo spiega la scena che avvenne quella sera, quando voci squillanti mi convocarono alla sbarra davanti all’assemblea degli adulti. Lasciai il libro in camera, raggiunsi il tinello che mia madre si ostinava a chiamare soggiorno, dove trovai tutti seduti intorno al tavolo, e fra me e lei si svolse questo succinto dialogo:
“Allora? Sei contento del regalo degli zii?”
“Sì.”
“Hai detto grazie?”
“Sì.”
“Ti hanno regalato un bel libro, hai visto?”
“Sì.”
“E come si intitola, questo libro?”
“Mmh… Il cuore degli amici.”
Risate omeriche degli zii e sguardo incendiario di mia madre, del tipo “I conti li facciamo dopo, io e te”. Il genio si rivelava un cretino, o più esattamente un povero bambino che viveva in un tale deserto relazionale da avere rielaborato in quel modo il combinato autore + titolo visto in copertina.
Detto questo, alla lettura il libro mi piacque moltissimo. Forse non a caso, fra i racconti del mese quello che mi impressionò di più non fu il celebre Dagli Appennini alle Ande, dove la sequenza di sfighe che si accaniscono sul protagonista mi sembrò già allora troppo intenzionale, bensì Il piccolo scrivano fiorentino, un racconto dal contenuto assai più tragico, nel senso originario del termine.
Come ricorderete è la storia di un ragazzino di famiglia modesta, il cui padre è sfinito dal proprio lavoro di copista, lavoro che spesso è costretto a portare a casa per terminarlo la sera e guadagnare qualche soldo in più. Il ragazzo impara a imitare la grafia del padre e prende l’abitudine di alzarsi nottetempo e aggiungere qualche pagina a quelle copiate dall’uomo. Qui parte la classica divaricazione della tragedia greca: il padre, che non si accorge del gentile inganno, si rincuora della propria rinnovata capacità di lavoro e anche le entrate di casa ne beneficiano; in compenso il figlio, stremato dallo sforzo notturno, comincia a peggiorare nel rendimento scolastico, addirittura ad addormentarsi in classe, e paradossalmente nella ventata di serenità e fiducia che grazie al suo sacrificio investe la famiglia lui, proprio lui, è l’unica nota stonata, il cruccio, l’ingranaggio inceppato, al punto che quel babbeo del babbo finisce quasi per ripudiarlo. Che fare, si domanda Edipo? Lasciare che mio padre si ammazzi di lavoro purché continui ad amarmi o suicidarmi ai suoi occhi apparendo il pessimo figlio che in realtà non sono?
Arriva l’ultima notte. Il ragazzo vuole riconquistare l’affetto del padre e ha deciso di smettere di aiutarlo. Eppure… Qui De Amicis è grandissimo: la casa è avvolta nel silenzio, pare di sentire il respiro dei dormienti; scocca l’ora in cui il ragazzo per mesi si è alzato per compiere il suo compito segreto, e benché ogni ragione e argomento siano contro ecco che lui lascia di nuovo il letto, spinto da un insieme di abitudine, di tenerezza per il genitore e per se stesso – una bellissima pagina di verità, perché è proprio così che succede nella vita! La virtù è quasi diventata vizio. Si rimette al tavolo e scrive, scrive… e intanto il padre è alle sue spalle. Destato da un rumore, si è alzato in silenzio e finalmente ha capito tutto.
Ci credete se vi dico che a questo punto, poche righe prima dell’abbraccio che farà sobbalzare il ragazzo, delle grida del padre, della famiglia svegliata in piena notte per celebrare il piccolo eroe, a me arriva regolarmente uno sbocco di pianto?
Che ci posso fare. Ancora oggi piango perfino leggendo l’ultima pagina della notte dell’Innominato, quando il grande criminale torturato dalla coscienza, che non si è sparato solo perché gli faceva orrore immaginare il proprio corpo inerte nelle mani dei servi (che dettaglio!), all’alba sente in lontananza campane, rumori di festa, e si affaccia alla finestra, stupito che al mondo ci sia gioia, che ci sia qualcosa da festeggiare in questa grande cloaca, questo inferno terreno che Manzoni, facendo finta di niente, ha descritto così bene. Sì, aggiungiamo ai miei libri formativi I promessi sposi, letto in prima media (insieme ad Alan Ford, quindi) e poi riletto più volte e oggetto ora di una conferenza-reading che porto in giro per l’Italia.
Strano: i tre anni delle medie sono un periodo opaco nella mia memoria, di cui ricordo meno eventi non solo rispetto al ginnasio ma perfino alle elementari; eppure le cose decisive per il mestiere che avrei fatto poi mi sono successe proprio in quegli anni. Infatti, dopo quello che ho già raccontato, in terza ci fecero comprare una bella antologia della letteratura “mondiale”, scilicet occidentale, e qui mi imbattei in Kafka e Poe.
La prima cosa che mi colpì dei due furono i nomi. Mi sembrarono entrambi bruttissimi, Kafka per le vaghe assonanze scatofoniche e Poe perché tutti lo pronunciavano “Pu” (Edgar Allan Pu), il che lo metteva più o meno nello stesso recinto: cacca e pupù.
Poi lessi i racconti, per conto mio perché in classe la prof non ne parlò neppure. Di Kafka c’era Il cavaliere del secchio. Non un titolo fra i più famosi, e che certo non mi sparò la pagaiata nello stomaco che ricevetti un anno dopo, in quarta ginnasio, imbattendomi in miracoli come Un messaggio dell’imperatore, Un sogno, La metamorfosi, Il villaggio vicino, Davanti alla legge. Lì avrei capito che Kafka era Dio, e che Dio confermava questa tendenza irritante a incarnarsi negli ebrei e non nei bergamaschi. Intanto però in quel racconto c’era quanto bastava: quella prosa ipnotica, ingannevolmente dimessa, e quella realtà materica eppure intrisa di fantastico. La solitudine disperata del protagonista, la rappresentazione paranoica dell’avarizia dei vicini che gli negano il carbone, il secchio vuoto che diventa un destriero immaginario su cui fuggire verso montagne di ghiaccio e là perdersi, “irrevocabilmente”. Che brividi, questo avverbio conclusivo.
Di Poe nell’antologia c’era La maschera della morte rossa. Anche in questo caso non un racconto dei maggiori: un Poe gotico, barocco, lontano dalle secche e isteriche traiettorie narrative di racconti come Il gatto nero o Il cuore rivelatore, che liquidano proprio l’armamentario e gli orpelli del gotico e insegnano a intere generazioni di scrittori che l’orrore non ha bisogno di castelli fatiscenti: si nasconde, letteralmente, nelle pareti delle nostre case. Eppure questo racconto mi impressionò enormemente, e fece scattare in me per la prima volta il desiderio di aprire il cofano e guardare dentro il motore.
Lo rilessi diverse volte, infatti, e cercai di capire cosa, in quella prosa tanto più muscolare di quella kafkiana, suscitava in me certe emozioni. Naturalmente ora si può obiettare che tutto questo lavoro aveva un difetto grave: lo facevo sulla traduzione. La cosa era ancora più catastrofica in quanto gli attrezzi che avevo a disposizione, nella mia neonata officina, erano raccogliticci e improvvisati: non ero in grado di fare osservazioni al livello macro, trama e personaggi, per cui mi accanivo sul livello micro, analizzando per esempio l’ordine dei termini nelle famose accumulazioni tipiche di Poe, dove l’intervento del traduttore è purtroppo decisivo. Infatti i risultati del lavoro furono trascurabili. Quello che valeva era il lavoro in sé: pensare di smontare i meccanismi di un testo letterario, di comprenderne il funzionamento, compiendo un’operazione tanto diversa dal modo superficiale in cui mi insegnavano a leggere gli autori a scuola.
Ma a che scopo? Perché lo facevo? Penso di essermelo domandato, a un certo punto, e la risposta non poteva essere che una: volevo provare a riprodurli io. A scrivere storie.
E così a quindici anni tutto è cominciato, in compagnia di una Olivetti Lettera 32 regalata da un altro zio (tutti i miei amici avevano la 22) e di fogli A4 che allora nessuno chiamava in questo modo, ma che in compenso ricordo ruvidi al tatto, giallognoli e pesantissimi.
Mi accorgo di aver parlato più della formazione di un lettore che di quella di uno scrittore, ma credo che vada bene così. E’ ora di congedarsi.
Tag: Albero Manzi, Alessandro Manzoni, Bunker, Carlo Collodi, Edgar Allan Poe, Edmondo De Amicis, Franz Kafka, Luciano Secchi, Magnus, Raul Casadei, Roberto Raviola, Sergio Bonelli, Tiziano Scarpa
4 settembre 2014 alle 07:15
Grazie, Giulio Mozzi!, Sono l’autore di “La tenda gialla, cronache da un altro secolo” Devo intendere il messaggio come risposta per non aver superato le fatiche trenta pagine? Azzardo…e ti chiedo un telegrafico terzo commento da esperto del mestiere per dare un senso al mio tormento di scrivere. Come guardarmi in uno specchio. Grazie! Cesare Burci
4 settembre 2014 alle 08:35
Cesare, ti ho scritto.
4 settembre 2014 alle 09:15
D’accordissimo su Tex, un vero gigante.
Su Paperino, se nominato, non ci si puo’ poi passare sopra: innanzitutto, bisogna specificare quale autore di Paperino. Per me, esiste solo Carl Barks, il classico Genio con la G maiuscola, una di quelle menti che mi hanno realmente cambiato la vita. Inventore di personaggi divenuti veri e propri archetipi come Paperon de’ Paperoni, Gastone, Archimede Pitagorico.
Lo stesso Lucas, per dirne una, nel creare Indiana Johnes, si e’ ispirato a Carl Barks.
4 settembre 2014 alle 09:30
Molto bella e interessante questa formazione del lettore.
Condivido ciò che Montanari dice su Pinocchio – un capolavoro senza fondo – su Cuore – un libro i cui indubbi vizi retorici non cancellano alcuni pezzi di grande impatto emotivo – e su Poe, la cui forza rozza mi sedusse da ragazzino e tuttora mi irretisce – penso a Lo scarabeo d’oro, Una storia delle Ragged Mountains, Manoscritto trovato in una bottiglia, Il pozzo e il pendolo e naturalmente Arthur Gordon Pym.
Debbo invece confessare, e in questo mi sento molto solo, di non aver mai letto fumetti in vita mia… Ma c’è sempre tempo per rimediare.
4 settembre 2014 alle 14:12
A me piace leggere le narrazioni di questa serie anche come una serie di posture. Questa è una postura calma, solida e compassata (perché al massimo dell’onestà e dell’accorta umiltà). Prendere le distanze dal racconto “mitico” della nascita di uno scrittore mi sembra essenziale per vedere il proprio lavoro in un’ottica buona, rivolta al lettore cioè. Per questo il diminuirsi rispetto allo standard dei luoghi comuni sugli scrittori, in questa sede mi sembra una chiara dimostrazione del valore e della qualità della relazione autore-lettore che l’autore è in grado di costruire.
4 settembre 2014 alle 15:03
bello questo scritto, asciutto, privo di autocompiacimento, conduce il lettore ad immedesimarsi nel percorso dello scrittore sin dalle sue prime ingenue letture.complimenti Raul
4 settembre 2014 alle 16:52
Sottoscrivo ogni parola e ne sono alquanto sconcertata perché non sono uno scrittore e, piccolo particolare, sono una donna. A giudicare dalle mie letture sarei stata davvero “un maschio mancato”, come diceva mia madre. A parte Tex Willer (non sopporto il genere western), condivido l’entusiasmo per la genialità di Alan Ford e per l’epopea di Paperino. In quanto ai libri, bandito Cuore per via della retorica buonista (salvo poi riabilitarlo per i romanzi “socialisti”), mio padre mi “ordinò” di leggere Il Gattopardo e Delitto e Castigo. Avevo più o meno undici anni. Era già finita per me l’epoca di Verne e Salgari. Per i libri “da bambini” che facevano leggere a scuola, storie di anatre parlanti di autori scandinavi, mi ero fatta scrivere una dispensa da mio padre. Non riuscivo a leggerli, li trovavo insulsi. La mia famiglia non apparteneva al Lumpenproletariat, però anch’io leggevo e scrivevo con Manzi nella cucina davanti al piccolo apparecchio tv. Dalle medie al ginnasio cominciai a spaziare tra Poe e Kafka, Hemingway e Conrad, con il quale ho navigato per tutti mari del mondo, prima di innamorarmi dell’atmosfera noir di Con gli occhi dell’occidente. Anche per i miei genitori qualsiasi mio voto non era mai abbastanza e se centravo il massimo avevo fatto solo il mio dovere. Ho sparso tutte le lacrime adolescenziali su Leopardi e Manzoni. Quest’ultimo più per la musicalità ruffiana e da figlio di puttana della sua lingua, che ti fa il cuore a pezzetti come Puccini. Mio padre raccontava che Gadda morente si faceva leggere Manzoni, credo glielo avesse confidato Montale. Ma forse se l’era inventato. Viveva in un mondo tutto suo, mio padre, dove si era rifugiato per sopravvivere alle delusioni delle sue ambizioni sacrificate per colpa nostra. Avrebbe voluto essere uno scrittore o un poeta, come quelli di cui si attorniava e che frequentavano la nostra casa. Grazie ai suoi sogni sono cresciuta in una biblioteca, di cui mi sono nutrita sistematicamente, scaffale dopo scaffale, fino ai 21 anni. Russi, francesi, tedeschi, inglesi, americani. E quasi sempre in lingua originale. Ma in tutti quegli anni, nonostante i premi di componimento vinti a scuola, non ho mai scritto: per pudore, per eccessivo spirito critico o forse per non dar ragione a mio padre. Ho cominciato molto tardi, quando tutto l’accumulo non trovava più spazio e doveva in qualche modo uscire. Ma tutta questa formazione non fa di me uno scrittore, almeno non nel senso comune del termine. Perché cosa sia uno scrittore ancora non lo so. Sai dirmelo? Siamo così simili eppure così diversi. Non c’è nulla di razionale, credo, che spieghi perché uno è uno scrittore e un altro no. La genialità (odio la parola talento) non è spiegabile. Al momento ho individuato solo una componente della genialità: il furto con destrezza. Lo scrittore (come qualsiasi altro genio) è un ladro: di dettagli, storie, idee, vite; non è mai neutrale all’ascolto di quanto gli altri raccontano o di ciò che vede. I suoi sensi sono sempre in allerta e le mani pronte, il respiro trattenuto, pronto a ghermire il bottino e fuggire. Non riesce più a godere di niente, perché ormai tutto è in funzione del suo vizio o della sua necessità. Nemmeno dorme più. Sono un piccolo scippatore, che guarda con occhi grandi e lucidi i vari Ocean 11, 12….
Grazie
5 settembre 2014 alle 07:28
“ Lunedì 21 aprile 1997 – « La donna dello schermo ». Io, che leggevo i libri – di scuola -, credevo che fosse Dante. Lui, che capiva le cose alla lettera, e magari leggeva i fumetti, pensava che fosse il cinema. Sarà stato fesso ma ha avuto ragione lui. “.
5 settembre 2014 alle 12:57
Bello!
Io che di fumetti ne leggo a pacchi, bisognerà che prima o poi colmi la lacuna di Alan Ford.
La cosa su Dio che si reincarna sempre negli ebrei, e mai nei bergamaschi, è gustosa, non me la dimenticherò più. (Quante volte ho pensato: Lou Reed è Dio. Magari dopo Kafka è passato pure di lì. Chissà ora dov’è, se è già ripartito).
5 settembre 2014 alle 15:21
molto bello.
5 settembre 2014 alle 19:29
Andy, non dimentichiamoci Romano Scarpa, che ha scritto storie di paperi leggendarie (ti ricordi le lenticchie di Babilonia?), oltre ad aver creato personaggi simpaticissimi, tipo Brigitta, Amelia, Filo Sganga.
5 settembre 2014 alle 21:40
Sì, Brigitta e la storia del Babalù. Anche Don Rosa è stato un grande, certamente. Così come l’ottimo Al Tagliaferro. Tutti bravissimi, forse anche eccellenti, ma nel caso di Carl Barks, beh, qui parliamo di genio puro. Storie come Paperino e le uova quadrate, Paperino e l’oro dei Vichinghi, la disfida dei dollari, le sette città di cibola, il vello d’oro, la luna d’oro, la pietra filosofale e mille altre hanno creato un struttura tale che chiunque si sia occupato o voglia occuparsi di avventura non può – e non dovrebbe – non tenerne conto.
5 Maggio 2015 alle 09:30
[…] uno splendido articolo su Vibrisse racconti i tuoi primi approcci alla lettura passando per Tex, Alan Ford, Cuore, I promessi sposi, i […]