di Demetrio Paolin
Leggendo il nuovo libro di Gabriele Dadati Per rivedere te (Barney Edizioni) ho più volte pensato di trovarmi davanti non a un romanzo, ma a un libro di etnografia. Questi appunti brevi sono il tentativo di spiegarmi e di spiegarvi il motivo di questa mia convinzione
Se diamo retta alla dicitura di copertina Per rivedere te è sicuramente un romanzo, ma se decidiamo di addentrarci dentro le pagine della storia che Dadati ci racconta, qualcosa ci suona diverso. Intanto, però, cerchiamo di rendere conto della trama. Il protagonista, Gabriele Dadati – scrittore con all’attivo un libro di racconti pubblicato con un piccolo editore e in procinto di uscire con un romanzo storico con un editore importante – deve intervistare, per una collana di libri editi dal Corriere della Sera, Manlio Castoldi, anziano scrittore, tra i più importanti della sua generazione, che vive in Brianza dove ha ambientato tutte le sue storie. Durante queste sedute per la preparazione del romanzo, Gabriele conoscerà Tabita, nipote di Manlio, e tra di loro nascerà una storia d’amore.
La prima cosa che salta all’occhio è il nome del protagonista, che coincide perfettamente con il nome dell’autore; in più, chi avesse letto Piccolo Testamento (prova precedente di Dadati) potrebbe notare alcuni tratti in comune tra il Gabriele di Per rivedere te e il Gabriele di Piccolo Testamento. Un dato su tutti è il dolore per la scomparsa del maestro amico amato Stefano, che in Per rivedere te compare semplicemente come “S.”.
Questi indizi potrebbero far derubricare la nuova prova narrativa dello scrittore piacentino a semplice autofiction, di cui Per rivedere te rappresenta la seconda pala di un dittico.
In realtà a modificare questa percezione è una scelta stilistica che Dadati compie nel testo; una scelta sintattica e una spia di una volontà diversa rispetto alla semplice tensione “autofinzionale” del precedente libro. Per rivedere te, infatti, è scritto usando la seconda persona. Dadati vuole raccontare un territorio, la sua ossessione non è quella di raccontare la propria storia, mascherandola con la finzione, ma di provare a spiegare un luogo, una porzione di questa terra nostra che è l’Italia. Penso che Dadati (non so quanto questa scelta sia stata in lui conscia) volesse misurarsi con un grande classico del nostro ‘900, ovvero Viaggio in Italia di Piovene.
Questo perché nella lettura delle pagine del romanzo ci si rende conto che poco alla volta i personaggi, Manlio, Tabita e lo stesso Dadati, scompaiono come ingoiati in un affresco più grande, quello della Brianza: un tempo terra felice e prosperosa e oggi simbolo di un meccanismo che si è rotto o, meglio, pervertito.
Cosa c’entra il “tu” narrativo con tutto questo? Provo a spiegare. Quando si vuole descrivere un territorio, non soltanto dal punto di vista geografico, ma anche culturale e produttivo, ci sono due tipi di sguardo. Il primo lo definirei da “antropologo” e il secondo da “etnografo”. Questa distinzione è legata al luogo in cui l’osservatore decide di posizionarsi. Nel primo caso l’osservatore è distante, guarda da lontano e non agisce sul suo osservatorio: documenta, guarda, non giudica e non è toccato. Lo fa per riportare il più fedelmente possibile gli usi e i costumi di una data realtà, senza modificarli. Nel secondo caso l’osservatore è immerso nella sua stessa materia di osservazione, tende a mischiarsi con l’oggetto che studia. Lo sguardo “antropologico” è, quindi, uno sguardo sacro, ovvero è uno sguardo di chi è separato dall’oggetto del suo studio; decide di tracciare un recinto e di mettersi al di qua di esso. Lo sguardo “etnografico” invece supera questa distinzione, scavalca il recinto e vive la medesima esperienza (è quindi una sorta di esperienza “misterica”).
Dadati nel suo romanzo sceglie la seconda opzione come luogo d’osservazione, sceglie di mischiarsi a ciò che studia, e in questo senso le diverse scene di sesso tra il protagonista e Tabita non sono scene d’amore, ma come tentativi di conoscenza, di rottura del recinto. Lo scrittore piacentino, però, non si accontenta di questo suo sprofondare, vuole che anche il lettore discenda insieme a lui. L’elezione del “tu”, che con tutta la sua ambiguità può essere riferito di volta in volta al protagonista ma anche al lettore, si rivela, per tali motivi, una scelta interessante e nuova per una catabasi dentro quel paese che è chiamato Italia.
11 giugno 2014 alle 14:40
“ Venerdì 21 marzo 2014 – Ieri sera ho capito che se, tanti anni fa, scrissi « Non sono io che devo scrivere », era per la semplice ragione che io non sono uno scrittore. Io, tutt’al più, sono sempre stato un lettore, cioè ho letto qualcosa, ho amato leggere quello che veniva scritto, che era stato scritto dagli altri. Cioè mi piaceva ascoltare, sentire dire, sentirmi dire. Le storie degli altri. Non senza una certa paura, perché le storie degli altri sono sempre anche un po’ paurose. Perché gli altri hanno sempre qualcosa da dire, da raccontare, da raccontarmi. Anche troppo. Perché, alla fine, non è per niente bello sentirsi raccontato, come se fossi solo una creatura immaginaria, un personaggio di una storia che è sempre una storia scritta dagli altri, è sempre la storia degli altri, e mai la mia. Ieri sera avrei voluto dire qualcosa, a quei bravi ragazzi, anzi bravissimi, persino troppo. Avrei voluto dire qualcosa di Torino, per quello che ne so io. Per esempio, che la storia del ragazzo indiano che quando guarda la basilica di Superga gli sembra di vedere il Taj Mahal somiglia alla mia che, a Torino, a un certo punto, capii che quello che vedevo dalla finestra somigliava a quello che avevo sempre veduto dalla mia casa di Siena – « 26 febbraio 1985 – Quale straordinario senso (dell’orientamento?) mi aveva condotto ormai più di dieci anni fa a trovare una casa a Torino, in alto, davanti a una collina, anzi a un monte che (dalla guida del Touring ne ho avuto conferma) si chiamava “ dei Cappuccini “ (con ovvio convento dei)? In mezzo scorreva il Po. Lo scenario era la riproduzione esatta di quello che ora ho di fronte. Dunque dieci anni fa, quando avevo trent’anni, attraverso innumerevoli peripezie, ero tornato a casa. “. Perché, quando si è perso qualcosa, si cerca di ritrovarlo. E se, cercandolo, si trova qualcosa che gli somiglia, si cerca di accontentarsi, almeno un po’, anche se si sa benissimo che non è quello che si è perduto. Così si va, di somiglianza in somiglianza, di abbaglio in abbaglio, di delusione in delusione, finché non si capisce che è tutto inutile, che non riavremo più mai più quello che abbiamo smarrito etc. Avevo anche pensato di dirgli, a proposito di India, che a me, a ripensarci, la Gran Madre è sempre sembrata una specie di dea orientale, tipo dea Kalì etc. Avevo persino pensato di ricordargli il Gozzano de La cuna del mondo, quando Ceylon gli sembra il Canavese. A pensarci ora, potevo anche buttare sul piatto Sonia Maino in arte Gandhi. Oppure invitarli a pensare all’Esposizione Universale, al Valentino, nel ’911, se non mi sbaglio. Potevo, ma non l’ho fatto, e forse è stato meglio così. (Il buon Demetrio ci ha anche parlato di quella che io chiamerei la « perdita della distanza », ma lui non ha detto così, a proposito di Primo Levi e dell’esperienza del lager. Ha anche raccontato che, al museo dell’Olocausto di Berlino, ci sono per terra tante targhette con le faccine degli scomparsi, e che lui aveva paura di metterci i piedi sopra, invece la gente ci camminava tranquillamente. Ha anche detto che le faccine sono di forma ovale, cioè ognuna sembra il disegno di un uovo. Ha fatto anche una specie di gioco di parole, dicendo: « Se questo è un uovo »… ) “.