di Demetrio Paolin
[Questo è il quinto articolo della serie La formazione dello scrittore, che appare in vibrisse il giovedì (ed è parallela a quella La formazione della scrittrice, che appare invece il lunedì). Ringrazio Demetrio per la disponibilità. gm]
Da dove inizio? Dal mio paese, in cui ho vissuto per 25 anni. Il mio paese non ha una libreria che sia una, né una biblioteca comunale. Quindi mi pare strano ora essere qui a raccontare a voi la mia formazione di scrittore. Eppure mi sembra che tutto trovi ragione in quell’assenza di libri, che ha fatto nascere in me qualcosa come un bisogno. Ovvio che il mio è un ragionamento ex post, per fare chiarezza su un movimento della mia psiche di allora (ovvero di un preadolescente con una leggera balbuzie e un difetto di pronuncia nella “s”) che percepisco ancora come oscuro.
Nella mia casa non c’erano libri. Io, infatti, non provengo da una famiglia di lettori. Non ho ricordi del tipo: “Quando avevo otto anni entrai nello studio di mio padre e presi di soppiatto il primo libro, erano i racconti dei pirati di Salgari”. Io ho una diversa storia: a casa mia c’era una Bibbia. È stata quella la mia prima lettura. Le pagine della Bibbia sono state per me, prima che un testo sacro, un libro di storie bellissime e di narrazioni avvincenti. Penso alla storia di Saul o a quella di Davide, penso all’impressione che ne ebbi leggendo la vicenda dei Maccabei, oppure di come mi stupii nel leggere Qoelet, o i profeti. Il turbamento di riconoscermi in Geremia. Ci ho messo un po’ a leggerla tutta, dal “Bershit” [“In principio”] iniziale al “Maranathà” [“Vieni, Signore”] della fine, eppure credo che niente di quello che ho scritto dopo, al di là del suo valore, possa essere compreso senza capire che la mia fantasia e la mia immaginazione non si sono nutrite dei miti greci e romani, che non ho formato la mia idea di mondo avendo come riferimento Achille e Ettore, Patroclo e Ulisse ma Mosè, Esaù, Isaia, Salomone.
C’è di più. Nessuno dei miei amici leggeva, né tantomeno scriveva. Siamo dei campagnoli: noi maschi siamo ragazzi da lunghe pedalate in bici, partite interminabili a pallone, mentre le ragazze sono sostanzialmente delle svampite sempre a caccia di un ragazzo con la macchina. Io conducevo una doppia vita, quando ero fuori mi sedevo sulle panchine e mangiavo il gelato, discutevo di Coppa Campioni, prendevo in giro la Anna perché aveva i brufoli e poi, quando tornavo a casa, avevo il mio taccuino. Il taccuino era in realtà in block notes “Pigna”, solitamente con la copertina dal colore violaceo, in cui ricopiavo le pagine o le frasi che più mi colpivano dai libri che leggevo. Credo che quell’esercizio da amanuense fuori tempo massimo sia stato il mio primo viatico alla scrittura critica e alla critica letteraria. Ricopiare un testo, un brano piuttosto lungo, comprese le virgole e i punti, ti porta lentamente dentro la struttura della frase, dentro il giro delle parole, delle pause, delle assonanze e delle discordanze. Ricopiare un brano da La luna e i falò di Pavese, ad esempio, ti fa comprendere come l’uso della punteggiatura di Pavese non abbia nulla a che vedere con la sintassi, ma invece sia il tentativo di fornire un ritmo a costo di stravolgere in parte le regole che ci sono state insegnate dalle elementari in poi.
Venne poi un tempo strano, che dovevo dire delle cose.
Non so come altro spiegarlo, avevo dei pensieri e questi pensieri mi sembravano anche profondi. Incominciai a scrivere poesie su una vecchia Olivetti di mio cugino, che aveva iniziato ragioneria, ma poi aveva smesso e si era messo a fare l’idraulico come suo padre, mio zio. Ecco, io voglio dire un’altra cosa sul paese, poi torno alle poesie, perché questa cosa che dico c’entra con le poesie. Mio padre e mia madre si sono spaccati la schiena per farmi studiare e farmi comperare libri e così un giorno ho sentito con queste mie orecchie la seguente frase detta a mio padre: “Il figlio di un tulè (ovvero un idraulico) non può studiare, deve fare il tulè o al massimo l’operaio”. Ecco per dire che io c’avevo nel destino d’essere il figlio del figlio del tulè (lo era stato mio nonno, lo era mio padre, ergo lo sarei stato io…).
Io comunque avevo dei pensieri che volevo dire e invece di scriverli a penna mi presi una macchina da scrivere. Avevo quasi 18 anni e ci sono due strani fatti legati a quelle poesie scritte per un anno e mezzo, che vi voglio raccontare.
Il primo. Nonostante l’orrore e la sciatteria del linguaggio, quei versi possedevano un immaginario strano: c’erano odi al profumo della benzina, poesie sulle lattine di coca-cola vuote, melanconiche riflessioni sui cimiteri d’automobili, descrizioni di scontri d’auto, elegie su prostitute trovate annegate nel fiume. L’altra cosa strana è il supporto sul quale scrivevo: no biro, no quadernetti, ma risme di carta e macchina da scrivere. Mi mettevo al tavolino la sera, qualche volta, e scrivevo quello che mi veniva in mente e lo lasciavo da parte. Inconsciamente desideravo che quelle parole venissero lette, avevo bisogno di una persona che le pronunciasse, perché esistessero.
Come in tutte le storie di formazione, succede un episodio illuminante, un’epifania che modifica la percezione del protagonista, ovvero di “io”, che fino a quel momento è un borioso 19enne pieno di sé che si crede un poeta. Avviene, però, l’epifania e prende questa forma: mia madre, mio padre e mia nonna vogliono a tutti i costi farmi pubblicare un libretto con le mie poesie. Avevano visto al Costanzo Show una casa editrice che diceva di essere una casa editrice e invece era una semplice tipografia. La tipografia chiese dei soldi, io pensai che non fosse il caso (i soldi non erano tanti, ma erano troppi, comunque) eppure mia madre, mio padre e mia nonna dissero che li avrebbero spesi. Mia madre disse una cosa disarmante: io trovo le tue poesie belle, tristi, malinconiche ma belle. Rispetto a questo investimento non solo economico ma emotivo, io smisi di scrivere. Lasciai perdere qualsiasi velleità. Perché a essere onesto la meschinità delle mie opere non aveva niente a che vedere con la generosità dell’atto dei miei genitori. Non era il caso di continuare a scrivere, perché la qualità di quello che andavo componendo non era neppure plausibilmente paragonabile al profondo atto di fiducia che alcune persone avevano fatto su di me. Questa cosa che imparai allora si chiama responsabilità. Uno è sempre responsabile di ciò che scrive e di quello che muove scrivendo. Fu un momento di nitore doloroso per me e per la mia supponenza autoriale. È per questo motivo che non mi è mai importato granché della bellezza del mio stile. Io ho sempre cercato di scrivere libri in cui potessi dire ecco “io sono”, perché convinto che la letteratura fosse qualcosa che avesse a che fare “non tanto con il bello quanto con il vero”.
In questo senso due sono le esperienze mi hanno cambiato: la mia carriera universitaria e il lavoro da giornalista. Io ho frequentato l’Università di Lettere a Torino, che negli anni 90 significava seguire i corsi di letteratura italiana con Carlo Ossola, Giorgio Barberi Squarotti, Marziano Guglielminetti. Guglielminetti è stato il mio maestro amato, mi ha insegnato come camminare nei testi dei grandi autori del Cinquecento e del Seicento… mi ha insegnato a leggere Pavese in un modo nuovo, mi ha fatto scoprire Gozzano, è stato seduto con me su un dondolo fuori un’osteria nei pressi di Mauthausen e il dondolio ci ha fatto entrambi addormentare. Ha riso con me durante una sera in birreria e mi ha sempre fatto scrivere come volevo, non ha mai piegato i pezzi della mia tesi allo stile accademico, ha lasciato che m’esprimessi anche in modo molto libero e sui generis. Ha, forse involontariamente, salvato la mia esistenza quando un giorno durante una lezione sul Triumphus Cupidinis di Petrarca ha recitato e ha spiegato con una chiarezza lucida i versi: “E vidi a qual servaggio et a qual morte,/a quale strazio va chi s’innamora”. Fu un momento così profondo e umano, che mi ha lasciato una nostalgia intensa e un desiderio, ovvero di essere, un giorno, come lui. So anche che per raggiungere quella bravura ci vogliono una sapienza e un rigore che solo lo studio e la vita mi daranno, ma ogni volta che scrivo un saggio letterario io mi chiedo se e cosa avrebbe detto lui; se e come avrebbe approvato le mie interpretazioni. È un dialogo muto purtroppo da quando non c’è più, ma è un dialogo amoroso.
L’esperienza del giornalismo, invece, è arrivata un po’ per pagare l’università e un po’ per vanità; io mi credevo bravo a leggere i libri e a scriverne. Quando ho incontrato Franco Ventura ho pensato di essere finito in una sorta di film. Lui era grasso, con una enorme e lunga barba bianca. Era un vecchio anarchico, non credeva in niente che non fosse lui, e il suo unico amore era il giornale che dirigeva. Quando mi ha visto mi ha detto: Tu vuoi scrivere? E immagino che sia qui perché come tutti quei frocetti e femminucce – Franco era misogino e brutale, ma dolce e amicale non appena capiva che gli volevi bene – vorresti scrivere di libri. Qui di libri non se scrive, se vuoi puoi fare cronaca nera e cronaca giudiziaria.
Io dissi sì e furono anni di un apprendistato di scrittura. Scrivere per Franco era una fatica, i pezzi ti tornavano indietro con le sue annotazioni legate al “tu”, al potenziale lettore. Prendeva un periodo, troppo lungo e arzigogolato, e faceva un segno in rosso e scriveva: “Qui il lettore è andato alla pagina dello sport”; oppure: “Qui il lettore pensa che tu lo tratti da deficiente.” L’apprendistato con Franco è stato l’apprendistato del “tu” ovvero del comprendere che scrivere non è altro che un modo come un altro per comunicare, che non c’è niente di magico, di “maledetto”, di “profetico”. Scrivere è una cosa, come battere la lastra, progettare ponti, cucinare o correre in macchina. Si fa e si deve tenere conto che lo si fa perché qualcuno ogni giorno esce di casa e va in edicola e prende il giornale e legge.
L’altra cosa che mi ha insegnato Franco è stato lo scendere dal treno. Lui diceva spesso: “Voi che vi credete scrittori siete sempre sopra un treno e guardate le cose dal finestrino. Quando vi colpisce una cosa passate il tempo a rievocare nella vostra mente lo struggimento dell’attimo in cui avete visto una cosa bella. Però avete paura di scendere perché temete che in realtà ciò che avete visto non sia bello come vi immaginate, ma sia una merda. Ecco io sono diverso, se sono in treno e vedo una cosa che mi colpisce, aspetto la prima stazione e scendo e vado a vedere, perché si scrive con i piedi”.
Se, infine, mi sono messo a scrivere è perché ho letto Il male naturale di Giulio Mozzi (la storia del perché ho dovuto occuparmi del libro l’ho raccontata nella posfazione alla riedizione del testo per Laurana Editore). In quel libro ho trovato un immaginario condiviso. Leggendo Il male naturale io pensai semplicemente che esisteva la possibilità per me e per le cose che andavo pensando di diventare pubbliche. Avevo insomma trovato la mia collocazione nel “campo letterario”.
Questa presa di consapevolezza, lentamente mi ha portato a pubblicare i miei libri e a pubblicare articoli e riflessioni critico letterarie. Mi rendo conto, adesso che sono arrivato al termine di questa mia riflessione, di non aver detto nulla di interessante sui meccanismi per cui, alla fine, scrivo e sulla mia formazione di scrittore. È come se ora guardassi le mie viscere e budella, è come se mi accorgessi di aver fatto un viaggio a ritroso nelle mie radici; e mi rendo conto che non c’è niente di chiaro in questa storia. Se non che ho 40 quarant’anni e ho scritto qualche libro. Per questo motivo vi chiedo scusa e vi ringrazio per la pazienza e la lettura.
Tag: Bibbia, Carlo Ossola, Cesare Pavese, Francesco Petrarca, Franco Ventura, Giorgio Barberi Squarotti, Guido Gozzano, Marziano Guglielminetti
19 giugno 2014 alle 10:06
Caro Demetrio, la tua storia per me è stata molto istruttiva. Grazie.
19 giugno 2014 alle 10:22
La lettura mi ha riportato alla mente l’immaginario, alcune situazioni e alcuni temi de ‘Il mio nome è legione’, rischiarando, a tratti, di una nuova luce l”Heart of Darkness’ di quel romanzo. Toccanti i ricordi su Guglielminetti e divertenti quelli su Ventura.
19 giugno 2014 alle 10:36
giusto per fornire qualche coordinata temporale. I fatti qui raccontati coprono un arco di tempo che va dal 1988 al 1999. Questo per aiutare chi legge a orientarsi nel tempo.
d.
19 giugno 2014 alle 12:30
“ 12 marzo 1994 – La zia Olga stava in un ufficetto che io ricordo tutto rosso piccolo e protettivo come la cabina di una nave nei locali della Accademia dei Rozzi. Oppure il rosso che ricordo era quello dei velluti dell’adiacente teatro, ora in via di riapertura dopo restauro. Nell’ufficetto c’era una macchina da scrivere: io ci scrivevo, credo le solite frasi dei principianti, nome, cognome, indirizzo etc. La zia Olga era nubile cioè zitella. Una volta le diedi un colpo di zappa sulla testa, involontariamente ma non troppo. (No: involontariamente) “.
19 giugno 2014 alle 12:49
Bellissima testimonianza, Demetrio. Prima viene voglia di conoscere l’uomo, poi di leggere lo scrittore.
19 giugno 2014 alle 13:26
Ho letto i libri di Demetrio e lo conosco personalmente, e posso dire che in questo racconto c’è tutto lui, la sua poetica asciuttezza, la sua schietta umanità.
A mio avviso il cuore di tenebra soggiacente all’opera di Demetrio (per riprendere l’espressione usata più sopra da Stefania) sta tutto nel contrasto in apparenza insanabile fra l’iniziale modello biblico e il successivo apprendistato presso il rude Franco Ventura, nella distanza ricucita fra Bibbia e cronaca nera. In questa discrasia, in questo binomio “sacro”/”profano” si colloca la cifra essenziale (e per certi versi inafferrabile) di ciò che Demetrio scrive e dello spirito con cui lo scrive.
19 giugno 2014 alle 14:21
Io ho conosciuto solo un po’ entrambi ed è stato un grande piacere. Grazie per le tue parole. ciao Demetrio
20 giugno 2014 alle 12:06
Grazie signor Vibrisse.
20 giugno 2014 alle 17:21
“Signor Vibrisse”?
21 giugno 2014 alle 20:29
Ventura e il treno: l’arte.
22 giugno 2014 alle 12:10
“Signor Vibrisse”?
Volevo dire:
Grazie Signor Giulio Mozzi per aver creato Vibrisse e per la cura che le dedica. Un luogo ricco di cose belle e interessanti. A volte divertenti e a volte commoventi.
23 giugno 2014 alle 03:00
E poi mi manca quella testa pelata.
24 luglio 2014 alle 15:02
La responsabilità: che meraviglioso insegnamento.
S.
29 Maggio 2015 alle 08:55
Un pezzo di vita da portare nelle classi, quante verità e illuminanti insegnamenti. Grazie Demetrio, fortunatissima nell’averti incrociato, di saperti ora fra gli amici e di pensare a quel venerdì come a una rara Epifania, un incontro con l’uomo-scrittore fra i più belli. Sei immenso