[Questo è il sesto articolo della serie La formazione dello scrittore, che appare in vibrisse il giovedì (ed è parallela a quella La formazione della scrittrice, che appare invece il lunedì). Ringrazio Flavio per la disponibilità. gm]
Pioveva forte. Di questo sono certo. Ricordo le sensazioni ancora oggi, a distanza di quarant’anni. Mi basta chiudere gli occhi e in un attimo, ecco: la felicità, l’appagamento, il calore del letto, il-libro-stretto-fra-le-mani.
Ricordo bene anche le pagine: un bianco strano, ingiallito, rassicurante, le illustrazioni ricche di dettagli affascinanti da scoprire poco a poco, e per la prima volta niente mamma o papà a leggermi la storia serale, quella di cui avevo bisogno per addormentarmi…
Ma a ripensarci, no, forse non pioveva affatto, e i miei genitori mi spediscono malamente a letto rifiutandosi di leggermi l’ennesima storia alla ormai veneranda età di otto anni. Leggi da solo, mi dicono, ormai hai l’età per farlo.
Morale: dei ricordi non ci si può fidare. Neanche un po’. Questo, per me, è uno dei pochi fatti certi della vita. Troppo labili. Il più delle volte ci si illude. Si ricama. Ci si convince. Ecco che la banale biografia diventa mito.
“Gli unici – diceva Roberto Bolaño – a cui dovrebbe essere permesso di scrivere memorie sono gli avventurieri sanguinari, le attrici porno, i grandi detective, i trafficanti di droga e i mendicanti”. Non appartengo a nessuna di tali categorie umane. Quindi lasciamo perdere la biografia: qui in fondo, a ben vedere, l’unica cosa importante per comprendere lo strano processo che mi ha spinto a scrivere, lo strano processo che qualcuno potrebbe chiamare la formazione di uno scrittore, è il libro che tenevo stretto fra le mani: Viaggio al centro della terra, di Jules Verne (ma forse dovrei dire Giulio Verne – quando avevo quell’età, otto o nove anni, i nomi si traducevano ancora, e Jules Vern(e) era Giulio Verne). Seguirono i classici della Collana della Scala d’Oro UTET (collana per ragazzi pubblicata negli anni ’30, sotto l’occhio attento del regime, apparteneva a mia madre, ne ricordo – mi sembra di ricordarne – la copertina di tela blu con i caratteri argentati, le illustrazioni dettagliatissime, il Saladino sui bastioni di Gerusalemme mentre scruta malinconico le schiere dei Crociati di Riccardo Cuor di Leone pronte all’attacco, D’Artagnan, Richelieu o Mazzarino, identici nella mia testa, magrissimi, il volto affilato, il pizzetto diabolico, il Barone di Münchhausen in volo a cavalcioni di una palla di cannone che se la ride sorvolando i turchi…) e tutto Salgari, i corsari e i grassatori, il kris malese dalla lama curva, intinto nel veleno, che avrei tanto voluto possedere. Poi Melville e Conrad (il più amato). Graham Greene e Le Carré. Il primo racconto scritto al liceo ispirato al Bestiario di Julio Cortázar. La scoperta di Borges, ipnotizzato da Aleph, l’uno, la prima lettera dell’alfabeto ebraico, il principio di ogni cosa.
Non credo sia un caso che il mio primo romanzo si svolga in tre continenti diversi, abbia come protagonisti spie, avventurieri e prostitute, descriva luoghi esotici e remoti dove non sono mai vissuto, ma che sono certo di “conoscere” alla perfezione, casa per casa, vicolo per vicolo…
Tutto questo è ingenuo. Lo ammetto. E non particolarmente intellettuale. Non ho una formazione accademica in campo letterario. Mi spiace. Forse sarei uno scrittore migliore. Di sicuro sarei in grado di fare discorsi più sensati, con le citazioni giuste al posto giusto. Proverei emozioni diverse, credo.
A volte, riflettendo, mi dico che la scrittura per me è sofferenza. Altre volte mi rispondo che no, non è affatto sofferenza, anzi è la mia salvezza, la mia terapia. E così rimango oscillante, come spesso mi accade nelle cose della vita.
Allora, ecco un’altra cosa, credo importante, per la mia formazione di scrittore, anche se la parola scrittore la pronuncio non senza remore: di sicuro non pioveva a Riccione. È l’agosto del ’67 (questo non lo posso certo ricordare, ma lo ricostruisco sapendo tutto il resto): i miei genitori e alcuni loro amici, di cui non ricordo nulla – mio fratello non so dove fosse –, sono tutti seduti davanti a uno di quei televisori monumentali di quei tempi, attendono qualcosa, sono allegri, c’è un certo clima di eccitazione. Io invece mi annoio tremendamente e ho sonno. Ciondolo fra la terrazza e la sala della televisione. Ho un piatto di ceramica con decorazioni dorate fra le mani, la fetta di torta che ci stava sopra divorata fino all’ultima briciola. Non so dove diavolo ficcarlo quel dannato piatto. M’ingombra. La decisione è fulminea: lascio cadere il piatto finemente decorato (Sèvres o Limoges, ma a quell’età a certe cose non ci si bada), dalla terrazza al suolo, un volo di tre o quattro piani, un accumulo di energia cinetica che avrebbe potuto uccidere o quanto meno ferire gravemente un eventuale sfortunato passante. Andò bene. Non centrai nessuno.
Flavio! Che fai, sei impazzito?, gridò mia madre. Non risposi, mi limitai ad arrossire e ad attendere la giusta punizione. Ma tutto è dimenticato in un attimo, il piatto decorato di Limoges, i cocci sparsi sull’asfalto, il pericolo scampato, l’attenzione si concentra sull’esatto istante in cui mio padre, proprio lui, compare all’interno di quel rettangolo misterioso, la meraviglia per l’uomo in carne e ossa trasformato all’improvviso in una immagine a bassa definizione, in un bianco e nero primordiale, negli studi RAI di via Merulana (ma che dico?! L’ho sognata via Merulana? Forse perché ci passo, di tanto in tanto, nei miei viaggi di lavoro a Roma, e cerco il commissario Ciccio Ingravallo fra i passanti?). Non ci sono ombre, il set è illuminato a giorno da lampade ad incandescenza. Qualcuno (un tale Enzo Biagi, mi hanno detto molti anni dopo) gli fa un sacco di domande su qualcosa che ha scritto lui (mio padre). È la prima volta che sento la fatidica parola: romanzo. Ecco, l’ho detto. Da quel momento la parola mi è diventata familiare. Ho preso ad associarla a qualcosa di preciso anche se non sapevo ancora cosa di preciso significasse. Tutti ridevano, mio padre sembrava felice.
Ora però mi sento incerto; a ripensarci bene, non so se fosse davvero il ’67, e noi (io, i miei genitori, mio fratello) forse non eravamo a Riccione, ma a casa nostra, a Milano, al 4 di via Compagnoni, terzo piano. L’anno poteva essere il ’69, estate lo era, la tivù era certamente accesa, però gli uomini lì dentro non erano affatto mio padre e neppure Enzo Biagi, ma Tito Stagno che guardava (si fa per dire, date le lenti a fondo di bottiglia che portava) a sua volta in un’altra tivù, una tivù all’interno della tivù che guardavamo noi; scrutava, si fa per dire, in quella tivù all’interno della nostra tivù, Neil Armstrong che metteva il primo piede umano sul suolo lunare.
È forse questo il romanzo? Affondare il piede nella morbida polvere della luna? Me lo domando, ma non ho una risposta.
Potrei continuare, confondere i ricordi, modificarli, correlarli fra loro in una storia unica e alla fine forse anche coerente, ogni storia è il frutto di mille altre piccole storie. È questo che amo fare, confondere me e i lettori, miscelando luoghi e fatti in un flusso, un percorso, che neppure io ho idea dove nasca e dove finisca.
Forse tutto questo dipende da un impegno preso. Lo devo a mio padre. Possiedo ancora la sua Olivetti Lettera 22. Battendo i durissimi tasti (durissimi per me, bambino, che ci mettevo le mani per scriverci non so cosa) con due dita, ci trascriveva i suoi romanzi, scritti rigorosamente a mano, migrando di bar in bar oppure in auto, mentre la domenica mattina mi portava a scorrazzare all’idroscalo. Se ne stava al posto di guida tutto il tempo, la portiera aperta, un piede appoggiato a terra, mentre correvo su quei prati spelacchiati, fra alberi sparuti, immaginando di trovarmi nella giungla del Borneo o in una selva a caccia della Tigre del Bengala. Non lo perdevo d’occhio, ma non penso che si preoccupasse troppo di quello che facevo. Scriveva.
Poi tutto è sprofondato nel buco nero dell’antimateria. Ho dimenticato tutto. Ho studiato, ma tutt’altro. Mi sono laureato. Ho iniziato a lavorare come medico. Quello mi sembrava l’unico fatto rilevante della mia vita. I romanzi sono scomparsi per un lungo periodo, compresi quelli scritti da mio padre, dimenticati. Mi sembrava una perdita di tempo. Inutile. Dovevo imparare, accumulare informazioni, fare esperienza. Agire, in primo luogo, per incidere davvero.
Come scrittore forse dovrei concludere che non ho una vera formazione. In fondo pago un pegno. Onoro il padre. Così è, semplicemente.
Tag: Emilio Salgari, Enzo Biagi, Flavio Villani, Giorgio Villani, Graham Greene, Herman Melville, John LeCarré, Jorge Luis Borges, Joseph Conrad, Jules Verne, Julio Cortázar, Neil Armstrong, Roberto Bolaño, Tito Stagno
26 giugno 2014 alle 13:31
Uè, sono cose che possono fare male: uno che, a otto anni, venga lasciato solo con Melville o Borges può rimanere scosso e turbato per lustri! Per fortuna c’era Verne. Senonché, nei miei ricordi di formazione (non di scrittore, per fortuna di tutti) il Verne mi espose al ludibrio di un occhialuto assistente di laboratorio: “Hai passato il tempo a leggere Verne? Verne???”. Non sapendo che ribattere balbettai qualcosa come “Mi sembrava molto piacevole”, o roba così. Per mia fortuna il titolare della cattedra intervenne in mia difesa ribattendogli: “Be’, mica tutti avevavo già in mano il Capitale fin dalla materna”. Sortita che fece ridere tutta la classe e ammutolì il barbuto intellettualoide[*]. Viva Verne.
[*]: si potrebbe aver da ridire circa l’uso di questo termine (fa venire in mente il “culturame”, di scelbiana memoria), ma di uno che apostrofa un diciassettenne, rimproverandogli di aver letto Verne da ragazzino, non so che altro dire. Forse il classico “stronzo” potrebbe andare bene.
26 giugno 2014 alle 15:07
@Robisan: Che ne dici di questa definizione di intellettualoide: persona che, pur senza essere dotata delle qualita’ che caratterizzano gli intellettuali, ne imita (vedi: scimmiotta) gli atteggiamenti talvolta snobistici ed elitari.
26 giugno 2014 alle 16:08
I LUPI UCCIDONO DIO
IL RAGAZZO PREFABBRICATO
che bei titoli!
26 giugno 2014 alle 23:26
@RobySan: in effetti l’obbligo genitoriale di leggere Giulio Verne in autonomia al tempo ha fatto di me un lettore obtorto collo, ma ora non finisco di ringraziarli… Grazie della lettura e… viva Verne!
26 giugno 2014 alle 23:37
@lorenzo: sì, gran bei titoli, come tutto il resto di quei romanzi. Grazie. Prima o poi cercherò di renderli nuovamente disponibili ai lettori.
28 giugno 2014 alle 13:26
Ai miei tempi, anni 50 primi 60, Moby Dick era considerato una lettura destinata ai ragazzini, nulla di più. Poi il secondo Novecento gli ha assegnato una dimensione letteraria ben oltre quei limiti. Oggi i ragazzini non lo leggono più, temo, mentre gli adulti di quella mia generazione cadono genuflessi davanti all’incipit e relative implicazioni.
Una volta discussi con una editor di fama proprio su quell’incipit, facendo osservare che l’autore carica tre volte la molla nelle sei sette righe che seguono il “Chiamatemi Ismaele” (ogni volta che, ogni volta che, ogni volta che). Ma roba da matti, per quanto mi riguarda.
28 giugno 2014 alle 15:15
Bella narrazione. E Villani sembra avere un gran senso della conclusione… L’ultimo punto è un chiodo.