di Simona Vinci
[Questo è il ventiquattresimo articolo della serie La formazione della scrittrice (esce il lunedì), alla quale si è ora affiancata la serie La formazione dello scrittore (esce il giovedì). Ringrazio Simona per la disponibilità. gm].
Ricordo con chiarezza il tempo in cui nella mia vita la scrittura – la mia, ma soprattutto quella degli altri – non c’era: un tempo così breve da farmi pensare che, forse, nella mia vita la scrittura ci sia sempre stata, anche prima che imparassi a distinguerla e riconoscerla.
Ho cominciato a leggere molto presto, prima delle scuole elementari, e le mie letture da subito sono state voraci e onnivore. Nella casa dove abitavamo allora c’era una stanza che chiamavamo “la stanza della televisione”, era una specie di salottino, con un divano, una televisione ovviamente e un lungo scaffale che correva ad angolo su due pareti: lì, c’erano i libri di mia madre. Tascabili, edizioni economiche e Club degli Editori, soprattutto. I miei genitori non erano persone colte – nessuno dei due è laureato – ma mia madre è sempre stata una grandissima lettrice. Saggi, romanzi, poesie, filosofia, psicoanalisi. Leggeva nel modo confuso in cui leggono quelli che hanno fame ma non hanno le basi per apprezzare l’alta cucina; questo però le permetteva una grande libertà che piano piano la affinava e offriva a me un panorama – ristretto a quegli scaffali, certo, ma che vista!- che comprendeva universi distanti: Erica Jong stava accanto a Baudelaire, Pirandello di fianco a Erskine Caldwell e io tutto toccavo, sfogliavo e assimilavo.
I libri mi spiegavano il mondo, mi portavano in centinaia di posti diversi, non facevano rumore ma parlavano, erano per me la cosa più magica e affascinante di tutte, perché tutte le comprendevano. Lo penso ancora. Gli dèi, per me, erano quelli che scrivevano le storie e io volevo essere un dio. Non ho mai desiderato davvero nient’altro. Giocare a tennis ad esempio mi piaceva un casino, ma non ero abbastanza dotata da sperare di diventare una campionessa. Mi pareva che scrivere mi riuscisse meglio. E la mia innata spinta alle sfide e alla competizione con me stessa, combinata alla sfiducia nelle mie capacità, trovava in quel terreno deserto (non conoscevo nessuno che scrivesse!) un buon posto sul quale esercitarmi. Soprattutto, non c’era nessun maestro di tennis – di scrittura, volevo dire – a giudicarmi. Scrivevo e mettevo in fila i fogli: scatoloni e cartelline piene di roba: poesie, racconti, abbozzi di romanzo, lettere, moltissime lettere.
La prima cosa che ho scritto risale alla seconda elementare: metà dattiloscritto battuto a macchina con la Olivetti Lettera 22 di mia madre e metà scritto a mano nella grafia grande, inclinata verso destra e bruttissima che avevo a quei tempi. Sono una quarantina di pagine che conservo dentro una scatola marrone di Holly Hobbie incentrate sulle avventure di un cercatore d’oro nell’Alaska della seconda metà dell’Ottocento. Argomento del quale ovviamente ignoravo quasi tutto a parte quel che riuscivo a scopiazzare dai libri di Jack London che adoravo e all’inizio leggevo nelle terribili riduzioni per bambini. Erano quelle le storie che colpivano la mia immaginazione: nevi perenni, ghiacciai, avventure di uomini rudi e bestie selvatiche. Vivevo in campagna, avevo solo amici maschi e i miei pomeriggi erano occupati da escursioni in bicicletta e giri esplorativi in case rurali abbandonate o cantieri in costruzione delle nuove villette a schiera che dalla metà degli anni ’70 in poi hanno cominciato a infestare le campagne ai bordi delle città italiane. Mi piacevano tutte le storie che si concludevano con una morte misteriosa o una scomparsa inspiegabile. Nei racconti che scrivevo c’erano sempre bambini. Ero ossessionata dalla morte dei bambini, forse perché avevo paura di crescere e raccontare storie di bambini che morivano era catartico.
Gli studi sono andati benissimo fino al liceo, dove cominciarono i guai: ero allergica alla disciplina e preferivo leggere romanzi. A quei tempi avevo cominciato a scrivere storie più astratte, con personaggi maschili e femminili intrappolati in relazioni stereotipate. Sono approdata infine all’Università che è stata per me un luogo di libertà e creatività assoluta, visto che potevo gestire il mio tempo come meglio credevo e scegliere che cosa approfondire. All’Università ho incontrato professori che mi hanno segnata profondamente, come la storica della lingua italiana Maria Luisa Altieri Biagi e l’italianista Ezio Raimondi: grazie a loro il mio Pantheon ha cominciato ad affollarsi. Prendevo la corriera che dal mio paese alle porte di Bologna mi portava in centro città con la testa piena di parole e la borsa carica di libri. Andavo alle lezioni come si va a un appuntamento, lieta della mia ignoranza e della mia ingenuità: perché l’ignoranza esiste per essere colmata, e l’ingenuità per essere ferita. Delle ferite che guariscono restano le cicatrici, e le cicatrici sono come le parole scritte: incisioni sulla pelle del tempo. Ai tempi dell’università “magica” mi sono avvicinata a un gruppo di poeti un poco più grandi di me (c’erano Vincenzo Bagnoli, Giacomo Manzoli, Stefano Semeraro, Sergio Rotino, e poi a latere Giancarlo Sissa, Alberto Bertoni…): tutti maschi, da principio, che mi trattavano con la condiscendenza bonaria che a volte i maschi riservano alle giovani femmine ignoranti e ingenue, ma che piano piano hanno mostrato di apprezzarmi – forse anche per le manchevolezze di cui sopra.
La prima cosa che io abbia mai pubblicato fu dunque una poesia. Poi i giri si ampliarono e conobbi altri scrittori della mia città: Carlo Lucarelli, Marcello Fois, Giampiero Rigosi e quelli che erano stati i loro maestri o fratelli maggiori, Loriano Macchiavelli, Luigi Bernardi, Stefano Tassinari. Bologna era un posto in cui gli scrittori si trovavano bene, con la città in sé e tra loro: si frequentavano, si scambiavano pareri su ciò che andavano scrivendo e accoglievano i giovani aspiranti autori con una freschezza e una semplicità che oggi mi pare ancora più straordinaria. Ho avuto la fortuna di avere Carlo Lucarelli, che allora era appena stato promosso consulente per Stile Libero come mio primo lettore: avevo appena finito di scrivere un racconto lungo che si intitolava Scene di morte e sentivo che aveva il respiro per qualcosa di più. Gli domandai se avesse tempo di leggerlo: lo lesse e decise di mandarlo a Severino Cesari dell’Einaudi. Dopo un paio di settimane ricevetti una telefonata dalla Casa Editrice e un anno dopo, nel 1997, fu pubblicato Dei bambini non si sa niente, il mio primo romanzo.
In seguito, adesso cioè, dopo quasi dieci libri pubblicati, molti dei quali tradotti in tante lingue e grazie ai quali in questi ultimi diciassette anni ho potuto viaggiare e conoscere il mondo che prima scoprivo attraverso i libri degli altri, non mi sono trasformata in uno scrittore consapevole, uno di quelli che sanno di preciso dove si collocano, come lavorano, cosa vogliono dire e come vogliono dirlo. A volte questa cosa mi turba, altre volte mi rallegra: ho ancora tanto da imparare e siccome ho sempre imparato le cose facendole, con un’umiltà invisibile che io sola conoscevo dato che, viste con gli occhi degli altri, le cose parevano andarmi sempre bene, continuo a seguire questo metodo: imparo a vivere vivendo e a scrivere scrivendo. Non sempre la cosa mi è riuscita alla perfezione, in entrambi i campi, ma ho sempre accettato e accetto il rischio di sbagliare. La formazione di uno scrittore e dunque di un essere umano non finisce mai. Per me la scrittura è un modo di stare nel mondo e di dialogare con quelli che il mondo lo abitano insieme a me e chissà – lo spero tanto, è la mia unica forma di fede!- forse con quelli che lo abiteranno dopo. La scrittura mi serve per crescere, e ogni volta che comincio a scrivere un testo nuovo, che essenzialmente viene generato da una serie domande che la vita (quella che è accaduta e accade a me e quella che vedo accadere agli altri) mi ha posto e mi pone, sono contenta di poter immaginare che quelle domande se l’è fatte e se le sta facendo qualcun altro, qualcuno che chissà, forse prima o poi diventerà il lettore di quel testo. E’ una fortuna incredibile avere dei lettori, una grazia che già da sola, per quanto mi riguarda, ripaga ogni ambizione. Scrivere e leggere sono le uniche due attività che mi regalano la suprema pienezza: stare sola essendo in compagnia.
Tag: Alberto Bertoni, Carlo Lucarelli, Charles Baudelaire, Erika Jong, Erskine Caldwell, Giacomo Manzoli, Giampiero Rigosi, Giancarlo Sissa, Jack London, Loriano Macchiavelli, Luigi Bernardi, Luigi Pirandello, Marcello Fois, Sergio Rotino, Simona Vinci, Stefano Semeraro, Stefano Tassinari, Vincenzo Bagnoli
23 giugno 2014 alle 09:44
“””Gli studi sono andati benissimo fino al liceo, dove cominciarono i guai: ero allergica alla disciplina e preferivo leggere romanzi.””
bello, sapevo, e cmq ben detto, mi ci rivedo
25 giugno 2014 alle 14:00
“I miei genitori non erano persone colte – nessuno dei due è laureato – ma mia madre è sempre stata una grandissima lettrice.”
Quando dicesi di inciso inutile…
25 giugno 2014 alle 14:02
ho criticato anchio quella frase sulla bacheca fb della stessa autrice
25 giugno 2014 alle 14:16
Perché “inutile”?
25 giugno 2014 alle 14:25
E sulla sua bacheca Fb Simona ti ha risposto, Davide: e in maniera che mi pare ineccepibile. (Non posso citare letteralmente la risposta qui, perché un blog leggibile a chiunque non è la stessa cosa di una pagina Fb che può esser letta solo da chi è ammesso dal titolare).
25 giugno 2014 alle 14:32
A mio modestissimo parere, perché non porta alcuna “utile” informazione al discorso. Collega il concetto di cultura a quello di istruzione (anzi, a un preciso titolo di istruzione). La cultura mi sembra qualcosa di più complesso. Bastasse la laurea per creare una persona colta…
25 giugno 2014 alle 14:34
concordo con mauro,giulio; e NON concordo con la risposta che simona mi ha dato su fb
25 giugno 2014 alle 14:36
per la cronaca,io non ho simona in “amici” su fb ma leggo la sua bacheca senza problemi (idem con la tua bacheca fb, gulio)
25 giugno 2014 alle 14:43
Mauro: l’inciso è una forma di coordinazione. Simona dice: i miei genitori non erano colti; e aggiunge: e non avevano neanche un’istruzione formale di livello universitario. Né colti né istruiti, insomma. Se trovi che l’aggiunta non fornisca nuova informazione, sei in disaccordo con te stesso.
Se Simona avesse scritto, a es.: “I miei genitori, non essendo neanche laureati, non erano persone colte”, sarebbe stata un’altra cosa. Ma Simona non ha scritto questo.
(Nota autobiografica: io non so se sono colto, ma sono certo di non essere laureato).
25 giugno 2014 alle 14:51
Davide, prova a considerare il fatto che al mondo non esisti solo tu. Tu puoi leggere la mia pagina in Fb, ma ci sono persone che – per mia decisione – non possono leggerla.
Sulla sostanza ho risposto qui sopra, e mi pare che non ci sia altro da dire.
25 giugno 2014 alle 14:58
Scusa Giulio, ma mi sento un po’ come un pizzaiolo di provincia che vuole dare lezioni di cucina a Vissani (il pizzaiolo sarei io…). Io ho scritto che, secondo me, il suo inciso (che rafforza, perché io l’ho letto come un “rafforzamento”) non porta alcuna informazione “utile”. Non ho scritto che non porta informazione “nuova”.
Ho anche letto la risposta di Simona sulla sua bacheca di fb e trovo che non porti nuova “linfa” al suo ragionamento.
Secondo il suo ragionamento, se i genitori fossero stati laureati in ingegneria genetica o in medicina avrebbero avuto le basi per “apprezzare l’alta cucina”?
Simona ha usato un termine preciso: colte. Avesse usato il termine istruito, sarei passato oltre e più non avrei dimandato…
25 giugno 2014 alle 15:09
Mauro: Simona, se avesse usato il termine “istruiti”, avrebbe detto in sostanza: i miei genitori non erano istruiti e non erano istruiti.
Nessuna informazione nuova nella seconda proposizione, quindi nessuna utilità.
La tipica informazione inutile è quella che è già stata data (es.: “Giuseppe accorse velocemente”: il “velocemente” è un’informazione inutile perché già data, in quanto la velocità inclusa nel verbo “accorrere”).
Mi sembra elementare.
25 giugno 2014 alle 15:35
Non so perché si scriva solo di una minuzia, sotto a un testo così luminoso. A me è piaciuto, e non conoscevo, nome a parte, Simona Vinci. Sa allacciare connessioni e movimentare le sinapsi del lettore in un modo particolare. E – ad esempio – m’ha risvegliato la fascinazione per Bologna di cui mi ero completamente dimenticato. (Non sono mai stato in una città più “a misura d’uomo”). Insomma, una scoperta.
…La minuzia è comunque, a mio modo di vedere, minutamente infelice.
Ma insomma… grazie.
25 giugno 2014 alle 15:36
(…non amo mai troppo gli avverbi, ne le leziosità,e non mi riferisco al testo della Vinci)
25 giugno 2014 alle 15:56
Se Simona avesse usato il termine istruiti avrebbe scritto “I miei genitori non erano istruiti – non avevano nemmeno la laurea – ecc.”
Almeno io avrei scritto così.
25 giugno 2014 alle 16:39
Se Simona avesse scritto così, Mauro, avrebbe detto due volte la stessa cosa. Invece ha scritto che i suoi genitori non erano né “colti” né particolarmente “istruiti”.
Ha insomma distinto tra “cultura” e “istruzione”. Esattamente come tu proponi di fare.
Se vuoi non essere d’accordo con te stesso, sei liberissimo di farlo. Però mi pare poco pratico rimproverare a una persona di fare ciò che le si chiede di fare.
E così ho provato a spiegare per la terza volta. Spero di non ricevere per la terza volta la medesima, inefficace, obiezione.
25 giugno 2014 alle 16:56
Davide Calzolari, in “non amo mai troppo gli avverbi” ci sono tre avverbi (di cui due di troppo).
25 giugno 2014 alle 16:59
Perché “inefficace”?
(Ok, la pianto qui. Non è il mio blog. Grazie comunque delle spiegazioni)
25 giugno 2014 alle 18:43
“ 26 novembre 1995 – « 2 ottobre 1944 – […] La laurea ad honorem richiesta per Clark (cap. Prett) e Hume (magg. […]). Mi dice Berenson: “ Gli americani sono ragazzini: ne fanno collezione. Dategliela così la mettono sull’annuario. C’è un americano sull’annuario che ha come titolo solo questo: di avere una collezione colle fotografie firmate di tutti i sovrani d’Europa “. » (Piero Calamandrei, Diario) “.
26 giugno 2014 alle 06:52
“Inefficace”, Mauro, per queste ragioni:
Ma, non so, mi pareva di averlo già detto.
26 giugno 2014 alle 10:52
Dire che una persona Laureata non e’ necessariamente colta, non equivale a dire che una persona laureata e’ necessariamente ignorante. In linea generale, mi sembra quantomeno logico affermare che una persona laureata (quindi certamente istruita) abbia piu’ possibilita’ di una persona non laureata (priva cioe’ di certificazioni riguardo la sua istruzione) di essere ANCHE colta.
Aggiungo poi- a memoria- la definizione di cultura che appresi da ragazzino durante la lettura dell’Ivanhoe di W. Scott e che da allora mi porto dietro:” La cultura e’ la conoscenza approfondita di un singolo argomento e non il saper parlare di molte cose con degli ignoranti”.
Una definizione, peraltro, che si sposa bene con il concetto di Laurea (per ottenere la quale si studia in maniera approfondita una certa materia.)
26 giugno 2014 alle 11:38
l’esperienza degli ultimi anni sembra dire il contrario,altrimenti non si spiegherebbe perchè ci son tanti laureati a spasso
alcuni datori di lavoro che ho sentito io han detto “una diploma d ragioneria aiuta a fare l’impiegato perfetto?no ma spesso chi ha solo un diploma ha fatto piu lavori,quindi ha visto una quantità di mondi diversi,il che aiuta,e assai-chi ha la laurea è magari specializzato su una cosa sola ma l’ultra specializzazione serve solo in determinati campi tecnici,non n tutto,anzi…”
quanto a molti che scrivon su fb (scrittori + laurea,non sempre ma spesso)molto spesso le loro analisi “di come va il mondo ” io e altri le abbiam trovate alquanto stravaganti-sempre avvolte di quel curioso rousseauvismo che aveva fin all’ altro ieri qualche settore della società italiana,e poco altro:e anche qui “..e poi ci si lamenta che il campo narrativo ha sempre poche vendite”…(e te credo)
colto è chi sa fare collgamenti tra argomenti diverse e magari dice qualcosa di nuovo,mica chi è ultraspecializzato in qualcosa magari di scarso interesse collettivo,sennò basterebbe metter al governo un ricercatore di filologia classica……
quando leggo simona vinci non ci penso neanche minimamente a che studi ha fatto,mi basta la ricchezza espressiva:le idee sul mondo e i messaggi veicolati dai suoi libri non mi piacciono,ma diciamo che sul livello linguistico la ragazza se la cava davvero
26 giugno 2014 alle 18:59
Davide, per piacere, non cominciamo a dire sciocchezze. Scrivi:
Leggi qui:
Quanto a quegli “alcuni datori di lavoro che hai sentito tu”, dei quali riporti frasi tra virgolette: e chi se ne frega di ciò che dice una fonte inidentificabile. Quei luoghi comuni, peraltro, li sento dire da trent’anni almeno.
26 giugno 2014 alle 19:15
” Martedì 26 maggio 1998 – Dice: « C’ha tre lauree e deve venire qui a lavorare gratis perché non trova lavoro? » Dico: « Non lo chiedere a me, chiedilo ai laureatori ». “.
26 giugno 2014 alle 20:12
gulio,indagini recenti han dimostrato che l’effetto onda della laurea è finito da qualche tempo-quei dati sopra si riferiscono agli anni scorsi (nb:la crisi non è passeggera..è sistemica!)
empiricamente chiedi a qualche imprenditori veneto o emiliano lombardo(a meno che non stia cercando un ingegnere meccanico con 5 anni di esperienza)cosa ne pensa tra una laurea in filosofia o un diploma di ragioneria,per una ricerca di impiegato/a, e poi senti cosa risponde …:)
accetto scommesse eh 😀 😀
27 giugno 2014 alle 05:07
Allora, Davide.
Tu sai che ti ho più volte bandito, temporaneamente, da “vibrisse”.
Tu sai perché l’ho fatto: perché non tollero di discutere con una persona che continuamente usa argomenti del tipo: “C’è uno che dice…”, “Ho letto non so dove che non so chi diceva…”, “Un amico mio dice…”, “Basta che chiedi…”, eccetera.
A questo punto le possibilità sono due:
– o non capisci,
– o pigli per il culo.
Quindi: addio. Non voglio più aver che fare con te.
27 giugno 2014 alle 20:01
Mauro, secondo me, nel trovare inutile quella frase di Simona Vinci, utilizzi un significato di “colto” in una dicotomia colto-istruito con l’aspettativa che tutti si adeguino a quel significato .
Sul Sabatini Coletti per esempio troviamo questi significati di “colto”:
• agg. Istruito, dotto: il professore è molto c.; che denota cultura: una visione c. delle cose || lingua c., lingua letteraria, contrapposta a quella corrente o familiare
• s.m. (spec. pl.) Chi ha conseguito un titolo di studio superiore: la classe dei c.
• sec. XIII
http://dizionari.corriere.it/dizionario_italiano/C/colto.shtml
vedi che la parola, che è abbastanza antica, si porta dietro il significato di istruito anche oggi. La persona colta, il colto è colei/colui che è andato a scuola, dove ha appreso un sapere. Cioè non basta leggere, bisogna studiare.
La cosa è significativa anche da un altro punto di vista. Il dialogo è possibile prima di tutto grazie al principio di carità interpretativa, si deve andare verso l’interlocutore nell’attribuire significato alle sue parole, restando ovviamente nell’ambito del plausibile. Se irrigidisci il significato secondo il tuo uso, diventa impossibile parlare.