La formazione della scrittrice, 26 / Grazia Verasani

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di Grazia Verasani

[Questo è il ventiseiesimo articolo della serie La formazione della scrittrice (esce il lunedì), alla quale si è ora affiancata la serie La formazione dello scrittore (esce il giovedì). Ringrazio Grazia per la disponibilità. gm].

grazia_verasaniIn casa mia non c’erano molti libri. Qualche Cassola, qualche Berto, La Divina commedia illustrata da Doré, I Quaderni dal carcere di Gramsci, le poesie di Pascoli, Carducci, Ungaretti, e naturalmente Il capitale di Marx. Dico naturalmente perché mio padre, ex partigiano, nella libreria di tek del salotto, a parte montagne di copie ingiallite de L’unità, teneva i libri che aveva letto da ragazzo e soprattutto autori appartenenti alla sua stessa “ideologia”. C’erano anche un paio di enciclopedie: una di scienze e l’altra sulla seconda guerra mondiale.

Il primo libro che ebbi per le mani fu Guerra e pace di Tolstoj. Avevo dieci anni e, dato che mio fratello diciottenne era a letto malato, mi costrinse a leggergli quel tomo ad alta voce. Ci capii qualcosa? Non me lo ricordo. Ma per ragioni misteriose amavo i libri, e presto chiesi a mio padre di comprarmene sempre di più. Non romanzi rosa, non ero una bambina sentimentale, ma mi piacquero da subito l’Aleramo, la Ginzburg, la Fallaci e i romanzi di Pratolini e Moravia.

A dieci anni iniziai a scrivere raccontini di una pagina e mezza, che avevano titoli bizzarri. Ne ricordo uno che si intitolava Lei e il suo cane e che narrava di una bambina che si tuffava in un fiume per salvare il suo cane che stava affogando. (Strano, non avevo un cane, né mai chiesi ai miei di regalarmene uno). Un altro, intitolato La famiglia Bettini, parlava di dieci sorelle che, una dopo l’altra, inesorabilmente e nei modi più assurdi, morivano tutte. Insomma, il mio primo noir. Ma c’erano altre storie, che scribacchiavo su un foglio, costringendo le amichette di cortile a interpretare le mie drammaturgie come in una recita vera e propria. Leggevo anche con regolarità Il Corriere dei ragazzi ed ero innamorata di Valentina Melaverde, a cui ritenevo di somigliare.

A quattordici anni scoprii la Sagan. La madre della mia compagna di banco lo lasciò sul tavolo del soggiorno e io ne fui rapita: si trattava di Bonjour tristesse. Lessi tutti i romanzi della francese ribelle, almeno quelli che trovai pubblicati. Poi scoprii gli americani, impazzii letteralmente per Steinbeck, Hemingway, Dos Passos, Fitzgerald. I miei preferiti: I pascoli del cielo, Fiesta e Morte nel pomeriggio, Tenera è la notte e tanti altri. Ma un libro davvero fondamentale, nella mia adolescenza, fu Le parole per dirlo di Marie Cardinal. Non ho mai smesso di leggere, da allora. Leggere e scrivere sono diventate presto due attività connaturate, imprescindibili.

Ma il mio primo diario, scritto a dieci anni, lo devo ad Antonio Faeti, che fu il mio maestro elementare. Grande amico di Calvino e appassionato di fumetti, Faeti fu il primo a incoraggiarmi a scrivere. Ringrazio ancora il cielo per avere avuto un maestro come lui. Avevo vent’anni quando il mio primo racconto venne pubblicato, grazie a quel meraviglioso uomo e poeta che è stato Roberto Roversi, e successivamente altri racconti finirono sul manifesto nella rubrica “Narrativa delle riserve” a cura di Gianni Celati. Roversi mi disse che avrei dovuto avere molta pazienza, e ancora adesso, ai ragazzi della Bottega Finzioni dove tengo un corso di scrittura, dico la stessa cosa. Pazienza. E aggiungerei: passione. Una passione integerrima, indiscutibile, al di là delle incertezze e della legittima aspirazione a una pubblicazione.

A indirizzarmi verso Roversi e Celati, che all’epoca insegnava al Dams letteratura angloamericana, era stato Tonino Guerra. Guerra, che avevo conosciuto a Roma, lesse i miei racconti e mi portò con sé nei suoi vari seminari di sceneggiatura. Conservo lettere molto belle sia di Guerra che di Celati. Ma non dimentico nemmeno l’incontro con Stefano Benni. Anche lui mi incoraggiò a scrivere e mi disse una frase che mi colpì moltissimo: “Scrivere è una missione”. Lo presi in parola, e non ho mai smesso di pensarla così.

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6 Risposte to “La formazione della scrittrice, 26 / Grazia Verasani”

  1. acabarra59 Says:

    “ Mercoledì 24 settembre 1997 – Oggi è un giorno piuttosto importante perché ho trovato una foto di Helmut Newton che conferma certe mie idee che risalgono ad almeno vent’anni fa. La foto, che si intitola Donna distesa – Beverly Hills, 1988 -, mostra l’interno di una camera in cui si vede un letto con sopra una donna supina a gambe assolutamente spalancate che mostra all’obbiettivo cioè a noi cioè a me il sesso nudo e aperto – la donna, di cui non si vede il volto perché la testa è sprofondata nella morbida superficie della trapunta – arabescata -, è completamente nuda, anzi lo sarebbe se non fosse per qualcosa di nero che probabilmente è la gonna arricciata intorno alla vita e le due scarpe newtonianamente nere e newtonianamente dotate di tacchi altissimi – e , mentre se ne sta così « distesa », abbandonata, « spalancata », con la mano sinistra accarezza un piccolo cane del tipo bulldog – che sia un « carlino » tipo Ripa di Meana? – che le sta accanto. In primo piano, a sinistra di chi guarda, marginalmente rispetto all’evidenza del corpo femminile protagonista della scena, c’è un accessorio domestico così scontato – o così imprevisto – che lo notiamo solo in un secondo momento – anche perché siamo tutti presi dalla visione della magnifica nudità: un televisore acceso – sullo schermo qualcosa che forse è una pubblicità, sicuramente una mano – di donna – che impugna qualcosa. Decidendo di riprodurre la foto per la mia serie Rossori / Didascalie 1997, ho anche deciso che la intitolerò La donna con il cane. Ma La donna con il cane è anche il titolo da me attribuito a una foto di Robert Capa che qualche giorno fa ho riprodotto, e, riproducendola, non ho potuto non pensare a una foto – mia, questa volta – che, appunto, ho anche chiamato La donna con il cane. La scattai un po’ più di vent’anni fa – nel 1974, per l’esattezza – sugli scalini della fontana di Piazza Santa Maria in Trastevere. Era l’epoca in cui « ero fotografo » o, comunque, mi chiedevo se non fosse il caso di diventarlo. Inquadrati dall’alto, vi si vedono una ragazza vestita di nero – anche i capelli sono neri – che siede voltandomi le spalle sugli scalini che circondano la fontana, mentre, accanto a lei, un cagnetto senza pedigree, bianco e nero anche lui, mi guarda dal basso con quell’aria buffa e straziante – soprattutto buffa, soprattutto straziante – che hanno spesso i cani. Quello che si vede è dunque soprattutto lo sguardo di un cane, poiché la ragazza rimane rigorosamente voltata, e dunque ciò che ci guarda – me fotografo e ogni altro spettatore possibile – è un cane, sono gli occhi, languidi, « commoventi », di un animale domestico comunemente definito « il migliore amico dell’uomo ». Dunque, cercando di guardare, anzi di mettere « a fuoco » una giovane donna, avevo trovato nell’obbiettivo qualcosa di inaspettato, di imbarazzante, qualcosa come un « amico » o sedicente tale, un non previsto « terzo », che, in quanto non previsto, risultava inevitabilmente « incomodo ». Quello che da allora ho continuato a pensare è che, almeno fintanto che si tratta di fotografie, la vista di una donna è inseparabile dalla vista di un cane, cioè che, nelle foto, la donna è sempre con un cane. Che non cessa mai di guardarti. Almeno fintanto che tu guardi la donna. Perché questo accada non si sa. Forse è qualcosa come una « legge » della foto, del fotografare, del guardare. Per tutte queste ragioni, mi piacerebbe pensare che « Newton » sia uno pseudonimo cioè qualcosa come un nome d’arte. Infatti ciò di cui si tratta nelle sue foto – in tutte le foto? – è qualcosa di « scientifico », qualcosa che ha a che fare con le « leggi », cioè con le regole di esistenza della realtà. Anzi, con una legge in particolare: la newtoniana legge di gravità, cioè della gravitazione universale – quella che spiega come funziona l’attrazione terrestre, cioè come la terra « attragga », attiri, persuada ad avvicinarsi sempre di più chi gli sta nei pressi, cioè, in un certo senso, sopra. Il ché, come è noto, è quello che spiega molte cose, fra cui le cadute. E, a maggior ragione, i crolli. (« Tutto qui? » « A me sembra già molto ») “.

  2. dm Says:

    A me piace ascoltare il racconto di chi è riuscito in una certa cosa e ne sa parlare nel modo lieve di chi ha avuto fortuna. Forse è il segreto della fortuna letteraria, questa grazia del saper rendere omaggio in qualche maniera alla fortuna vera e propria. Chi sa, magari sono fuori strada. Ma così la penso.

  3. grazia verasani Says:

    Caro dm la penso come te, nel mio caso ci sono stati incontri fortunati, preziosi, per quello che mi hanno insegnato, e severissimi nel loro giudizio, poi un’immensa fatica, che non finisce mai. Certo è che non ho mai ricevuto aiuto da chi non credeva che lo meritassi. Ma parlo di un mondo dove si parlava di leggere libri non di venderli come un prodotto… Parlo di un mondo dove non si voleva essere famosi, si voleva essere bravi, e farcela con le proprie forze.

  4. dm Says:

    Grazia Verasani, ma certo, è proprio il meritarsi la fortuna che mi piace come tema di narrazione. Non mi piace, invece, la mitizzazione delle origini dello scrittore, o la predestinazione, per così dire, come tema di narrazione (e mi riferisco a altre narrazioni di questa serie, pur belle).
    È bello insomma leggere il racconto di chi si è meritato la fortuna con un’immensa fatica, e col proprio talento evidentemente, perché è, fra le cose, un racconto morale e di speranza. Non solo per chi vuol scrivere, per chi vuol essere qualunque cosa.

  5. grazia verasani Says:

    dm la ringrazio di cuore

  6. RobySan Says:

    E uffa! Basta scrittrici carine. Ne vogliamo una almeno bruttarella!

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