La formazione dello scrittore, 10 / Marco Candida

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di Marco Candida

[Questo è il decimo articolo della serie La formazione dello scrittore, che appare in vibrisse il giovedì (ed è parallela a quella La formazione della scrittrice, che appare invece il lunedì). Ringrazio Marco per la disponibilità. Con questo articolo la rubrica va in vacanza: riprenderà giovedì 4 settembre con il contributo di Raul Montanari. gm]

Marco CandidaHo scritto il primo romanzo a dodici anni. 1990. Quell’anno passavano in televisione la serie televisiva Twin Peaks. Avevo visto La Casa Russia con Sean Connery e Michelle Pfeiffer. A scuola leggevamo in classe Zanna Bianca di Jack London e avevo trovato presso le bancarelle in Piazza Duomo a Tortona Martin Eden e Il richiamo della foresta nell’edizione cartonata e molto voluminosa dei Fratelli Melita. Il richiamo della foresta è stato un grande libro, ma Martin Eden è stato un libro che ha rappresentato per me, come per molti altri, un caposaldo. Casa Russia. Twin Peaks. Martin Eden. Ricordo d’essermi seduto per la prima volta alla scrivania nella mia stanza soprattutto con le suggestioni e le atmosfere date da queste storie nella testa – come non rimanere suggestionati dalla colonna sonora composta da Angelo Badalamenti per la serie televisiva girata da David Lynch? E’ venuto fuori un romanzo lunghissimo scritto in sei mesi con tre diversi tipi di penne (una penna biro blu, una Bic nera e poi un bavoso tratto pen) in un quadernetto con la copertina rigida (che recava l’immagine della maglietta della Juventus con qualche adesivo acquistato in un negozio sottocasa dal nome Chewing-gum, vera e propria oasi di colori, plastica e gomma nel grigiore paludoso, di pietra e di stucco, della mia città natale) con fogli a spirale a quadretti e poi a righe. Ora che lo riguardo mi accorgo come nel quaderno i caratteri della grafia diventino sempre più piccoli man mano che la narrazione procede. Più il romanzo si scioglie e diventa solo una storia e non il tentativo di un ragazzo di scrivere, di fare lo scrittore e più la grafia si rimpicciolisce, cosa che forse suggerisce una forma di pudore: nelle parti dove non stavo facendo lo scrittore, ero soltanto me stesso con una penna e dei fogli e questo mi procurava imbarazzo, e scrivevo piccolo per rendere quello scritto accessibile solo a me, comprensibile solo ai miei occhi e a nessun altro sguardo occasionale – mi figuravo i miei genitori curiosare tra le mie cose e poi me li figuravo leggerle agli Elemento o ai Taverna o a Piero e Assunta. Ciò che è davvero interessante del quadernetto si trova nella prima pagina. C’è una griglia con un calcolo approssimativo del numero di parole all’interno del romanzo. Se non ricordo male era un discorso letto per la prima volta proprio presso Jack London. Tenere conto del numero di parole in uno scritto. Mi stupisce ora pensare che un ragazzino di dodici anni si appassionasse a dettagli come calcolare il numero di parole dei suoi romanzi perché è una questione molto molto tecnica – e nemmeno particolarmente praticata presso i più affermati scrittori nostrani. Di qua avevamo un ragazzo che aveva attaccato il suo romanzo con la descrizione del canto del gallo, delle foglie nella rugiada, l’alba e di là lo stesso ragazzo vedeva tutte quelle cose con sguardo aritmetico, considerava ogni emozione e palpito dato dalla prosa come quantità.

La verità è che non avendo messo date nel quaderno, se mi concentro non sono in grado di ricordare davvero se avessi scritto quel romanzo a dodici anni o invece a undici. In effetti c’è stato un momento alle scuole medie nel quale ho scritto così tanto che non mi sembra umanamente possibile d’essere riuscito a farlo in un periodo di tempo così breve. Santo cielo, in quel periodo ho scritto ben due thriller di centoventi pagine cadauno con la Olivetti Lettera 32 del nonno più il romanzo scritto a penna che ho appena detto, dal sapore più londoniano, e l’ho fatto nel mio stile avaro di spazi: margini inesistenti, l’interlinea non esiste praticamente. Non posso crederci d’aver avuto tutta quell’energia. Però è così che le cose sono andate. Ho faldoni su faldoni. Mazzi di fogli battuti a macchina che lo provano. Non sono allucinazioni. Il primo romanzo battuto a macchina parla di una spia russa la quale ovunque va lascia una scia di sangue, morte e distruzione dietro e attorno a sé. Ambientato a Londra e a Mosca. Avevo acquistato un paio di cartine stradali di queste città. Ci sono i nomi delle vie. Ricavavo le atmosfere e i dettagli degli ambienti dalle descrizioni dei romanzi di Ken Follet (in particolare L’uomo di San Pietroburgo) o Philip Cornford (un romanzo mozzafiato dal titolo Komplotto). E poi L’alternativa del diavolo di Forsyth oppure La Casa Russia o La spia che venne dal freddo di LeCarré. Anche se a quell’epoca lo scrittore che cercavo di emulare più degli altri (sopratutto per la ragione di certo non trascurabile che fosse tutto sommato più facile farlo) era senza ombra di dubbio il grande Jack Higgins. Le sue scene d’azione sono ancora oggi impareggiabili ai miei occhi, anche se a volte penso soltanto di tornare indietro nel tempo ogniqualvolta rileggo qualche pagina di quei libri e semplicemente ridiventare quel ragazzino di dodici anni che per la prima volta scopriva i piaceri del mondo della finzione acquistando volumetti dalle copertine sgargianti e un po’ osé – l’edizione paperback della Sperling & Kupfer di Una preghiera per morire presenta una scena con una donna molto sexy a seni nudi e un uomo inginocchiato davanti a lei col volto affondato nel suo addome; la copertina di Confessionale mostra il buco scuro di una Walther PPK in primissimo piano, grande e inquietante e il commento del New York Times in corsivo: “Teso, incalzante, tutto ciò che un thriller deve essere!”; per non parlare poi delle copertine dei paperbacks di Lawrence Sanders… – sotto casa sua. Ecco. Già allora quando leggevo Higgins o Forsyth o Mario Puzo per non parlare più tardi di Robin Cook o Richard Laymon o Brian Lumley o Ramsey Campbell la sensazione che provavo era di piacere misto a peccato. E’ sempre stato così. Mi vergognavo. Quando entravo in un negozio di libri e chiedevo l’ultimo volumone di King o acquistavo tascabili di Alistair MacLean o Clive Cussler diventavo ogni volta un peperone la voce riducendosi al contempo a un sibilo abissale. (Noto che a rievocare queste letture, anche la mia prosa si compiace di quei bei tempi andati diventando felicemente dozzinale). Questo senso di peccato e di vergogna oggi lo giudico addirittura importante. Prima di tutto perché compiere un’azione provando senso di peccato, vergogna significa compiere quell’azione essendo consapevoli che esistono libri e libri e che esistono gesti e gesti e che ancora non ci attraversa in maniera indifferente compierne uno al posto dell’altro: abbiamo ancora, grazie a Dio, capacità di discernimento nella testa. Poi è importante perché acquistare un libro superando senso di peccato, vergogna e imbarazzo (diamine, in fondo non lo stavo chiedendo in prestito, stavo sborsando dei soldi per averlo!) significa attribuire un valore del tutto personale a quei libri. Si tratta di libri che forse non valgono molto (non sono L’urlo e il furore di Faulkner o Cuore di tenebra di Conrad o Ragazzi di vita di Pasolini o Pavese o Cassola o Fenoglio), però sono libri che acquistavo perché, per come la vedevo, mi sarebbero serviti. Per intrattenermi. Per farci cappellini di carta. Non ha importanza. Mi sarebbero serviti. Li acquistavo soprattutto perché leggendo libri commerciali riuscivo a capire meglio ingranaggi che mi sarebbero tornati utili per le storie che avevo in mente e volevo raccontare – storie non necessariamente commerciali. Però forse dentro di me stava  nascosto solo un gonzo lettore di robaccia di bassa qualità in cerca di qualche ora di svago, qualche pagina con tette e scene hot e qualche immagine che alimentasse la parte più morbosa della sua psiche. Può certamente essere. D’altra parte entrare in una libreria e vergognarsi di acquistare un libro non significa forse riconoscere che quel libro è dotato di una sua sicura forza scandalosa? Voglio dire, più o meno sappiamo tutti che Kafka, Dostoevskij, Baudelaire e che in generale la grande letteratura che adoriamo, celebriamo e studiamo contiene novantanove su cento elementi di scandalo – cosa dire ad esempio di quell’amabile componimento poetico firmato da Rimbaud e Verlaine dal titolo Sonetto del buco del culo? Però acquistare questi romanzi scandalosi non genera nessun problema. Quella è letteratura. Anzi, ti guardano tutti con rispetto. Invece acquistare un Harmony oppure Harold Robbins o Jackie Collins è qualcosa di cui, tutto sommato, provare vergogna (o almeno ai miei tempi, quando avevo dodici, tredici, quindici anni; oggi è un po’ diverso, ci siamo inventati gli ipermercati dove possiamo peccare liberamente senza arrossire davanti a niente: la cassiera del supermercato è infatti troppo cotta dal superlavoro per stare a emettere giudizi di ordine morale sui nostri acquisti e regalarci un’occhiataccia; per non parlare poi di chi oggigiorno acquista direttamente e-book o acquista libri su Amazon o su Internet in generale). Leggendo tutta quella robaccia per camionisti a dodici, tredici, quattordici anni stavo cercando un territorio scandaloso. Stavo cercando di ribellarmi: di cercarla, la letteratura, non volevo trovarla e basta, volevo cercarla, riconoscerla. E in fondo penso che sia esattamente questo quello che la letteratura fa e ha sempre fatto. Si allarga in luoghi contaminati, corrotti. Fotoromanzi. Fumetti. Horror. Stiamo larghi. Mettiamoci a nostro agio. Comunichiamo. Leviamoci dal grugno quest’aria da professori in cattedra. Nascondiamoci. Vediamo un po’ se veniamo fermati e riconosciuti da tutta queste pletora di somari che ormai ripete concetti “elevati” solo a macchinetta. Mentre scrivo queste righe, con meno ironia di quel che sembra, mi viene da pensare che presto dall’horror, i fumetti, i fotoromanzi e le strisce comiche del diario Smemoranda, la new weird o chissà cos’altro si dovrà cercare un territorio del diavolo nei poemi cavallereschi o nelle forme letterarie medievali. Il principio comunque resta quello enunciato.

Certamente questo senso di peccato e imbarazzo si è addirittura espanso mentre mi dedicavo ai miei primi esperimenti letterari. Certo, lo ricordo bene. Lavoravo come un matto ai miei romanzi senza margini e senza interlinea. Pestavo sull’Olivetti Lettera 32 del nonno per ore. Rinunciavo anche agli allenamenti di pallone ai quali peraltro a causa di un’infezione ai tendini avevo dovuto dire addio molto presto passando uggiosissimi pomeriggi novembrini in casa – e se cerco di ricordarmi quei momenti, nella stanza dell’appartamento dei miei nonni, col letto, il tavolo pieghevole di legno con la superficie foderata di un panno verde che i miei nonni avevano utilizzato anni per giocarci a bridge o a scala quaranta prima di prestarmelo per appoggiarci la macchina per scrivere e i fogli, l’immagine della portafinestra che mi si forma nella mente è sempre quella di un rettangolo bianco con vetri scurissimi, il ricordo dei nubifragi è molto persistente dentro di me, a volte mi fa venire i brividi. Quando arrivavo in fondo alle mie storie fatte di spie, inseguimenti, sparatorie, ma anche molti pensieri sulla morte, la vita, l’esistenza non avevo il coraggio di far leggere niente di quel che scrivevo a nessuno. Questo soprattutto a causa del senso di peccato. Avessi scritto poesie o racconti che tentavano di essere graziose allegorie sul significato della vita o sul creato probabilmente non avrei avuto scrupolo a farli leggere in giro. Non ci sarebbe stato appunto niente di cui vergognarsi. Invece scrivevo quello che scrivevo: storie di spie, assassini e più tardi addirittura storie horror, tunnel degli orrori con cadaveri veri all’interno oppure uomini che uccidevano sotto ipnosi oppure ragazzi che si facevano masturbare da donne che si animavano improvvisamente da riviste per adulti, tutte cose di cui provare vergogna e solo vergogna – specialmente per un ragazzo di provincia come me. Ho dovuto aspettare fino a quindici anni prima di trovare un amico che mi prendesse seriamente e che condividesse con me i miei stessi gusti – e peraltro era un polacco naturalizzato italiano.
In realtà non era nemmeno per una questione di gusti che scrivevo quello che scrivevo. Sono quasi tentato di affermare che ho scritto quello che ho scritto anche non piacendomi completamente. Tuttavia, come ho già detto, ho scritto così tante pagine che mi sembra assoluta fantascienza sostenere una cosa del genere con reale convinzione. In ogni caso stavo cercando me stesso. Questo è sicuro. Il mio vero io stava facendo le prove per scrivere graziose allegorie sul significato della vita o sul creato e prima di arrivarci aveva bisogno di fare sperimentazioni su un territorio molto differente. Dovevo essere sicuro. Chissà, magari è così per tutti. Tutti quanti sotto sotto vorremmo arrivare lì, a dire qualcosa sulle questioni fondamentali. Elmore Leonard. Clive Barker. John Grisham. Dan Brown. Magari c’è una parte di loro che vorrebbe scrivere ciò che sono e basta (scritti d’oscena semplicità e pensieri di profondità sconvolgente) e invece essendosi affermati con grande successo come scrittori di genere, ormai pensano di non poterlo più fare e basta oppure addirittura che farlo sia pretenzioso, non sia giusto. Stavo comunque facendo già allora subito dai dodici, tredici anni un percorso di costrizione e al tempo stesso di liberazione. Per sentirmi libero avevo bisogno prima di sperimentare il carcere delle regole e delle forme predefinite. Ed è seguendo questo processo di liberazione in fondo che mi sono appassionato al genere fantastico e in particolare all’horror. Ho scoperto che per scrivere un racconto horror (a sedici anni ho scritto un romanzo dell’orrore, anche questo piuttosto corposo, dalle dimensioni vere, centoventi pagine scritte molto piccole con la prima macchina da scrivere elettronica; parlava di una casa infestata dalla polvere, una quantità spaventosa di polvere) non bisognava nemmeno documentarsi più che tanto. Un mostro poteva saltare fuori dall’armadio della mia stanza oppure una forza oscura poteva avvicinarsi a me in qualsiasi momento da dietro le spalle – anche proprio in una situazione come questa, mentre scrivo queste parole o voi le leggete. Invece per scrivere spy-story devi tirare in ballo per forza CIA e KGB oppure l’Intelligence Service o il Mossad. Le storie devono essere ambientate a Quantico in Virginia o a Washington o a Mosca, San Pietroburgo, Nairobi. Ci sono pistole. Veleni. Microspie. Scrivere una storia di spie è molto impegnativo e se vuoi cimentarti con una storia così devi giocoforza appassionarti alla documentazione. Ogni evento, per quanto fantasioso, va incastrato in una cornice di riferimenti reali, credibili. Questo lo capisce anche un ragazzino di dodici anni.

Come senz’altro comprenderete leggendo queste righe per me è fondamentale insistere sull’età e sul fatto di aver cominciato presto a scrivere perché a essere sinceri mi è sempre sembrato un po’ ridicolo o patologico quando qualcuno decide di chiudersi in una stanza a riempire fogli bianchi di parole a ventidue anni o a trentacinque o a quarantasei anni (nel pieno della sua apertura verso il mondo, la vita, pieno di energie). No. L’età per imbarcarsi nelle imprese titaniche e per avere la volontà di realizzare sogni – un modo come un altro per dire fabbricarsi le sbarre del proprio carcere con le proprie mani – è intorno ai sette, otto, dodici anni, quindici. Più o meno come l’età per voler essere un eroe. Per decidere di farsi ammazzare in nome di un ideale. Sono i ragazzi di venti, venticinque anni che imbracciano un fucile e si buttano oltre la collina dove sta appostato l’esercito nemico. Qualcuno con un minimo di sale in zucca certe cose non le fa e basta. Una persona matura non lo fa e basta. Ho cominciato a scrivere presto e ho cominciato a leggere presto. Se dico queste cose tra l’altro lo faccio perché credo sia inevitabile pensare a questo punto di essere di fronte a un individuo che ha trovato nella lettura e nella scrittura un’ancora di salvezza, una passione. Il mondo è pieno di persone che riempiono diari di parole. Di grafomani. Cosa diversa è però quel soggetto che per scrivere un diario privato cerca di capire come altri tengono diari. Si compra dei libri e se li legge. Qui non siamo più in presenza di una semplice passione per la lettura di diari o di biografie di grandi uomini o di agiografie. Questo non è più leggere un buon libro. E’ documentarsi. Indagare. Apprendere. Approfondire. Ecco. Lo spartiacque sta qui. Da un lato uno stagnetto dove si sguazza con il salvagente, i braccioli e una palletta e dall’altra un oceano spesso tempestoso, ruggente, difficile da attraversare, soprattutto sconfinato. Si può essere nuotatori in uno stagnetto e nello stagnetto si può nuotare ottimamente (e ce ne sono in giro autori di libri di questo tipo che sostengono di aver letto quattro o cinque grandi opere e poi alé sotto a scrivere o che hanno scritto un mezzo sonetto e alé richieste di pubblicazioni a gogò), ma soltanto chi decide di nuotare affrontando l’oceano in tempesta, solo quello sarà uno scrittore.
Dunque ho preso le mie decisioni presto – dodici anni appunto. A dire il vero le cose non sono nemmeno andate così. Non credo di aver deciso un bel niente. Lo facevo e basta. Scrivevo. Però dentro di me (sono nato il 4 settembre; il mio segno zodiacale è Vergine) qualcosa mi spingeva a voler fare questa cosa che facevo e basta perché farlo mi piaceva il meglio che potessi. Quello che scrivevo doveva somigliare il più possibile a qualcosa di vero, a un libro reale, a un racconto reale, vero, autentico, vero. A me non importava avere uno stile. Non ho mai pensato: “Sono io che sto scrivendo”. Non ho mai pensato: “Sono io il padrone qui”. Il foglio è bianco e ci faccio quello che mi pare. Sono il comandante su questo territorio che mi è costato poche mille lire giù dal cartolaio in Piazzetta San Simone. No. Pensavo invece di voler scrivere per catturare sul foglio, fermarlo lì, farlo comparire lì, quel qualcosa di magico che percorreva i fogli stampati dentro i libri nelle librerie, nelle biblioteche, e che usciva in suoni, parole e immagini dalla televisione. Avevo in mente Robert Louis Stevenson. Avevo in mente Emilio Salgari. Avevo in mente Agatha Christie. Come ho già detto, I segreti di Twins Peaks di David Lynch. Quel libro complicato che si chiama Il vecchio e il mare di Hemingway e che a quell’età – sempre i fatidici dodici anni – avevo solo sfogliato lasciandomi suggestionare dalle pagine piene di parole e dagli acquerelli che facevano da illustrazioni, senza nemmeno cercare ancora di leggerlo veramente. Volevo provare a catturare quella magia. L’avevo percepita soprattutto in quei libri ma già allora sapevo che quel che avevo avvertito in quei libri si trovava distribuito in varia misura anche in tutti gli altri. Ho sempre pensato a me stesso come a un tramite. A volte penso sia questo il talento. Non tanto pensarsi un generatore di energia, una fonte primigenia, unica. Piuttosto pensarsi come un trasmettitore in un circuito elettrico più vasto. Un campo elettrico percorso da un particolare tipo di cariche che insieme formano energia cosmica. Quest’energia passa attraverso ogni libro. Ti attraversa mentre non te ne rendi nemmeno conto e non è questione di bravura e nemmeno d’età. Passa e basta. Ed è ferma lì, sulla pagina. Magari solo per una, due, tre pagine. Magari passa a intermittenza. C’è in un paragrafo, ma nel paragrafo successivo scompare. C’è intensissima in una riga e poi devi aspettare altre cento o cento cinquanta righe perché ricompaia. Non dipende da niente. E’ un interruttore. Quando l’interruttore viene premuto l’energia passa. Quando c’è lei, non ci sei tu, sei spento. Quando ti riaccendi, l’energia se ne va via. Davvero. E’ così che le cose vanno. E’ una descrizione oggettiva di quello che accade. L’interruttore c’è. Non si sa dove sia. Non si sa come si faccia a premere e non si sa mai – non esiste abbastanza esperienza, esercizio o intelligenza al mondo. Però quell’interruttore c’è. Disattiva te, fa passare l’energia. Ecco perché sono convinto che ventidue anni, trentacinque anni o quaranta sei anni siano una brutta età per mettersi giù e cominciare a scrivere. C’è troppa energia in circolo. L’interruttore è sempre on per noi e off per l’energia cosmica. Una depressione aiuta l’energia cosmica. Una patologia aiuta a spegnere il nostro interruttore in favore dell’energia cosmica. Una batosta d’amore. Però se gli assegni in banca arrivano con regolarità l’energia cosmica non potrà mai veramente arrivare. Tanto più siamo presenti, quanto più quella troverà comodo passare altrove. Già, perché questa energia cosmica di cui parlo e che non è affatto un escamotage per intrattenere il lettore ma è più vera della tastiera Skintek dove batto le lettere che compongono questo scritto, è senz’altro un’energia amica.
Ovviamente l’energia cosmica passa quando scriviamo così come quando leggiamo. Anche quando leggiamo siamo spenti. E’ l’energia cosmica a essere di scena. Ci trasporta in un altro mondo. Ci fa viaggiare e ci fa vibrare. Quando leggiamo, non decidiamo niente e se c’è abbastanza energia non decidiamo nemmeno di muovere da sinistra a destra gli occhi. Accade tutto autonomamente. Non siamo più lì. Non stiamo nemmeno leggendo. Niente. L’unica cosa che sappiamo è che quando stacchiamo gli occhi dal testo e guardiamo l’ora pensiamo: “Ho letto così a lungo?! E’ già l’ora di cena?!”. Tutta colpa dell’energia cosmica dei libri. L’interruttore è stato trovato ed è stato premuto. Mi chiedo se non sarebbe possibile ipotizzare uno scenario dove l’interruttore non si potrebbe premere di nuovo. Appena finito il romanzo che si sta leggendo, si ricomincerebbe da capo, senza staccarsi mai dalla lettura, mai, stando lì per sempre. Roba che a pensarci ti fa ringraziare i rumori e rumorini che ti circondano e ti fanno perdere la concentrazione… In effetti però mi è successo abbastanza spesso che l’interruttore rimanesse sull’off per me e fosse on per l’energia cosmica per una quantità di tempo piuttosto lunga. Finisci un libro e sei come stordito. Il fatto è che con la testa sei ancora là. Là non è là. Non importa il luogo o il tempo o a cosa stai pensando. E’ un’illusione. Tutta quanta. In realtà ti trovi ancora avvolto nella dimensione dove domina l’energia cosmica, l’energia delle energie, bianca e gialla e verde e rosa e blu e scarlatta e di tutti i colori, papposa o intangibile, profumata o inodore, che sa di zuppa o di crostata della nonna. Insomma sei là anche quando hai chiuso il libro. Sì, perché non occorre certo dire che questa energia che percorre tutte le cose e che trova e preme interruttori di tutto non arriva soltanto dai libri. Si capisce a intuito. Può arrivare appunto da tutte le cose, da tutto. Un albero. Un gallo. Una nuvola. Un quadro. Un ghiacciolo al limone. Un biscotto Plasmon. Qualsiasi cosa. L’energia è lì pronta ad avvolgerti e a farti suo e come ci siamo già accorti più sopra devi ringraziare che questo tipo di energia non riesca a farti mai suo completamente. Non vogliamo mai amicizie troppo invadenti. Il fatto è che questa energia di cui parlo ti rimane in testa. Puoi accumulare immagini e parole e suoni che la facciano ritornare. Infatti dopo un po’ non serve nemmeno più leggere troppo per ritornare in seno al suo calore latteo, la sua ombra arcobaleno si proietterà su di te in qualsiasi momento. L’interruttore potrà scattare molto più facilmente sparandoti in dimensioni diverse. Sappiamo in fondo bene tutti quanti, noi che siamo lettori e chi di noi scrive, di che cosa qui stiamo parlando. Per me che scrivo e leggo dall’età di dodici anni (e intendo leggere e scrivere opere di finzione o saggi; di sicuro non scarabocchiare su un foglio il mio nome, ah,ah,ah, ringrazio il simpaticone che ha fatto la sua ironia, ora può anche andare a casa dalla mamma a controllare che i suoi assegni siano arrivati con la solita regolarità) questa faccenda dell’interruttore è un problema reale e appunto spesso mi ritrovo a vagare per la stanza o per le strade con l’interruttore spento rapito dall’energia cosmica. Le compagne che sono state con me o che ci stanno ancora oggi (alle donne gli uomini con l’interruttore off non dispiacciono; c’è qualcosa, piaccia o no, che le attira) a volte possono persino sentirla questa energia percorrermi (le donne di solito hanno il potere di iniettarsi nel midollo cerebro-spinale dei propri uomini e un paio delle mie io le ho sentite viaggiarmi attraverso le terminazioni nervose, lungo tutti i muscoli, in ricognizione) e se non scappano via terrorizzate trovano appunto in questa forma di assenza qualcosa di molto fascinoso. Percepiscono l’esplosione multicolore che è l’energia cosmica dentro di me. E del resto alcune delle donne che ho avuto la fortuna di frequentare hanno alimentato ben bene questa forma di energia. Monica Winters è stata un corso accelerato, e qualche volta durissimo, di editing (mi faceva editing anche quando le chiedevo di passarmi il tovagliolo a tavola), Luisa Pianzola mi ha fatto apprendere tutto del meraviglioso mondo della poesia italiana, Elizabeth Harris mi ha introdotto a tutti i segreti dell’arte della traduzione ma anche, non posso ormai non citarla, Lorenza Ronzano con la quale ho scritto gomito a gomito un romanzo, è stato come fare un gruppo studio solo che ognuno si scriveva il proprio libretto. Queste sono le persone che in carne e ossa hanno tenuto premuto l’interruttore e poi naturalmente c’è quel grande patrimonio che è Internet e le persone che ci scrivono su. E quel che accade quando l’interruttore è off per me e on per l’energia cosmica leggere o scrivere. Altri potranno dipingere. Cantare a squarciagola. Ballare il tip-tap. Il sottoscritto legge e scrive. Passo da un libro alla scrittura o dalla scrittura a un libro oppure mi siedo su una poltrona e sto in bambola circondato da una bolla di calore latteo. Come ho detto sto pensando. Ma non è pensare. Il pensiero funziona come per quello che abbiamo detto succede nel leggere un libro. Avviene tutto autonomamente. Non sei nemmeno tu che sposti gli occhi da destra a sinistra e da sinistra a destra. Quando leggi, leggi davvero, non è possibile pensare di stare leggendo, si legge e basta. Lo stesso è per il pensiero. Quello vero. E’ quasi un essere senza forma. Puro essere. Puro movimento. Onniscienza. In effetti non ho parole per descrivere un bel niente dal momento che quando accade tutto questo non sono là. L’energia è dentro un corpo senza anima e senza pensieri. In questo momento in questa voce ci sono milioni di voci ma come se fossero tutte quante equalizzate e allineate tanto da dare l’illusione di sentirne una soltanto. E’ una collisione di mondi perpetua. Un’esplodere di stelle. Attraversamento di fantasmi. Non sono io. Non ci sono. In questo momento sono in una stanza buia, in una dimensione di non essere. Sono nel nulla. Quando ritornerò ci saranno delle tracce dentro di me. Ci sarà la traccia lasciata da questo scritto. Tracce lucenti. Orme arcobaleno. Non molto di più.

Ho letto la biografia di Andre Agassi Open e devo dire che anch’io come è successo per il grande campione statunitense col tennis ho avuto a che fare con la scrittura molto presto e quasi negli stessi termini. Per me però non è andata come per lui. Non c’è stato mio padre a costringermi a picchiare palle da tennis con una racchetta da quando sono nato. Nessuno mi ha mai attaccato libri a penzolarmi sulla culla o mi ha messo in mano una penna precocemente. Nessuno mi ha mai nemmeno passato un romanzo o un libro da leggere. Invece ho fatto tutto da solo. Tutto da me. Quando ho letto Open ho pensato che dopotutto il padre di Agassi abbia voluto dare subito un futuro al figlio e che per una generazione come la mia (ma in effetti essendo una non-generazione non è possibile parlare di generazione anche solo quando si nega che esista: in fondo ha perfettamente senso a pensarci, non è vero?) avere un futuro anche a queste condizioni (non potere smettere di colpire una pallina da tennis; essere solo una scimmia ammaestrata) non è qualcosa di disprezzabile. Non lo è più. Potrà fare orrore, ma così secondo me stanno le cose. Almeno Agassi si è ritrovato con un futuro. Noi che siamo lasciati liberi, oggi cosa abbiamo? Se penso a me stesso, penso di essere invece una scimmia auto ammaestrata. Ecco a che cosa portano libertà e desiderio. Desidera liberamente, amico, e diventerai una scimmia auto ammaestrata. Ecco tutto. Fine della lezione.

Mia madre ha portato a casa una Lettera 22 (prima che scoprissi la Lettera 32 del nonno e poi acquistassi una macchina da scrivere elettronica per poi passare alla rivoluzione del personal computer e infine al portatile) e ancora oggi ricordo l’ingresso della 22 in casa come fosse ieri. Mia madre l’aveva messa sul tavolo della sala dentro una custodia rigida nera. La custodia aveva subito cominciato ad attirarmi più o meno come il monolite del film 2001 Odissea nello spazio attira gli uomini preistorici o più tardi l’equipaggio d’astronauti. Ho aperto la custodia, ho trovato dentro la Lettera 22. La gabbia era di colore arancione. Ho accarezzato la dentiera di tasti neri. Ho battuto qualche tasto. Poi più tardi quel giorno ne ho parlato a mia madre. Lei mi ha preparato un tavolino, ha messo sopra un plico di fogli, una lampada, ha messo il tavolino nella sua stanza vicino alla finestra perché la luce si riflettesse direttamente sulla macchina per scrivere e mi ha spiegato brevemente come far funzionare l’Olivetti. Poi mi ha lasciato lì a pasticciare e dopo quella volta da quando dal soggiorno di casa la Lettera 22 mi ha sorriso più di vent’anni fa con la sua dentatura fatta di tasti neri e lettere bianche non ho più smesso. Ho scritto e letto. Letto per scrivere meglio e scritto per leggere meglio – e dopo un po’ letto e scritto per vivere meglio. Ho fatto tutto da solo. Mi sono comperato i libri da solo. Ho scritto da solo. Studiato da solo. Sbagliato e fatto giusto da solo. Persino in segreto. Per anni. Almeno una decina fino a quando non ho scoperto Internet e su Internet altre persone come me. Tuttavia se vado indietro con la memoria e penso a tutto quel tempo impiegato in quel modo appunto non riesco a vedere nient’altro che un ragazzo che colpisce una pallina da tennis come una macchina, senza nemmeno desiderarlo realmente, senza nemmeno saperlo. Il desiderio dentro di me si è come pietrificato. Possiamo veramente dire che un desiderio pietrificato non sia ancora pur sempre un desiderio? Lo è. E’ un desiderio ingombrante, solido, che non riesco più a mettere da parte. Non c’è niente che può demolirlo ormai. Nessuna delusione. Nessuna sconfitta. Niente. E’ duro. Indistruttibile. Non posso smettere di desiderare. A volte vedo colleghi andare avanti, avere soddisfazioni, successi. A volte giudico questi successi palesemente immeritati. Sto male. A volte vorrei sprofondare nella terra, mangiare un quintale di cotone o di gesso. Ha lo stesso sapore della delusione che ho in bocca. Devo uscire. Camminare. Se bevessi, immagino mi attaccherei a una bottiglia. Negli Stati Uniti era più facile. Il cielo aiutava. I prati verdi. Gli americani sorridenti. Poi succede che la consolazione vera però mi venga sorprendentemente proprio da ciò che mi ha procurato quel dolore. Mi aspetto infatti che forse non voglia più aprire un libro. Che non voglia più leggere. Basta. E’ finita. Finita. I miei amici. Mi hanno completamente tradito. Goethe, a cosa mi sei servito? E tu, Shakespeare? E tu, invece, Thomas Mann? Credi che sia stato facile stare in tua compagnia a vent’anni, Marcel Proust? Invece proprio aprendo i libri ritrovo consolazione. Lettura e scrittura. Ricominciamo. Riproviamo. Non mollare. Tanto non posso. So già che presto o tardi l’interruttore scatterà sull’off e sarò di nuovo nella stanza buia e l’energia cosmica mi avvolgerà con il suo canto celestiale e il calore latteo e starò di nuovo colpendo una pallina da tennis come Agassi. Ci starò immerso di nuovo tutto dentro e non ci saranno più ingiustizie. Ludwig Wittgenstein. Baruch Spinoza. Carlo Sini. Emanuele Severino. Friedrich Nietzsche. Arthur Schopenhauer. Sono ancora miei amici. Mi aiuteranno. Il mio desiderio è ancora dentro di me. Pietrificato. Monumentale. Me ne accorgo ogni giorno. Ogni volta. Ha ostruito il passaggio a così tanti altri desideri nel tempo. Così tanti… Per tanto tempo mi ha bloccato. La mia gente non lo capisce. Loro non capiscono quanto impegnata possa essere una persona come me, una persona con un idolo di pietra grigia eretto nel centro dell’anima, consapevole dell’esistenza dell’interruttore e in balia dell’energia cosmica. Non riusciranno mai a capirlo. Ci vuole serietà. Ci vuole costanza. Dedizione. Sottrazione di tempo. Dunque ecco illustrato qui di seguito come sono diventato la scimmietta ammaestrata di me stesso.

Sul finire della prima media (lo stesso anno che leggemmo Zanna Bianca in classe e per conto mio scoprii in una bancarella Martin Eden e Il richiamo della foresta) il mio professore di italiano ci aveva dato una lista di romanzi da leggere. Così. Solo una lista di nomi d’autori. Il compito era scegliere un paio di titoli e poi andarglieli a raccontare al rientro dalle vacanze. Niente che possa far gridare a intenzioni di matrice pavloviana. Il sottoscritto si è comprato il quaranta per cento della lista. Ci saranno stati dentro novanta titoli. Novanta nomi di autori. Bene, durante quell’estate me ne sono letti una marea di autori presenti in quella lista. Ho cominciato con Bulgakov e Il Maestro e Margherita. Un buon inizio è importante. Avessi cominciato con un romanzo noioso mi sarei bloccato in partenza. Invece ho trovato Bulgakov e un po’ di magia. Poi Pian della Tortilla di Steinbeck. Poi Uomini e topi. Poi Guerra e pace. Le illusioni oerdute. Oliver Twist di Charles Dickens. Ecco. Ricordo soprattutto di essere stato attratto subito dai libri voluminosi. Più erano spessi, più mi attiravano. Mi sembra un dettaglio importante. Significa che volevo spendere del tempo con le parole. Leggevo per imparare a scrivere, ma volevo anche diventare un lettore. Non mi interessava dare un’occhiata superficiale e dire: “D’accordo, ho capito. Si fa così. Corriamo a scrivere”. Volevo imparare il movimento del lettore e quello dello scrittore. Mi stavo appunto ammaestrando. Volevo diventare una macchina. Russi. Francesi. Tedeschi. Americani. Compravo compravo e compravo. Leggevo e leggevo e leggevo. La paghetta che mi dava mio nonno me la giocavo tutta così e mio nonno me l’ha alzata intorno ai tredici anni, quando ha visto che facevo seriamente, da quindicimila lire a quindicimila lire più i soldi per comprarmi i grandi classici che vendevano all’edicola non mi ricordo più per quale iniziativa. Un bel gruzzolo, ora che ci penso. Non saprei dire quanto realmente capissi di quel che leggevo. Probabilmente non molto. Però avevo in mente Martin Eden di Jack London e anche lui aveva cominciato in modo selvaggio ed era anche mezzo analfabeta. Dovevo leggere, andare avanti. Tutta quella roba che mettevo dentro alla testa, in un modo o nell’altro, in un momento o in un altro, avrebbe trovato ordine, senso. Stavo attento alle parole. Alle espressioni. Mi lasciavo colpire e distrarre da tutto. Trovavo un’espressione a pagina quarantuno e magari a pagina cinquantasette mi rendevo conto che ci stavo ancora pensando e che nel frattempo non riuscivo più a raccapezzarmi con la storia. Forse, a pensarci adesso, sarei dovuto partire dalla poesia, ma una parte di me ancora oggi pensa che la poesia sia roba troppo leggera. Nah. Io volevo romanzi di ottocento pagine. Seicento pagine, mille pagine.

A dodici anni forte e orgoglioso delle mie letture, comincio la seconda media inferiore. Scrivo temi ma qualcosa al primo compito in classe va storto. M’impegno, ce la metto tutta. Ho la testa che esplode di parole e letture, scrivo tanto, do fondo a tutto quello che ho osservato e imparato durante l’estate. Eppure i risultati sono mediocri. Il professor Galli aveva i suoi modi per darti un giudizio e quando ti diceva “abbastanza bene” era un risultato mediocre. Altri si sentivano dire “bene” o addirittura “molto bene” – come Federico Chiodi o Luca Davico – e io volevo eccellere, giocarmela coi migliori e dargli anche polvere. Invece valevo molto poco. In fondo il mio problema era semplice e anche drammatico. Volevo così tanto cercare di catturare l’energia cosmica che si muove e si sposta nella totalità dei libri che cercavo di prenderne a piene mani dalle tracce lucenti e dalle ombre arcobaleno che l’energia mi lasciava ogni volta dopo avermi attraversato. Leggevo molto di modo da trovarmi un buon numero di quelle tracce luminose e quelle ombre dentro di me e da quelle pensavo, sbagliandomi, di poter attingere a piene mani. In altre parole le cose che leggevo mi rimanevano appiccicate addosso in maniera allarmante. Leggevo Cime tempestose e scrivevo Cime tempestose. Leggevo Il dottor Antonio e riproducevo quella prosa. Ancora non avevo interiorizzato il movimento. Imitavo troppo. Ecco perché dico che uno scritto a otto anni può essere migliore di uno scritto a venti. Sembra incredibile, ma è così. Oggi vedo tutto questo con molto più favore. Penso ci debba essere un momento dove si è molto bravi e uno dove si peggiora improvvisamente. Peggiorare è importante. Ricevere una fila di no. Com’è possibile che mi dicano no adesso, se mi hanno detto sì prima? Com’è possibile se ora sono più forte, più consapevole, ho letto di più? Semplicemente essere più forti di prima non significa sapere sempre quanto si è forti davvero, si tende a sopravvalutarsi, ci si lancia contro imprese molto più grandi e forti di noi. Il che è ancora una volta tutto sommato un valore positivo. Ci vuole un momento dove imbracciare il fucile e dirigersi oltre la collina anche se brucia dei fuochi del nemico e noi siamo solo una goccia d’acqua in un oceano che mugghia e ruggisce. Ambizione e inadeguatezza. Due parole fondamentali. Alle quali nella migliore delle ipotesi si sostituiranno in seguito adeguatezza e necessità, mandando a mollo per sempre la parola “ambizione”. Quando c’è ambizione non c’è adeguatezza e non c’è nemmeno necessità. Scrivere è energia cosmica e noi siamo nella stanza buia. Non ci siamo. Non decidiamo. Non c’è ambizione. Non c’è niente. Si è solo dei trasmettitori. Invece nei temi in classe io c’ero, c’ero eccome. Tutto lì, col mio sprezzante bagaglio di letture. Ecco che ho imparato però la prima lezione. Se vuoi scrivere, se vuoi fare qualcosa rivolto a qualcun altro e vuoi che questo qualcun altro ti dica quello che vuoi sentirti dire, devi tenere conto di questo qualcun altro. Sembrerà banale, ma non lo è. Anche qui, non è questione di bravura. E’ questione di astuzia. Ed è ancora una volta questione di non esserci. Se vuoi trasmettere, non devi esserci. Così ho dovuto fare i conti col fatto che pur essendo i miei temi pieni di idee, immagini, cose belle, che non potevano non piacere, non andavano bene quanto desideravo e che a questa cosa dovevo trovare assolutamente rimedio. Ho pensato che se il mio problema era imitare troppo, perché la mia testaccia ancora non sapeva come fare per non essere là, lasciarsi andare, allora avrei dovuto, tanto per cominciare, imitare autori con un linguaggio più vicino a quello contemporaneo. Niente più Balzac. Dumas. Turgenev. No. Nell’estate dell’anno successivo sono sceso alla Standa (Standa viene da Standard, no? O quantomeno ci assomiglia) e ho cercato romanzi degli autori moderni che ho già citato, scritti con parole semplici, chiare, leggibili, moderne. Ho così scoperto il mondo delle spy-story. Norman Mailer. Tom Clancy. Graham Greene. E. Phillips Oppenheim. Che cazzo, ora non ricordo nemmeno più chi altro. Comunque sono andato avanti parecchio a leggere questa roba ottenendo due risultati importanti: mi divertivo da morire, il mondo dei libri appassionandomi sempre di più, e i risultati a scuola miglioravano. La strategia da me escogitata funzionava. Tra l’altro imitando qualcosa che capivo meglio sono anche riuscito a smettere di imitare e a metterci sempre più del mio. In realtà stavo sempre attento che dentro di me passasse la voce che passa in ogni libro, la voce equalizzata fatta di milioni di voci, quella singola, particolare, magica voce di cui ho già accennato. Però mi rendevo conto in qualche modo già allora che quella voce poteva passare anche attraverso la mia stessa voce, equalizzarsi e fondersi alla mia stessa voce. Un discorso forse che può apparire complicato e delirante, ma scrivere, mi spiace tanto, non è compilare una partita doppia. Così me la sono cavata con l’astuzia in attesa che riuscissi a diventare veramente bravo. Al ginnasio coi temi sono andato bene e poi al Liceo dopo un anno di assestamento, me la sono di nuovo cavata – prendevo voti alti. Anche lì ho messo un pizzico d’astuzia. Siccome alla mia professoressa di italiano quello che scrivevo sembrava non piacere più che tanto («Lungo, è troppo lungo!» mi diceva), allora mi sono messo a scrivere temi di filosofia, i quali venivano corretti dal professore di filosofia e poi ratificati (di solito abbassandoli di mezzo voto) dalla prof di italiano. Appunto solo un’altra astuzia in attesa di diventare bravo, così bravo da poter piacere sempre e allo stesso modo senza bisogno di ricorrere a nessuna astuzia ossia diventare fortissimo, formidabile, senza debolezze, un carro armato indistruttibile. Ancora con cinque romanzi pubblicati per quattro case editrici diverse e altri tre romanzi per due case editrici diverse di là da venire non so cosa pensare circa questa faccenda. E’ bravura o è astuzia? E’ talento o mestiere? Ma poi contano queste domande? Penso di no. Però a volte per qualche lettore sembra essere la sola cosa che importi. Il fatto è che in questo Paese alla scrittura si collegano sempre elementi di pura sacralità. Si tende a confondere prosa e poesia. Si dice che è lo stesso – lo diceva anche Calvino. E poi nella prosa c’è spesso molta filosofia. Abbiamo un concetto altissimo degli scrittori. Non sono dei semplici cantastorie. Dei menestrelli. No. Nient’affatto. Ci deve essere qualcosa di divino che soffia dentro di loro e io stesso ho parlato di energia cosmica (un’espressione, mi rendo conto, alquanto new age e che probabilmente farebbe la gioia di molti seguaci di L. Ron Hubbard). Lo scrittore tendiamo a pensarlo come uomo d’intelligenza divina. Ciò che è divino non ha fatto prove per diventarlo: è divino e basta. Divino da subito. Ecco. Lo stesso deve essere per lo scrittore. Non importa che Mozart fosse una scimmia ammaestrata. Che Stephen King abbia scritto da sempre. Che Michael Jackson sia stato una scimmia ammaestrata. Non ha importanza che García Márquez definisca lo scrivere falegnameria e che scrivere sia effettivamente falegnameria, come studiarsi un libro solo che bisogna inventarselo. No. Non importa sia del tutto lecito immaginare che uno scrittore ci metta tempo per costruirsi. In Italia abbiamo bisogno della storia miracolosa. Non saprei dire, anche dopo tutto quello che ho scritto qui, se in me c’è o c’è stato del talento. In generale credo soltanto che il talento esista e che la pratica un talento possa sciuparlo. Ma credo anche non sia possibile esercitare un talento senza praticarlo. Le cose vanno così. Nell’esercitare il proprio talento questi subisce scossoni, colpi e contraccolpi, smottamenti squassanti e alla fine se è un talento abbastanza solido uscirà fuori da tutto, altrimenti affonderà, non ce la farà. Quando a ventidue anni ho conosciuto alcuni personaggi tra i più importanti della società italiana contemporanea, mi pare di poter affermare in tutta tranquillità che proprio questo sia accaduto. Il mio talento (che in gran parte, però, tendevo a non mostrare) è stato preso a calci e calpestato, deriso e negato. Dopodiché mi è stato detto: «Ora siediti e scrivi. Se ci riesci». Due anni e mezzo più tardi mi sono seduto e ho scritto e ringrazio il Cielo e l’editore Sironi ancora oggi di avercela fatta altrimenti non so proprio cosa sarebbe di me adesso.

Sono molte le cose che potrei ancora aggiungere, ma credo di aver ormai reso l’idea e dunque preferisco fermarmi qui. Questo scritto mi ha svuotato. Lo consiglio a tutti di prendersi un paio d’ore e scrivere uno scritto come questo. Sedersi e cominciare con «Ho cominciato a scrivere dall’età di…», «Ho cominciato a sognare di diventare architetto all’età di…», «Ho cominciato a sognare di diventare avvocato all’età di…» e poi buttar fuori il più possibile. Scrivere a ruota libera. Chiarisce le idee. Chissà, forse molti non avrebbero un punto preciso da dove partire. Si accorgerebbero di non aver nemmeno desiderato di essere quello che sono oggi e che quel che sono oggi è frutto solo di circostanze occasionali. Niente interruttori o desideri di pietra. Nessuna voce. E’ strano, ma ero partito con l’idea di parlare di libri, far tanti nomi di romanzi, raccontar trame e invece ho messo in fila nomi di autori ben conosciuti e ovviamente non ho detto tutto. Voglio pensare che i nomi che ho fatto siano quelli che mi stanno veramente più a cuore degli altri, quale che sia la ragione. Tanto per dire, di Márquez ho letto solo Dodici racconti raminghi e tuttavia ho fatto qui il suo nome. A volte certi autori sono importanti, anche se non li abbiamo praticamente letti. Così come certi libri. Non ho letto nulla di Maupassant. Però mi piace ogni tanto tornare col pensiero a questo autore e immaginarmi come potrebbe essere una storia scritta da Maupassant – magari partendo da qualche mozzicone di trama che ho orecchiato qua e là nel corso del tempo. Quello che mi stupisce quando parlo di scrittura è sentirmi come in preda a un’amnesia totale riguardo alle letture che ho fatto. Mi succede sempre. Per me parlare di scrittura attraverso la lettura è un ornamento lezioso. Considero la letteratura solo robetta. Per chi vuole emozionarsi e pensare a una storiella. Del resto noto che più o meno questo è il pensiero della maggioranza dato che, per esempio, delle nuove uscite si parla pochissimo di trame, di idee in sé, tendendo a enfatizzare, invece, gli effetti di queste trame, idee. Sulle fascette promozionali si trova scritto «200.000 copie in una settimana!» o «Terza edizione in un mese!» e non «Questo libro parla di un uomo che legge il pensiero degli oggetti e ha aperto una bottega con una fila lunghissima di clienti che vogliono capire cosa pensano il proprio tostapane, radio a transistor, mangiadischi, carica batteria del cellulare!» o “In questo romanzo troverete la storia di una donna che brucia tutto ciò che incrocia il suo sguardo!» (tanto per fare l’esempio di un paio di libri che se esistessero sarebbero senz’altro idioti e probabilmente non schioderebbero una copia). Si evidenzia il numero di copie vendute sottintendendo che tutto sommato quel che c’è dentro il libro a questo punto non importa sia un’idiozia o una cosa molto saggia e intelligente: va comprato e basta o quantomeno è perfettamente lecito commercializzarlo. In ogni caso se devo parlare di scrittura cerco di parlare direttamente di scrittura o addirittura mi metto direttamente a scrivere – m’invento delle storielle, cose così: di solito non mi metto a parlare delle storie scritte da altri, perché per quanto bravo possa essere a farlo mi sembra sempre di far la figura di quei cantanti che cantano le canzoni degli altri: alla fine dell’esibizione il pubblico applaude loro o il cantante che è stato interpretato? Qui ho scritto quello che avevo da scrivere come mi è venuto. Non c’è molta differenza con uno che ha preso la penna in mano ieri. Potrei avere diciotto anni o ventiquattro o trentatré anni appena compiuti. Quando l’energia cosmica ti attraversa questo non conta. E qui ce n’è tanta di energia cosmica. E’ dappertutto ed è densa. Per questo e solo per questo scrivo. Credetemi. Il vento cosmico dei libri. Lasciarmi attraversare dall’anima delle cose nel mondo.

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48 Risposte to “La formazione dello scrittore, 10 / Marco Candida”

  1. Vibrisse | MARCO CANDIDA Says:

    […] Qui il mio contributo per “LA FORMAZIONE DELLO SCRITTORE” su Vibrisse di Giulio Mozzi. Qui tutti gli altri articoli. […]

  2. enricomacioci Says:

    Ho letto piuttosto di fretta Marco, è molto lungo e debbo rivederlo meglio.
    Due cose al volo mi hanno colpito:
    1) che tu ti vergognassi di scrivere racconti horror e non poesie “sul significato della vita e sul creato”: io mi vergognavo proprio del contrario (ricordi la chiacchierata fra Gordon e Chris in Stand by me, lungo i binari del treno, quando Gordon parla di ciò che scrive? Ecco, quella per me è un caposaldo);
    2) il tuo sentirti un tramite piuttosto che un proprietario della tua ispirazione – un concetto che perlomeno dall’800 è divenuto moneta corrente e che tuttavia viene spesso guardato con sospetto, come se in esso ci fosse qualcosa di troppo “romantico”; e che tu invece ribadisci con forza, quasi ossessivamente.
    Tornerò comunque a leggere con più calma.
    A presto.
    Enrico

  3. Marco Candida Says:

    Ciao Enrico, e tu perché ti vergognavi di scrivere poesie “sul significato della vita”? (No, quel passaggio di Stand by me, ora non l’ho presente).

  4. enricomacioci Says:

    Gordon dice a Chris: roba da femminucce le poesie mentre i racconti sono fichi, i racconti sono “accettabili” o roba del genere (non ho il romanzo sottomano). E poi guarda avanti, la luce s’inclina nel bosco, si sta facendo tardi, e sui binari della ferrovia ci sono gli altri due che fanno i deficienti e lui un po’ li invidia e sa che non li raggiungerà mai, né loro mai raggiungeranno lui. E insomma è tutto lì, qualcosa che c’è e non c’è.

  5. SimoneGhelli Says:

    Non mi trovo d’accordo su quella cosa dell’età giusta per cominciare. Non è che c’è una regola matematica (ché poi alla fine lo dice anche te).
    Per il resto – che è molto, ma a insistere sul fatto dell’età sei stato proprio te – lo trovo un bel racconto e in effetti hai ragione a consigliare a tutti questo esercizio.
    Intanto mi leggerò anche il resto della rubrica 😉

  6. marcocandida Says:

    Enrico, Leopardi non mi sembra scrivesse cose da feminucce – per quanto con i suoi asmi e la sua idropisia, poverino, e la vita che gli finisce a trentanove anni… Tasso non scrive roba da femminucce. L’epos omerico è quasi Tolkien o Ken Shiro. Ci sono poeti e poesie che non sono roba da feminucce e di solito sono le poesie che negano quell’idea dolciastra, “da femminuccia” appunto, che la poesia incorpora da sempre e che da sempre certi poeti cercano di combattere. Io ho cominciato con la poesia finito il Liceo. Dico ad apprezzarla sul serio e a trarne piacere. Non tutta. Qualcosa. Montale. Pascoli. Rimbaud. La poesia (proprio perché più breve di un corpus di opere fatto di romanzi) è utile per capire subito qual è la visione del mondo del suo autore e come fa questo autore a esprimerla. Con i romanzieri non è subito così immediato, ci vuole più esperienza, addestramento, occhio. Comunque un’amica, la Pianzola, a ventiquattro anni, mi ha fatto conoscere molto della poesia.
    Simone, sì, quella dell’età è solo una mia convinzione.

  7. Luan Says:

    Quando l’energia cosmica (da alcuni chiamata Dio) attraversa Marco Candida, si salvi chi può:-)

  8. Marco Candida Says:

    Luan, chi chiama “Dio” quella che ho chiamato, senza pretese, “energia cosmica” o “vento cosmico”?

  9. mauro mirci Says:

    Ritrovo, in questo post, il Marco Candida di sempre. Benritrovato, Marco.

  10. Marco Candida: La formazione dello scrittore – Intermezzi BLOG! Says:

    […] Qua il testo completo e di seguito un estratto. […]

  11. Happy Says:

    oddio, è ritornato il mitomane

  12. anna maria bonfiglio Says:

    mamma mia che pistolotto!

  13. Marco Candida Says:

    Mauro, grazie del commento. In che senso dici “Il Marco Candida di sempre”? Happy, sapresti indicare in quale modo ti sono apparso “mitomane” – te lo chiedo perché se ti spieghi magari discutiamo e facciamo contenuti. Anna Maria, sei in grado di motivare come mai questo ti sembra un “pistolotto” – cosa che peraltro mi offende perché non era mia intenzione fare pistolotti?

  14. Marco Candida Says:

    Grazie, comunque, a tutti i commentatori.

  15. Subhaga Gaetano Failla Says:

    Un testo affascinante.
    Sono andato poi a dare un’occhiata ai libri di Marco Candida. Mi piacerebbe leggerne qualcuno; potrei forse iniziare con “La mania per l’alfabeto”.
    Segnalo un buffo refuso (o era un errore intenzionale, un gioco?): il libro di Marquez “Dodici racconti raminghi” è qui diventato “Dodici racconti fiamminghi”.

  16. mauromirci Says:

    Marco, “di sempre” nel senso di “come l’ho conosciuto io”. Ossia, con quel tipo di prosa che sembra un’inondazione incontenibile di parole e concetti (a me fa quell’impressione, almeno).

  17. Giulio Mozzi Says:

    Grazie, Gaetano. Ho corretto.

  18. Marco Candida Says:

    Mauro, ti ringrazio. E’ stato Giulio a chiedere un testo il più lungo possibile. L’ho inviato molte settimane fa prima ancora che venissero pubblicati gli altri articoli. Magari mi sarei allineato agli altri interventi, in termini di lunghezza, se lo avessi inviato dopo. Ma ormai era fatto e bell’e pronto. In questo pezzo – che ha il taglio della narrazione, ma dove le informazioni sono vere – c’è il racconto molto preciso di quando ho cominciato a scrivere, che cosa ho scritto le prime volte e che cosa ho letto. Dove scrivevo e con che cosa. Ovviamente la mia formazione non si ferma lì, ma in fondo penso che quello, a quell’età così giovane, sia il cuore di gran parte di quello che scrivo ancora oggi. Qua e là ci sono anche le opinioni che mi sono fatto riguardo lo scrivere. Mi sembra chiaro che queste opinioni non sono esortazioni nei confronti del lettore perché lui faccia o pensi la stessa cosa, non mi pare di star cercando di convincerlo di nulla. Questo per rispondere a Anna Maria Bonfiglio. Quanto a Gaetano, lo ringrazio molto.

  19. Nathalie Dodd Says:

    Marco è stato una scoperta improvvisa con Il ricordo di Daniel; da allora in poi, ogni suo contributo per la rivista a cui collaboro, Wall Street International, e ciò che scrive per sé e tutti gli altri è un mondo misterioso svelato con acume e grande sensibilità. Attendo tutti i nuovi pensieri che vorrà condividere con noi. Grazie molte. Nathalie

  20. anna maria bonfiglio Says:

    Marco, nessuna intenzione di offenderti. ho scritto quello che ho pensato sul momento:un pezzo pesante da leggere, almeno per me. senza nulla togliere al valore intrinseco.

  21. Marco Candida Says:

    Sì, ma perché non fare un piccolo sforzo e dire perché per te è stato “pesante” da leggere e quali sono le parti che ti sembrano un “pistolotto”? E’ inutile che poi facciamo i discorsi sui Licei e l’insegnamento della letteratura e come si insegna e se si insegna bene e se gli studenti e non gli studenti, quando noi per primi, noi, che ci proproniamo di fare cultura (tu, Anna Maria, hai ricevuto premi per la tua attività culturale!), scrivere poesie, racconti, scrittori, poeti, saggisti, poi non sappiamo fare altro che abbandonarci a giudizi formulati sul “momento”!
    Nathalie, grazie.

  22. davide Says:

    “””Quando entravo in un negozio di libri e chiedevo l’ultimo volumone di King o acquistavo tascabili di Alistair MacLean o Clive Cussler diventavo ogni volta un peperone la voce riducendosi al contempo a un sibilo abissale. (Noto che a rievocare queste letture, anche la mia prosa si compiace di quei bei tempi andati diventando felicemente dozzinale). Questo senso di peccato e di vergogna oggi io lo giudico addirittura importante”””

    bravo marco,finalmente qualcuno che non si vergogna di dire che ha letto anche autori (..) come clive cusserl (detto questo,king è stato sdoganato da mò)

    in giro,ancora troppa troppa gente che dice di aver letto solo goethe o proust o misconosciuti beniamini di moda in qualche dipartimento di italianistica

  23. Marco Candida Says:

    Grazie, Davide. Nessuna intenzione di sdoganare King. In America ci sono corsi sulle opere di King. Lo so bene. No, non mi vergogno di dire che tra i dodici e i quindici, sedici anni ho letto Higgins, Cussler, MacLean, Forsyth e gli scrittori horror. E non ho problemi a dire che li ho riletti nel tempo, ci sono ritornato. E poi comunque essere incappato in King all’età di tredici anni – Pet Sematary l’ho prelevato dallo scaffale della Standa a quell’età – ha significato avere a che fare con qualcosa di molto vicino alla letteratura vera – visto che oggi King è sdoganato e lo consideriamo tranquillamente un autore di vera letteratura.

    Ecco, importante è secondo me avere la fortuna di leggere libri di confine tra l’età adulta e la pubertà. Sono questi, credo, i libri importanti. Quei libri che ti costringono, quando sei giovane, a essere più grande, più adulto di quello che sei, se li vuoi leggere. Ma contemporaneamente sono anche libri proprio per te che sei appena un ragazzino. I Goonies è un bellissimo film, ma è un film per ragazzi. Ritorno al futuro, invece, è un film di confine – non abbastanza ingenuo e pulitino da essere un film per Walt Disney, ma nemmeno troppo malizioso per essere un film della Miramax. E IT o Martin Eden appartengono a questo genere di storie. Se da ragazzino leggi Michael Cane da Circo di Jack London certamente lo troverai un libro che ti darà molte emozioni, molto bello, ma è Martin Eden che richiede al lettore giovane un piccolo sforzo, del tutto alla sua portata, ma comunque un piccolo sforzo. Anche “Il signore delle mosche” di William Golding appartiene a questo genere di libri. Sono storie che richiedono a un adulto la capacità di saper ritornare un po’ ragazzino e a un ragazzino un grado di maturità appena un po’ superiore di quello che utilizza per le solite storie per ragazzi come Will ti presento Will o la serie di Percy Jackson.

  24. enricomacioci Says:

    Bella e vera questa cosa dei libri di confine. Per me fu Il giovane Holden: ricordo che dopo averlo letto lo rileggevo qua e là per gustare meglio – ora me ne rendo conto – lo sconfinamento in una zona nuova, diciamo adulta. Leggerlo fu come spiare dal buco della serratura l’immediato futuro.

  25. enrico ernst Says:

    libri di confine: i romanzi di Herriot, La collina dei conigli, Tarka la lontra… vite di animali… solo dopo la grande fantascienza: Simak, Bradbury soprattutto (non ci si perdeva un Urania, o quasi)… intimamente mai abbandonato, Bradbury. Il suo popolo dell’autunno.

  26. davide Says:

    ben detto su “la collina dei conigli” di richard adams!

  27. davide Says:

    pet semetary l’ho letto a 16 anni,forse era ancora”un libro di confine”-

    Ma “cujo” sempre di S.K lo lessi a 18 anni, confine varcato, e anche il libro lo varcava:mi dissi “beh attrezziamoci bene perchè mi sa che la vita adulta richiederà svariati sforzi!” (eh..!)

  28. davide Says:

    pet semetary l’ho letto a 16 anni,forse era ancora”un libro di confine”-

    Ma “cujo” sempre di S.K lo lessi a 18 anni, confine varcato, e anche il libro lo varcava: mi dissi “beh attrezziamoci bene perchè mi sa che la vita adulta richiederà svariati sforzi!” (eh..!)

  29. Marco Candida Says:

    Be’, Davide, in quanto allevatore di cuccioli di cane, Cujo (che parla di un cane San Bernardo affetto da idrofobia) dev’essere un libro che non ti è rimasto indifferente. Enrico, sì “Il giovane Holden” è probabilmente il libro “di confine” par excellence. Enrico Ernst, ognuno ha i suoi autori e i suoi generi “di confine” – e certamente la fantascienza con il bagaglio di conoscenze di fisica, chimica, biologia e la passione per le tecnologie che presuppone per essere compresa e gustata al meglio è un genere che può far fare un piccolo scatto di maturità a un ragazzino, richiedendogli qualcosa in più rispetto a libri per ragazzi come Un leone su due ruote o Aspettando Gonzo di Cousins Dave.

    La trilogia di Calvino è probabilmente “di confine” par excellence – così come lo è “Il giovane Holden” indicato da Enrico Macioci. Perché Calvino è un autore “di confine”? Be’, perché Italo Calvino è un autore riconosciuto di “vera letteratura”. Nelle storie di Calvino c’è un qualcosa in più e la presenza di questo qualcosa in più spinge un ragazzino a considerare in modo diverso la storia di un visconte diviso in due metà perfette o di un cavaliere che è fatto solo dell’armatura che indossa. A contatto con queste storie un ragazzino sente di doversi in qualche modo adeguare, deve fare un piccolo scatto di maturità. King è autore spesso “di libri di confine”, così come probabilmente lo è, saltando al cinema, un regista come Steven Spielberg. Infatti scrivevo nel commento precedente di Ritorno al futuro, che non è una storia adatta a Walt Disney ma non lo è nemmeno per la Miramax. La Dreamworks è una casa di produzione di film “di confine”. Ha prodotto film come Lincoln o Cowboy&Aliens. C’è anche la Touchstone Pictures, una divisione di Walt Disney, che si occupa di produrre pellicole che stanno in questa zona spartiacque. Ma, come dicevo a Enrico Ernest, ciascuno ha il suo libro e il suo film e la sua musica. Alla fine, si tratta di storie e atmosfere che si scelgono da soli.

  30. enrico ernst Says:

    Gentile Marco, in realtà a me piaceva la fantascienza “non tecnologica” di Bradbury, che toccava, varcava, i confini di una “universale” malinconia, e nostalgia per un antico mondo magico, infantile… davvero una strana fantascienza che piangeva la fine del mondo dei libri e dei déhor delle case americane, dove prendere il fresco la sera (Farhenait); toccherà poi a Ballard indicare la strada anche qui malinconica della distopia fantascientifica, del grande nulla che ci aspetta, del “riiniziare” (molto anni settanta): quanto l’ho amato… e ancora Calvino, per me, non è stato quello della trilogia, ma quello “scolastico”, dei “nidi di ragno”; di Pim… solo più tardi salii sugli alberi, con il barone, ma tutta la seconda parte del romanzo di Calvino, ideologica, non mi piacque, o forse non la capii… questo è curioso: i cunicoli, le deviazioni della letteratura che tu bene hai chiamato di “confine” sono innumerevoli… mi piace ricordare in questo contesto anche “il signore delle mosche”. che coniugava il “post mondo civile” e l’avventura dei ragazzi “selvaggi” (l’isola era anche al cinema “l’isola del dottor Moreau”)… A pensarci oggi, quante attestazioni di una fine di civiltà… di un naufragio, di una prossima alluvione…

  31. davide Says:

    giusto per la cronaca, un decente film prima metà anni 70 tratto da “l’isola del dr moreau” (tra gli attori c’era burt lancaster) era si al cinema ma origina dal libro omonimo di h.g. wells

    dal libro famosissimo, “il signore delle mosche” di william golding, era tratto un piu antico film britannico in b/n, già prima, forse negli annii 50, ma non teso e spettacolare come il libro stesso

    con gli anni cmq entrambi i libri han avuto almeno un remake

  32. davide Says:

    “A pensarci oggi, quante attestazioni di una fine di civiltà… di un naufragio, di una prossima alluvione…”

    beh non proprio, al cinema l’epoca d’oro del catastrofismo sono stati gli anni 70, ma nella fantascienza libresca degli anni 40-50 a far le cassandre sbagliarono in pieno: rispetto al mondo di oggi, negli anni 50-60-70 il clima atmosferico era un tantino piu stabile

    insomma non sempre la letteratura ha questa esatta capacità “anticipatoria”, vedere i tanti flop oggi rispetto al mondo disegnato da asimov…

  33. davide Says:

    marco: mettiamo “allevatore cinofilo”, please, suona meglio 🙂 i cani han il loro perchè anche oltre la cucciolanza 😀

    cmq di cujo mi aveva disturbato più la storia della famiglia che va a pezzi, quella del pubblicitario, che non quella piu popolare della famiglia del meccanico e del loro gigantesco cane

  34. davide Says:

    @enrico ernst:

    “l’isola del dr moreau “è dal libro di h.g. wells,

    “i ragazzi selvaggi” è ovviamente di j.g ballard

    da william golding certo viene “il signore delle mosche” ma i film presi dal suo famoso libro non sno eccezzonali

    buono invece un flm anni 70 con burt lancaster, dal libro di hg. wells sopra, meno bello il remake anni 90 con val kilmer

  35. Marco Candida Says:

    Enrico Ernst, la trilogia di Calvino può – e sottolineo può – essere un libro importante per un ragazzino, in quanto, come accennavo nel commento precedente, ha alcune caratteristiche per esserlo. E lo stesso si può dire per Il giovane Holden. Ma pensiamo anche a Rudyard Kipling. Charles Dickens. Pensiamo a Lewis Carrol da quando Deleuze lo ha trasformato in un autore non solo per adulti ma per raffinati intellettuali. E pensiamo a Swift. Quanto agli autori Italiani “di confine”, pochissimi. Calvino appunto. E Buzzati quasi subito per associazione junghiana. Ma se dico Giosuè Borsi, Milli Dandolo, Diego Garoglio, davvero qualcuno li conosce? E quelli sono “di confine”? Comunque sarà ciascun ragazzino a scegliersi il suo livre de chevet – sia esso La favola del lupo e dei sette capretti dei Fratelli Grimm o Il Capitale di Marx. Importante è però non dimenticare che si impara a leggere e a scrivere intorno ai sei, sette, otto anni e intorno ai dodici si è già abbondantemente in grado di leggere un libro intero. Si impara, cioè, a leggere e a scrivere da piccoli, ed è con quel tipo di maturità, la maturità di un bambino piccolo, che si acquistano le prime storie o si richiedono in prestito in biblioteca e ci si accosta le prime volte alla lettura dei libri. I primi libri sono molto importanti. Questa sui “libri di confine”, pertanto, non mi pare solo una piacevole digressione.

  36. davide Says:

    “e intorno ai dodici si è già abbondantemente in grado di leggere un libro intero.”

    vero

    in prima o seconda media riuscii a farmi prestare un libro neanche così trash, e all’epoca forse famoso:

    “lo squalo” di peter benchley (si quello da cui fu preso il primo “jaws” di spielberg)

    mia madre quando seppe che l’avevo letto mi disse “ma lo sai che è un libro per adulti?”- e io: “si ma a me interessava solo lo squalo che mangia i subacquei..!” –

    ovviamente, NON mi interessava solo lo squalo mangia-persone: il leggere una cosa dichiaratamente per gente più grande mi attirava molto, ma che ci fosse qualche scena erotica – per altro ben scritta e assolutamente non volgare – fece di quella la mia lettura preferita sicuramente di quell’anno

    ma scoprii anche un’altra cosa: io leggevo a fine anni 80, quel libro era stato fatto nei primissimi anni 70, quasi un’altra era; così capii che davvero la potenza della pagina scritta poteva entusiasmare fino a far immaginare un mondo di pantaloni a zampa d’elefante, di gente magra e guizzante sotto vestiti stretti e non strafogata di cibo, di basettoni e stati uniti “perdenti” (li nel libro c’era la sconfitta in vietnam in arrivo; all’epoca in cui io lo leggevo c’eran gli stati uniti vittoriosi sul comunismo dell’ultimo anno di regan o del primo di bush senior)

    insomma tutte cose che sulle riviste o in tv eran più difficili almeno all’epoca, da inquadrare e che invece sulla pagina del classico romanzo da 320-350 pagine avevano una vera incisività

    tornando a sopra sì, a 12 anni si può già leggere qualcosa di “intero” e moderno

  37. Marco Candida Says:

    Accanto ai classici per ragazzi come Robin Hood di Alexandre Dumas o Extraterrestre alla pari di Bianca Pitzorno o Mary Poppins di Pamela L. Travers o Cin Cion Blu di Pinin Carpi esistono anche i classici in versione semplificata per ragazzi come il Moby Dick di Melville o Zanna Bianca di London, e mi chiedo, pensando a questo, come sarebbero le versioni semplificate di It di Stephen King se non quelle di Infinite Jest di David Foster Wallace o addirittura di Underworld di De Lillo. E mi chiedo anche se semplificare classiconi moderni come questi potrebbe trasformarli in quelli che qui ho definito, senza pretese, “libri di confine” e che Charlotte Mason, già decine e decine di anni fa, chiamava “living books”, “libri che fanno crescere”.

  38. Chiara Says:

    Molto interessante, grazie

  39. guidoio Says:

    Nel suo scritto Candida mette l’accento su alcune questioni relative allo scrivere e i suoi dintorni, e ne accenna altre. Incidentalmente sono anche questioni in cui mi sono imbattuto io, che scrivo per mestiere sebbene non esattamente nel settore che Candida ha scelto e che descrive, cioè quello della produzione di narrativa.
    Seguo l’ordine (più o meno) con cui lui le ha trattate.

    L’esperienza della voglia di scrivere che viene ai bambini dopo aver letto o visto storie in tv, per quanto ho potuto vedere anche io, è abbastanza comune. Solo per fare un esempio, moltissimi di quelli della mia generazione hanno cominciato a tenere un diario traendo spunto dal «Giornalino di Gianburrasca» visto in tv interpretato da Rita Pavone. Poi moltissimi di loro hanno abbandonato il progetto, e non sono diventati scrittori in età adulta. O quanti stilisti hanno cominciato a pasticciare con i vestiti e i tessuti dopo aver visto da bambini qualche film in costume alla tv? Poi, ok, mica tutti coloro che cambiavano compulsivamente i vestiti alle bambole hanno costruito carriere professionistiche nel settore della moda. O quanti architetti hanno trascorso ore da bambini tentando di ricostruire con i mattoncini Lego certi palazzi visti o letti?
    Mica tutti. Appunto. Ma chi, tra loro?
    Be’, forse (propone Candida, nello specifico degli scrittori) diventano professionisti quelli che sono attenti a particolari decisivi per l’opera, e che essi vedono benissimo, mentre paiono irrilevanti agli occhi del senso comune. Come per esempio la questione della lunghezza in parole di un testo. Perché non è indifferente sapere prima se si sta affrontando una riga di cortesia, o un articolo, o un racconto, o una saga, così come non è indifferente se una narrazione si compie in 1˙000 o 5˙000 o 72˙500 parole. E anche se questa è una cosa che quasi tutti pensano di sapere… poi all’atto pratico la maggioranza delle persone non ha davvero idea delle differenze, e ha un po’ di controllo sul proprio testo quando comincia a scriverlo, ma più va avanti nella stesura più si perde e in pratica non sa mai dove va a finire.
    Anche perché, nel senso comune, contare le parole sembra quasi un attentato di lesa creatività. Una cosa un po’ da fissati, che non serve davvero a produrre bei testi. Ma d’altra parte il senso comune è generato da persone che perlopiù non scrivono. Cioè, scrivono, e molto – aiutati dall’aver frequentato le scuole dell’obbligo e dall’avere a disposizione gli strumenti tecnologici connessi a internet e alla diffusione dei computer. Ma non fanno della scrittura un mestiere. Hanno finalità e ragioni diversissime da ciò che invece, per i professionisti, è evidente fin da subito.
    Fin da quando hanno 7 anni, o anche meno.

    Qui arriviamo alla questione dell’età. Quando le cose, nella vita di una persona, cominciano a succedere davvero e non per gioco. Se ho capito bene il pensiero di Candida, il punto non è tanto quello di cominciare presto (a 7 anni, o a 11, o a 12, o poco dopo); il punto è che se quella lì è la tua vita e la tua opera, e tutto dovrà girarci intorno – non puoi cominciare troppo tardi. Non è possibile cominciare più tardi dell’infanzia o delle prima adolescenza.
    Su questo ho qualche dubbio. Forse si può – cominciare tardi. Se lo si fa a 7 anni, è indice di una vocazione, anche inconsapevole (un Marco che consuma i tasti di una Lettera 32 è paragonabile a un Andre che consuma muri tirando palle da tennis); se lo si fa a 70 o 190 anni è indice di un percorso più consapevole, o perlomeno più «maturo», che si è svolto e che aveva sbocco proprio nello scrivere. Il punto però è quello già accennato più sopra: farci girare intorno la propria vita. O, come dice Candida: «Soltanto chi decide di nuotare affrontando l’oceano in tempesta, solo quello sarà uno scrittore». La quale è una frase bella ma anche pericolosa, perché lascia intendere che ci sia UN SOLO oceano, ed è legata alla percezione dell’energia cosmica che Candida coglie in certi libri. Che è forse un rapporto esoterico con qualcosa di profondo nell’universo, cui lo scrittore può accedere mentre gli altri no. Gli altri, al massimo, hanno il dubbio che ci possa essere qualcosa «là fuori» però rinunciano presto a cercarlo e si adattano a pensare le cose del senso comune.
    Qui siamo vicini a territori della conoscenza che appartengono più alle convinzioni personali che a fenomeni sensoriali riproducibili (sebbene ci siano, quasi sempre, delle ragioni sensoriali concrete che fanno nascere nelle persone opinioni e convinzioni). Gli scrittori hanno a disposizione, più di altri professionisti, degli strumenti per mostrare ciò che vedono e a cui accedono. Uno di questi strumenti è la retorica, in quanto tecnica di composizione e di scelta del linguaggio di un testo. La profondità di contatto con i pensieri propri e del pubblico, che in gradi diversi qualunque oratore o scrittore può raggiungere usando la retorica, può prescindere dall’ispirazione o da altre questioni di tipo magico esoterico. Grazie agli strumenti tecnici, se all’inizio c’è un oceano di cui si accorge soltanto lo scrittore, dopo il suo passaggio e le centinaia di pagine che avrà scritto se ne potranno accorgere anche tutti gli altri.
    Candida sembra guardare un po’ con sospetto quando l’efficacia di certe pagine è frutto di astuzia e non di bravura, o di mera tecnica invece che di talento. Al di là di considerazioni di valore, ci sono modi di dire le cose che rendono possibile la comprensione a tutti o quasi, e modi che risultano oscuri. C’è un modo di costruire le frasi con soggetto-verbo-complemento, e che le rende intelligibili, e altri modi «fantasiosi» o «geniali» o «originali» che possono funzionare o no ma che se trasgrediscono troppo da certe regole non consentono al pubblico di capire. Nel giornalismo (che è un ambito particolare della scrittura) certe regole sono note almeno da 6 secoli – più o meno dal giorno dopo quello in cui Gutenberg rese possibile la stampa seriale. E funzionano in maniera evidente. Basta non dimenticarsi, in estrema sintesi, di essere lettori quando ci si mette a scrivere.

    C’è poi un dato di fatto: la solitudine. Almeno all’inizio, lo scrittore è solo. Vede, percepisce, ma non è in grado di dire. Chi gli sta intorno può sostenerlo procurando la Lettera 32, o aumentando la paghetta per l’acquisto di libri. Ma quello che esce dalla Lettera 32 è affare dello scrittore, e i libri che si comprano, pure.
    In questa fase è tutta questione di fiducia. C’è chi ha un talento che gli fa capire subito, a 7 anni o 7 mesi d’età, cosa vuole – e quindi fa da solo. E c’è chi lo impara un po’ più in là con gli anni. E dopo aver capito, va avanti da solo senza star lì tanto a preoccuparsi di dove vada il resto dell’universo. Ma questa attività solinga, misteriosamente, non resta confinata nell’individuo: ciò che lui fa e sviluppa e cerca e trova – ha un valore anche per tutti gli altri esseri umani. E questa è una regola di evidente efficacia, nel senso che funziona quasi sempre. Solo che gli altri, nel loro senso comune, non lo sanno. Non se ne accorgono.
    Lo scrittore ha la necessità di imparare il linguaggio giusto per comunicare. È un processo che abbisogna di tempo, di strumenti da conoscere e affinare, e anche di pregiudizi da mettere alla prova per verificare se hanno senso o no. Per esempio: perché gli scrittori di genere non dovrebbero scrivere di pensieri profondi e di «letteratura vera»? Il senso comune sembra pensare che, per questo genere di scrittori, la volontà di produrre «narrazioni dozzinali» sia legato all’incapacità. Essi non affrontano la Cultura con la «c» maiuscola per il motivo che non ne sono in grado. Non hanno la formazione accademica adeguata, o se ce l’hanno è una finzione certificata soltanto da un foglio di carta acquisito con modalità dubbie. Non capiscono davvero. Si lasciano trasportare dalla scrittura invece di essere loro a dominarla e condurla. Non sono abbastanza bravi, insomma.
    E invece, a guardar meglio, certi pregiudizi (almeno in alcuni casi) si dissolvono. Occorre magari comprare libri al supermercato invece che nella libreria trendy – senza parlare con librai molto compresi nel proprio ruolo ovvero senza ascoltarne i consigli. Così si scopre che (certi) scrittori di genere si documentano. Le cose che scrivono le hanno preparate, le hanno imparate. Scrivono di servizi segreti – e sanno come funzionano davvero. Oppure scrivono degli dei della tradizione vichinga – e tra un romanzo e l’altro vanno a tenere lezioni universitarie sull’antropologia del Walhalla.
    Tante volte gli scrittori con ambizioni più «letterarie» certe ricerche non le fanno. Pensano che basti guardare con intensità il proprio onfalo per trovare tutte le risposte. Non si documentano sulle religioni, sulle filosofie, sulle questioni esoteriche, sulle questioni economiche. Dicono, dicono tanto, pensano, sospirano. Loro, se proprio decidono di fare un lavoro, si concentrano sul linguaggio… cioè, sulla ricerca del bel linguaggio. Inseguono la poesia.

    Poteva farlo anche Candida, nella fase della propria formazione. Ma, dice, per lui la poesia era troppo leggera. Lui voleva romanzi da 800 pagine, 600 pagine, 1000 pagine.
    Questo aspetto della questione, che potrebbe passare per niente più che un gusto personale, invece mi pare debba essere tenuto in seria considerazione. La poesia è leggera, parla di episodi brevi. È come una canzone di musica leggera nei confronti di una melodia, un’opera, un melodramma. Il romanzo è più corposo e compiuto. Contiene un mondo e lo descrive nei particolari. Sì, ok, quest’ultima caratteristica è anche della poesia… ma la lunghezza è un valore, nelle opere di narrazione. Un ingaggio che viene richiesto, un impegno di attenzione e volontà.
    Cui segue un premio, e il desiderio di averne ancora.

  40. Giulio Mozzi Says:

    Grazie, Guido.

    Sintetizzerei: il talento, d’accordo (ma chissà cos’è); la vocazione, d’accordo; il capitale sociale e culturale, d’accordo; ma: a un certo punto o viene una decisione o non viene.
    La decisione, soprattutto se appare come una decisione pericolosa, può anche prendere forme più o meno nevrotizzate: decidere a priori il numero di parole o di pagine (conosco un paio di autori che lo fanno; per uno dei due, il numero dev’essere sempre dispari) ne è un buon esempio.

  41. enricomacioci Says:

    Sulla questione dell’età in cui si “deve” cominciare, posto che com’è ovvio un’età precisa non esiste, segnalo la straordinaria poesia di Rimbaud I poeti di sette anni, significativamente intitolata al plurale, quasi a indicare o perlomeno a cercare una fratellanza nella stranezza e nel pericolo.
    Quella poesia è un’autentica e magnifica “formazione dello scrittore”, scritta da un sedicenne prodigioso con sintesi prodigiosa. Giulio potrebbe includerla; non dovrebbe neppure chiedere permesso all’autore… 🙂

  42. marcocandida Says:

    Be’, Enrico, sull’affermazione che ho fatto nel testo riguardo l’età giusta per cominciare a scrivere, quell’affermazione riguarda la questione della “vocazione” – accennata anche da Giulio (Mozzi) nell’ultimo commento che ha lasciato. La domanda è: perché oggi scrivo? Di sicuro non scrivo perché ho fatto degli incontri, in carne e ossa, che mi hanno fatto sentire questa vocazione. Gli incontri sono stati importanti per altre ragioni come mantenere la vocazione viva, rinnovarla (nel testo si usa l’immagine del tenere premuto l’interruttore…), ma se scrivo oggi è perché ho scritto ieri, e l’ho fatto in modo consistente. Ecco, magari, ogni tanto, bisognerebbe domandarsi: di che consistenza è la mia vocazione? Mi pare ovvio che se si tratta di una vocazione che ha radici profonde questa vocazione non si perderà, si manterrà nel tempo. Se si tratta di una vocazione dell’ultima ora, sarà una vocazione che si sbriciolerà in fretta. Che cosa avrà bisogno una vocazione come questa per resistere? Di traguardi importanti. Di pubblicazioni di prestigio. Di qualità. Altrimenti, dopo uno o due o tre libri pubblicati, la voglia passa. La vocazione va via. Incontro ogni tanto qualcuno che mi dice: “Mi sono dato due anni. Se in due anni non ottengo tot risultati, riprendo il lavoro, cerco di fare altro”. Ed è un discorso anche sensato, ma a me mette qualche perplessità ugualmente – e abbandonare il lavoro per mettersi a scrivere lo trovo, con tutto il rispetto, imbarazzante e vergognoso. Inoltre quello che ho scritto riguardo l’età può far riflettere. Il senso è: ma sei sicuro, alla tua età, di avere voglia di imbarcarti in un’impresa che può richiedere almeno due anni se non molto di più? Perché scrivere un romanzo o una raccolta di racconti è un’impresa difficile e richiede energie e tempo. Naturalmente questo è un discorso “puro”, cioè senza impurità di mezzo. Se qualcuno ha un cugino che lavora in una casa editrice, allora se lo può permettere di prendersi tempo e di “rischiare” – già perché rischia pochissimo. Se uno è miliardario, idem. Ma se un aspirante autore deve contare solo sulle sue forze (per così dire) è sicuro di volersi imbarcare in un’impresa come questa, o non sarà forse che si è lasciato trascinare da qualche incontro dell’ultima ora, da qualche evento dell’ultimo periodo? Parole che bruciano, forse. Me ne rendo conto. Ma secondo me utili da condividere.

  43. davide Says:

    io penso che in italia abbiam sempre sto mantello di cultura umanistica, notevole se la si guarda da lontano, ma quando ti avvicini vedi – anche – la debolezza, propria di riflesso del sistema paese, che purtroppo ha. Ovvero, esser un sontuoso contenitore di emozioni esistenziali poco amalgamate, che raramente han riflesso sulla propria condizione (su quella monetaria, sicuramente)

    lavoro… non lavoro… (dico per aspiranti scrittori o scrittori poco noti) …aspettative…, insomma è un argomento troppo inspirational, un po’ di pragmatismo in più ci vorrebbe

    anni fa conobbi un scrittore all’epoca appena 40 enne, che aveva pubblicato 4-5 libri, a fine anni 90, sull’ondata lunga del pulp italico e dintorni – non proprio cose irresistibili, però qualche minimo introito, tra corsi di scrittura e qualche – qualche – migliaio di copie vendute (epoca immediatamente pre-internet), lo aveva ottenuto, certo sempre troppo poco

    bene, abbandonò il suo lavoro “core” di tutti i gg? no, lo ridusse a 4 h al gg invece di 8, sperando di andare avanti con più tempo, a far di più, per progetti più ambiziosi, per scrivere – dicendo giustamente, che un part time non gli portava via troppo tempo, mentre con 8 ore di lavoro al gg, fosse fabbrica o ufficio, trovava il tutto più difficile

    come è andata a finire? pare che oggi egli non pubblichi più libri… ma fa lo sceneggiatore, un lavoro pagato meglio, notoriamente… insomma, forse con molto pragmatismo, ci ha guadagnato, non dico soldi, ma di certo a vivere in un mondo, non è più solo quello della fabbrica e dell’ufficio, che prevedibilmente non frequenta più da tempo

    per questo dico pragmatismo, e meno discorsi eterei, qua sopra davvero sempre troppa aulicità..:)

  44. marcocandida Says:

    Davide, devo dire che guardo con grande rispetto chi vede nella pubblicazione di un romanzo e nell’attività della scrittura una possibilità per far guadagni, garantirsi benessere, innalzarsi socialmente. Significa che vede nella letteratura un organismo vivo, vivente, in comunicazione con tutti gli altri comparti funzionanti di questo Paese. E’ una visione adulta della letteratura, della scrittura, e la rispetto molto, e sono molto contento che ci siano persone che la pensino così. Ovvio che se si dovesse scrivere solo perché si è letto qualche dozzina di libri da adolescenti… Questa è una visione romantica o adolescenziale. Detto questo, voler scrivere per acquistare benessere e maggior prestigio sociale va benissimo, ma forse bisognerebbe rendersi conto che tutti o quasi tutti i discorsi che ruotano attorno al denaro nell’editoria e nella letteratura italiana (e non solo) sono discorsi che riguardano soldi che non ci sono, mancanti. La cultura è perennemente in stato di emergenza. Quindi fare soldi facendo letteratura, acquisire maggior prestigio sociale (pur riconoscendo che la condizione di “autore di libri pubblicati” dà un certo prestigio – ma non sempre e presso tutti), almeno in Italia, è, in questo momento, difficile. Se un aspirante autore decide di seguire la sua vocazione con questi intenti, di queste cose potrebbe cercare di farsi un’idea. Se a vent’anni decido di scrivere un romanzo perché penso che potrei avere un futuro e tralascio gli studi, sarebbe meglio essere consapevoli, credo, di queste cose. E così a trenta. A quaranta. Cinquanta. Sempre. Ovviamente (ma forse così ovvio non è) questo tentativo di ragionamento riguarda chi è ancora nel processo di prendere la decisione di scrivere un romanzo o di scrivere romanzi. Se c’è qualcuno che correndo i suoi rischi e rischi anche maggiori, presenta un’opera pubblicabile e in poche parole degna, bella, molto bene.

  45. acabarra59 Says:

    “ 12 agosto 1975 – D’ora in avanti, a chi mi chiederà che cosa faccio, risponderò nella maniera più semplice: sto scrivendo un romanzo. “.

  46. davide Says:

    @ marco

    A – la fissa del “successo “, della riuscita, è un po’ diversa a seconda che ci cerchino soldi (che da par loro, sono neutri, dipende dall’uso che se ne fa, dico) o “prestigio sociale” (questo è un male già più insidioso, e in campo culturale, è un problema sottostimato…)

    E’ all’origine di tanti “temini” progressisti come libri, che si vedon qua e là… e mica solo da Fazio!

    B-in italia, dagli anni 90 in poi, c’è la mistica della giovinezza come mai prima

    però esordire a 20-25 anni ed esordire a 40 è molto diverso. ormai l’esperienza quantitativa viene sottostimata. Ma quelli che esordiscono tardi se la cavano di solito molto meglio che non un sacco di meteore che han esordito ventenni e poi son scomparse dall’orizzonte

  47. acabarra59 Says:

    “ 16 ottobre 1995 – « 19 dicembre 1892 – Cosa state facendo? “ Sto facendo il titolo di un romanzo “ » (Jules Renard, Diario) “.

  48. marcocandida Says:

    Davide, nell’Etica Nicomachea Aristotele scrive che l’azione è definita dal suo scopo. In base allo scopo compio un’azione scegliendo i mezzi più idonei. Se ne può arguire, pertanto, che osservando i mezzi che si utilizzano è possibile risalire allo scopo che orienta un’azione. Se si scrive un romanzo ricercato e contro qualunque idea di mercato non è possibile che lo scopo del suo autore sia quello di cercare il successo. Gli scopi che orientano le azioni di un autore possono essere molteplici, ma sono i mezzi per raggiungere tali scopi che definiscono l’azione compiuta e, sperando che Aristotele non sia troppo in disaccordo, gli scopi stessi. Posso anche dichiarare a bell’agio, come autore, di voler fare tanto denaro quanto Ken Follet, ma se poi scrivo La mania per l’alfabeto o Il diario dei sogni o Il bisogno dei segreti, l’azione che ho compiuta non è orientata veramente verso il raggiungimento di un simile traguardo. Parentesi: mi auguro sia abbastanza chiaro che affermare di avere la passione di scrivere opere di finzione significhi tra le altre cose avere la passione per un gesto assai complesso che comprende anche il desiderio, mai sazio, di esprimere i propri pensieri sul mondo, i propri sentimenti, le proprie emozioni, che comprende, insomma, l’aver qualcosa da dire.

    Giulio, scegliere orientativamente di scrivere un certo numero di parole può essere nevrotizzante, ma può essere nevrotizzante anche inserire una linea bianca alla fine di ogni capoverso perché non si è mai ben sicuri che l’un paragrafo e quello successivo siano legati da consequenzialità o perché si ha il terrore che chi legge possa distrarsi presto. E di linee bianche i libri italiani sono ben pieni… Ecco che cosa distingue un vero romanzo italiano da qualsiasi altro romanzo straniero: linee bianche.

    Acabarra59, al tuo primo commento rispondo che quando mi danno dello “scrittore” correggo subito dicendo di aver solo pubblicato qualche romanzo – quindi mi trovo in perfetta sintonia con ciò a cui alludi. Al tuo secondo commento rispondo che il titolo del primo romanzo che mi è stato pubblicato fu scelto dalla casa editrice. Potrebbe essere tempo sprecato, pertanto, concentrarsi troppo sulla scelta del titolo di un romanzo.

    Guido, grazie del supercommento.

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