Nascita di uno scrittore (a partire dal naso)
[Questo è il terzo articolo della serie La formazione dello scrittore (parallela a quella La formazione della scrittrice), che appare in vibrisse il giovedì. Ringrazio Tullio per la disponibilità. gm]
Penso di essere diventato scrittore a causa del mio naso.
Credo sia cominciato tutto con l’enciclopedia Conoscere.
Era un’enciclopedia per ragazzi degli anni ’60. La compravi a fascicoli, in edicola, e quando avevi completato la raccolta dei fascicoli di un volume li facevi rilegare. L’odore di colla del volume appena rilegato (da un cugino di mio padre che lo faceva di mestiere) era semplicemente fantastico.
A casa mia arrivarono solo tre volumi, di quell’enciclopedia: l’XI, il XII e il XIII. Non so perché. Forse la cosa fu dovuta al fatto che nel 1966 uscì la terza edizione del Grande dizionario enciclopedico UTET, che rese immediatamente obsoleta Conoscere.
Ma la mia prima formazione alla lettura avvenne sui tre volumi di quell’enciclopedia, che aveva un odore buonissimo e la caratteristica di non essere organizzata per argomenti, o secondo criteri logici: due pagine sui Sumeri potevano seguirne due sul sistema solare, e precederne altre due su Leone Tolstoj.
Il Dizionario enciclopedico UTET piombò su quel mondo caotico e colorato con l’impatto devastante di un meteorite. Sulle rovine fumanti di una giungla d’informazioni e illustrazioni si levò un monolito che aveva sul dorso la scritta A-APO.
Ricordo ancora, a distanza di quasi cinquant’anni, la sequenza degli indici di quei volumi: A-APO, APP-BEQ, BER-CAQ, CAR-CLE, CLI-DAN… Nomi simili a quelli di divinità oscure, a un cupo rituale di evocazione lovecraftiano.
La UTET stava a Conoscere come i tripodi marziani di George H. Wells stavano alle brigate di cavalleria dei Terrestri. Era l’iPod contro il mangianastri, l’iPhone contro un telefono a disco combinatore.
Eppure…
Eppure nel mio cuore, e nel mio animo di scrittore, sono rimasto un devoto di Conoscere. Era un approccio piratesco allo scibile, un arrembaggio insensato ai galeoni del sapere, una scorribanda tra tempi e fatti e mondi, un addestramento al caos che regna ad Est dell’Eden. Quei tre volumi mi allenarono alla curiosità e all’eclettismo, ma anche alla consapevolezza che nessuna esperienza cognitiva potrà mai essere completa. Dei volumi di Conoscere che non avevo in casa ricordo quel poco che riuscii a trattenere sfogliandoli a casa di amici che avevano la collezione completa. Ma a quel tempo passavamo poco tempo in casa, e la televisione in bianco e nero, con la Gallina Tric Trac e i Ragazzi di Padre Tobia non la spuntava mai sui divertimenti all’aria aperta: le corse in bicicletta fino al Tagliamento, i bagni, le arrampicate sugli alberi e i giochi di guerra che mi hanno lasciato nella memoria ricordi forti come quello dell’emozione di un agguato, l’odore di un bastone scortecciato, il sapore e la consistenza di una crosta di sangue, il gusto acidulo del pane cotto per esperimento su un fuoco di legna verde…
Odori, umori. Sentirsi parte di qualcosa più grande.
Il Dizionario enciclopedico UTET non mi sembra avesse un odore. O almeno non lo ricordo. Arrivava già rilegato. Ricordo che era protetto da una sovracoperta di plastica rigida e trasparente, come quella che adesso si usa per tenere rigidi i colletti delle camicie nella scatola. Mio padre brontolava ogni volta che il signor Rinaldo Gri arrivava con un volume nuovo. Non so quanto costasse, quel volume, ma non doveva essere poco. A casa mia, va detto senza inutili timidezze, entravano pochi libri. Tutte le mie letture fino a tredici anni furono fatte su libri della biblioteca scolastica prima, e poi di quella comunale. Valvasone, in Friuli, era un paese senza librerie. O meglio, c’era un posto dove vendevano anche libri, ed era il negozio, o per meglio dire lo spaccio, del signor Paziente Sasso, il primo sindaco del paese dopo la Liberazione. Era un negozio che vendeva un po’ di tutto. Lo ricordo come un antro piuttosto cupo, in piazza, e a volte lo visito ancora nei sogni. Sul bancone dove stavano i giornali (con L’Unità in prima fila) c’era anche un’enorme scatola di latta che conteneva sardine sotto sale. Fu lì che comprai il mio primo libro, Addio alle armi di Hemingway, un Oscar Mondadori. Dentro di me quella prima lettura è associata all’odore delle sardine, che mi sembra permei ancora le pagine di quel libro ingiallito. I libri stagionavano nella penombra di quel negozio, gonfiandosi di umidità e di aromi. Mauro Corona una volta mi ha raccontato che entrando in una libreria di Cortina e trovando i suoi libri avvolti nel cellophane li aveva “liberati”, nonostante le proteste dei commessi. Lo capisco. Amo quel gesto e lo faccio mio. I libri del negozio del signor Paziente Sasso (che bel nome per il personaggio di un romanzo), un comunista che aveva fatto anni di confino e bevuto, come mio nonno, l’olio di ricino dei fascisti, odoravano di cibo e di libertà.
Da allora, ogni volta che compro un libro, lo annuso. Soprattutto se è un libro vecchio, un libro che ha vissuto. Nella casa in cui sono cresciuto non c’erano libri vecchi. Ci sono ora, ma sono libri invecchiati con me. Un pomeriggio, a un festival letterario in Sardegna, Dacia Maraini disse una cosa che mi ferì. Disse “a casa dei miei c’erano tanti libri, solo libri belli, libri importanti. E’ per questo che sono diventata scrittrice”. A casa mia, invece, non c’erano libri, né belli né brutti. Ho dovuto andarmeli a cercare da solo. Eppure sono diventato uno scrittore, e soprattutto un lettore. Ho trovato e portato a casa come tanti nuovi amici I fiumi scendevano a oriente, I sette pilastri della saggezza, Moby Dick, L’isola del tesoro, Fahrenheit 451…
Per protesta, quel pomeriggio in Sardegna, feci un aeroplanino di carta con il programma del festival e lo lanciai. Stavo dietro il palco, invisibile. Ma un soffio di vento malandrino fece volare l’aereo attraverso il palco, sopra la testa dell’autrice, proprio mentre stava parlando dell’attentato alle Twin Towers. Sentii la risata del pubblico.
Se avessi il potere, se fossi il Ministro della Cultura, o il Ministro della Lettura, un incarico che mi piacerebbe ancora di più, costruirei grandi biblioteche sugli alberi, posti in cui arrivare arrampicandosi su una scaletta di corda che poi arrotoli. Anche un adulto tornerebbe bambino, leggerebbe con più gioia, lassù. Il piacere della lettura lo associo a un pergolato erboso, allo stormire delle fronde. I libri sono parenti stretti delle foglie, sono fatti della stessa materia. E le nostre parole, quelle parole che ci ingegniamo a scrivere, non sono diverse dal rumore che fa il vento tra i rami di un albero. Sussurriamo storie nel vento che ci muove qui e là e prima o poi ci staccherà dall’albero del mondo. Ringrazio la scrittura per il dono di poter sentire accanto a me la voce di maestri e amici che non ci sono più. Ne ricorderò solo uno, quello che se n’è andato per ultimo, quello che chiamavo “il mio gemello”, e non solo per età anagrafica: Valter Binaghi. La sua voce, durante la nostra ultima telefonata, sembrava quella di una cicala, di un insetto. Ma se apro un suo libro la sento ancora forte, sento la sua risata, la sua ironia, l’energia che non se ne è andata. Direte che tutto questo non ha molto a vedere con la scrittura. Ma dentro di me sono convinto che non sia così. Che la scrittura nasca dalla lettura. E che esorcizzi il timore della morte, una cosa che provavo e ora non provo più.
Diciamo che scrivere mi rende una foglia diversa da quelle foglie, e sono le più numerose, che si limitano a frusciare attaccate al ramo, udibili solo alle foglie che stanno loro vicino. I libri che scrivo fanno di me una foglia che viaggia lungo i rami, e sfiora il viaggio di altre foglie, lasciando loro qualcosa di me. I libri che scrivo sono il modo di raggiungere altre vite. Prima o poi anche le mie parole diventeranno limo, sedimento immobile, su cui forse cresceranno altri alberi e altre foglie. Ma per la gratitudine che porto ad altre foglie che hanno attraversato la mia vita, da Tucidide a Cervantes a Vonnegut a Milarepa, anche quel volo effimero mi sembra un dono divino.
Guidato dal mio naso, ignorando guide e atlanti ufficiali, ho attraversato boschi che molti mi consigliavano di evitare, come il bosco della fantascienza. Ma attraverso quel bosco sono arrivato a luoghi meravigliosi, dove pochi mettono piede, e ho scoperto che spesso i segnali mentono, e che certi luoghi che sembrano lontanissimi tra loro sono in realtà vicini, e ci sono passaggi nascosti che portano dall’uno all’altro, consentendoti di viaggiare leggero e in libertà.
La mia scrittura assomiglia alle mie letture, assomiglia a un volume di Conoscere: mi piace accostare tematiche e storie apparentemente incompatibili, frammenti di realtà gomito a gomito con le fantasie più assurde. Amo la gioia che dà costruire una trama, inseguire i personaggi che spesso mi portano dove vogliono loro…
Immagino sia per questo che ho cominciato a scrivere: per raccontare a me stesso il mondo, gli amici, l’amore, la lontananza. I libri che leggono mi davano i materiali per ricostruire il mondo nelle giuste dimensioni. E per ricordare. Una volta pensai, e me lo ripetei a voce alta: io sono quello che ricorda. Sono quello che resta affascinato da un gesto, come quando vidi il poeta Nico Naldini bere un bicchier d’acqua. Lui, che vive in Nordafrica, fece quel gesto con una lentezza e un’intensità quasi sacrale. Qualcosa di così diverso dal modo sbrigativo in cui beviamo, normalmente. Quel gesto mi è rimasto dentro, l’ho regalato a un mio personaggio di Metro 2033. E’ così che viviamo nel tempo, e passiamo di storia in storia, e almeno qualcosa di noi – un gesto, anche una sola frase – non va perduto.
Sono diventato scrittore perché ogni volta che vedo una vecchia foto – un gruppo di soldati della Prima Guerra Mondiale, o gli avventori di un bistrot parigino di fine ‘800 – mi intristisce non sapere nulla di quelle persone, così come non saprò mai nulla dei miei antenati.
Per questo leggo un sacco di saggi storici. E divoro nozioni. Jules Verne disse che il regalo più bello che avesse mai ricevuto per un compleanno era l’orario completo delle ferrovie americane. Lo capisco. Wikipedia e in genere internet sono stati il più bel regalo che uno scrittore potesse ricevere dalla tecnologia. Basta non farne un uso alla Dan Brown…
Per me la scrittura è anche il regno della libertà e della fantasia. L’equivalente della tecnologia che in Avatar consente a un paralitico di correre, di volare. Se avete in mente questo capirete certe mie scelte, certi libri che amici ed editori mi hanno sconsigliato di scrivere. Come diceva in una poesia anche troppo citata, The Road Not Taken, il poeta americano Robert Frost:
Due strade divergevano in un bosco d’autunno
e dispiaciuto di non poterle percorrere entrambe,
essendo un sol viaggiatore, a lungo indugiai
e ne fissai a lungo una, più lontano che potevo
fino a dove si perdeva nel sottobosco.
Poi presi l’altra, che era buona ugualmente
forse con pretese migliori,
e forse sembrava messa meglio,
perché era erbosa e meno calpestata;
sebbene in realtà le tracce fossero uguali in entrambe le strade.
Ed entrambe quella mattina erano ricoperte di foglie
che nessun passo aveva annerito.
Oh, mi riservai la prima per un altro giorno,
anche se, sapendo che una strada porta verso un’altra strada,
dubitavo sarei mai tornato indietro.
Questa storia racconterò con un sospiro
da qualche parte, tra molti anni:
due strade divergevano in un bosco ed io…
io presi la meno battuta,
e di qui ogni differenza è venuta.
Non ho mai smesso di frequentare i boschi, con la lettura e con la scrittura. Un tempo scrivevo poesie, soprattutto poesie d’amore, ma nel 1975 un poeta vero, Leonardo Sinisgalli, mi tolse ogni illusione di talento, consigliandomi di essere un lettore, e non autore, di poesia.
Ecco un altro momento da cui ogni differenza è venuta.
Infatti scrivo romanzi e non versi.
Potrei smettere di scrivere anche oggi, se volessi.
Come dicono i forti bevitori.
Di recente ho passato quasi un anno senza scrivere nulla a parte qualche haiku in inglese, e più raramente in italiano, che affidavo al vento leggero di Twitter, senza curarmi di conservarli. Ma non avrei potuto passare un anno senza leggere poesia. La poesia è il concime che rende verdi e brillanti le mie foglie (anche se qualcuno può pensare che siano di plastica). Parole povere di Pierluigi Cappello e due lied di Valther von der Vogelweide rappresentano, ad esempio, l’ossatura segreta del mio romanzo La ragazza di Vajont. L’anno dei dodici inverni è invece ispirato a due poesie di Kavafis. La prima s’intitola Una notte, ed è questa, nella classica traduzione di Filippo Maria Pontani:
Era volgare e squallida la stanza,
nascosta sull’equivoca taverna.
Dalla finestra si scorgeva il vicolo,
angusto e lercio. Di là sotto voci
salivano, frastuono d’operai
che giocavano a carte: erano allegri.
E là, sul vile, miserabile giaciglio,
ebbi il corpo d’amore, ebbi la bocca
voluttuosa, la rosata bocca
di tale ebbrezza, ch’io mi sento ancora,
mentre che scrivo (dopo sì gran tempo!),
nella casa solinga inebriare.
La seconda è, naturalmente, Itaca. Le amo moltissimo, tutte e due.
Naturalmente nell’Anno dei dodici inverni queste suggestioni poetiche hanno dovuto ibridarsi con la fantascienza di Wilson Tucker (L’anno del sole quieto) e con il videogioco della Bethesda Fallout 3. Ma anche in un romanzo di FS post-apocalittica come La crociata dei bambini sono riuscito a infilare una poesia di Pasolini e un verso di Brecht. Evidentemente non posso farne a meno.
Sulla scrittura ho poche convinzioni: la principale è che il regno delle parole è la poesia, mentre il romanzo è il regno della trama. Non tutti la pensano così: alcuni ritengono che l’uso di termini aulici o ricercati aggiunga spezie alla scrittura. Secondo me, invece, quei termini sono saporiti come i sassolini nel pane. Ne avete mai masticato uno? Io sì. Dicono che le dentature degli scheletri antichi siano invariabilmente rovinate a causa dei frammenti che le macine di pietra lasciavano nella farina. Un buon punto a favore del progresso, come gli occhiali da vista e gli antibiotici.
Credo anche che la frase debba rispettare parametri di credibilità (ricordo una frase pronunciata da un personaggio di Chandler che avrebbe stroncato Maiorca) e che la prosa debba avere una certa eleganza metrica e venire letta
1) da chiunque (il mio primo lettore è un commesso della Coop;
2) senza inciampi.
Hemingway ha detto (e se non l’ha detto, o non l’ha detto proprio così, poco importa, lo dico io) che la scrittura dev’essere trasparente come l’acqua, sotto la quale si possano vedere tutti i sassi del fondo. Da piccolo spaventavo (in realtà facevo ridere) mio figlio recitandogli con toni alla Vincent Price questo minimo brano di una blasonata scrittrice italiana: “Guano oleoso di storni in raduno”.
Che è un esempio perfetto di ciò che non mi piace leggere.
Un’altra cosa che mi piace dello scrivere è che ti permette di regolare i conti.
Ho adorato l’Inferno di Dante, e il modo catartico in cui l’autore (o l’Autore: a volte nelle motivazioni dei premi ci chiamano ancora così, ma è raro) lo usava come sfogo ai suoi odi e alle sue frustrazioni. Il mio primo libro, L’elenco telefonico di Atlantide, è nato come uno sfogo e un j’accuse nei confronti di una grande banca italiana. Scriverlo è stato un atto sconsiderato, ma anche una grande liberazione. Scrivere è il modo in cui i miei geni unni o mongoli (evidenti nella plica epicantica dei miei occhi, e che immagino vengano dal ramo tedesco della mia famiglia) sopperiscono all’impossibilità di fare giustizia sommaria di chi mi rompe i coglioni.
Scrivere, infine, è per me un divertimento. Una volta l’ho definito “la cosa più divertente che si può fare con i vestiti addosso”. Riletta adesso mi sembra una frase un po’ ingenua. Diciamo che è una delle cose più divertenti. Il giorno in cui non mi divertirò più, smetterò di scrivere e farò qualcosa d’altro.
Ho cominciato parlando di naso, e col naso vorrei finire.
Il naso è importante, per la scrittura. Potete anche descrivere una via di Budapest, o di Istanbul, usando solo altri libri o internet (per Istanbul dovete usare Yandex.Ru e non Google Street View). Ma solo il vostro naso potrà rendere gli odori di un negozio di spezie, o delle cicche di tabacco lasciate in un portacenere che si bagna di pioggia sul tavolino di un bar lungo il Danubio (frase troppo lunga, andrebbe editata, Giulio…) [Ma no, ma no: facciamola più lunga, più lunga ancora, che prosegua fino a disasrticolarsi sparendo nelle nebbie della memoria e della malinconia… n.d.G.]. L’odore della sera, l’odore del cibo, l’odore d’erba appena tagliata su un prato di Cambridge. L’odore di un animale, l’odore delle lenzuola dopo il sesso, l’odore della polvere attraversata da un raggio di sole.
L’odore rende vere le parole stampate, che se le osservate con attenzione sembrano vermetti disposti in fila sulla neve, e cacca di vermetti.
Credo che il mio ultimo respiro sarà in realtà una grande annusata. Annuserò il mondo per portarmene il ricordo oltre la soglia.
So che forse ho parlato troppo di morte. E’ che non mi sono mai fatto facilmente degli amici, e ormai cominciano ad essercene più dall’altra che da questa parte del fiume. Per questo ho scelto la foto che vedete [qui sotto, n.d.G.]: è il cimitero della Mevlevi dei dervisci nel quartiere di Beyoglu, a Istanbul. Ho passato momenti di grande pace in questo luogo, un’oasi di silenzio e serenità incastonata nel caos della metropoli più grande d’Europa. Sento sempre più spesso il bisogno di posti così. Viene il momento in cui, come scrisse Shakespeare (l’Autore di cui mi porterei l’opera omnia sulla proverbiale isola deserta), la vita si rivela per quello che è:
Tomorrow, and tomorrow, and tomorrow,
Creeps in this petty pace from day to day,
To the last syllable of recorded time;
And all our yesterdays have lighted fools
The way to dusty death. Out, out, brief candle!
Life’s but a walking shadow, a poor player
That struts and frets his hour upon the stage
And then is heard no more. It is a tale
Told by an idiot, full of sound and fury
Signifying nothing
Ho raccontato storie, ma anch’io sono una storia che viene raccontata, una pagina sfogliata di un libro infinito, una foglia insignificante ed unica dell’albero della Vita. Saperlo mi scalda il cuore.
Se non avessi già disposto diversamente (solo il nome e il cognome e il simbolo paleocristiano del pesce; e niente date, per favore: non sono un edificio, o uno yogurt) mi piacerebbe che sulla mia tomba ci fosse l’epitaffio che Benjamin Franklin scrisse per se stesso:
Il Corpo di
B. Franklin,
Stampatore;
Come la Copertina di un vecchio libro,
Le pagine sparse,
E spogliato di Scritte e Dorature,
Qui giace, Cibo per i Vermi.
Ma l’Opera non sarà interamente perduta.
Poiché, così egli credeva, apparirà ancora una volta,
In una nuova e migliore Edizione,
Corretta ed emendata dall’Autore.
Quale epitaffio migliore si può immaginare, per uno scrittore?
Aloha!
Tag: Bertolt Brecht, Dan Brown, Dante Alighieri, Filippo Maria Pontani, George H. Wells, Jules Verne, Konstantinos Kavafis, Kurt Vonnegut, Leonardo Sinisgalli, Lev Tolstoj, Mauro Corona, Nico Naldini, Pier Paolo Pasolini, Pierluigi Cappello, Robert Frost, Tullio Avoledo, Valter Binaghi, Vincent Price, Walther von derl Vogelweide, William Shakespeare, Wilson Tucker
5 giugno 2014 alle 05:39
Mi piace l’idea delle biblioteche sugli alberi. Per il barone rampante che c’è in noi.
5 giugno 2014 alle 09:02
Ha scritto cose bellissime e molto vere. Purtroppo non ho ancora letto niente di Tullio Avoledo, provvederò presto.
L’enciclopedia Conoscere è rimasta nei cuori dei ragazzi degli anni 60, e quindi anche nel mio. Ho sempre in mente la copertina con la figura di un astronauta vecchio stile, il globo terrestre e tanti colori. Ho chiesto a mia madre se potevo portarmi via i volumi di Conoscere da casa sua, mi ha risposto male: “E secondo te io dove vado a cercare se non so qualcosa? Io non ho il computer…”
L’ho invidiata!
5 giugno 2014 alle 09:53
” 21 giugno 1995 – Stamani volevo scrivere qualcosa su che cosa significa fare il professore o almeno che cosa significava per me, avrei preso spunto da quel preside che dice che i ragazzi scrivono male perché la televisione li ha rovinati ma poi sembra anche che scrivano tronfio in ogni caso lui ha avuto un professore di antiretorica che faceva leggere maestri di antiretorica come Pavese e Calvino etc, ma poi avrei finito per parlare dell’odore dei ragazzi della mia classe, forte odore di infanzia, di campagna, io più che insegnare annusavo, e sudavo, e toccavo, era un happening, altro che scuola, una jam session, un sabba etc., ma siccome stamani mi sento serafico, e anche il benzinaio a cui ho sorriso un po’ troppo per un solo pieno di super lo può dire, decido di no e così non lo scrivo.
5 giugno 2014 alle 10:13
L’enciclopedia Conoscere e’ un culto per noi ragazzi degli anni ’60, ma anche per quelli del nuovo secolo. Ho ancora tutti i volumi. Emma, che ha 7 anni, preferisce sfogliare quelli che lei chiama “i libri del sapere” piuttosto che fare le sue ricerche su internet. E anche i suoi amici, quando vengono a casa, sono molto affascinati da quelle pagine.
5 giugno 2014 alle 10:16
Una parabola divertente e commovente. Un narrare pieno di grazia. Da incantamento…
5 giugno 2014 alle 10:38
“ Domenica 5 gennaio 2003 – Il fatto è che io non sono mai stato un vero scrittore. Un vero scrittore è uno che crede nelle parole, oppure ci crede almeno quel tanto che basta per convincere gli altri a crederci anche loro. Io ho sempre creduto di più in altre cose, per esempio i suoni. Oppure i colori. Avevo appena cominciato a credere intensamente negli odori che gli odori sono scomparsi. Già, gli odori. Mi viene in mente adesso che l’olfatto è forse il più radicale opposto della vista, più ancora dell’udito, come comunemente si crede. È proprio questo, credo, quello che vuole dire Tomasi di Lampedusa quando, nel Gattopardo, scrive: « Era un giardino per ciechi », anche se poi il suo giardino, naturalmente, è un baudelairiano giardino di parole, un « intrico » di letterari aromi etc. « Era un giardino per ciechi ». Potrebbe essere una splendida definizione della letteratura, di ciò che la letteratura « era ». “.
5 giugno 2014 alle 12:06
ben detto su (contro) quel che diceva Dacia Maraini: concordo infatti con Avoledo,
“” Un pomeriggio, a un festival letterario in Sardegna, Dacia Maraini disse una cosa che mi ferì. Disse “a casa dei miei c’erano tanti libri, solo libri belli, libri importanti. E’ per questo che sono diventata scrittrice”. A casa mia, invece, non c’erano libri, né belli né brutti. “”
si ha propri ragione Avoledo: la letteratura si nutre di tante cose ,su carta,anche di libri non eleganti o che sembrano “secondari “(philip k. dick dall alto ci guarda,e sorride benevolo)
5 giugno 2014 alle 15:12
Grazie per il fugace ricordo di Valterone. Chi l’ha conosciuto non poteva che volergli bene.
5 giugno 2014 alle 17:33
forte. mi piace tutto e ne avrei letto ancora. interessante l’uso intimidatorio di ‘guano oleoso di storni in raduno’ … così anche avoledo entra in lista (cose da fare, libri da leggere).
‘parole povere’ è uno dei miei pezzi da proselitismo (pratica che mi guardo bene dall’esercitare in altri ambiti). mi piacerebbe se uno dei prossimi giovedì venisse ospitato cappello.
5 giugno 2014 alle 22:26
“ Giovedì 5 giugno 2014 – Ho letto con grande piacere la « narrazione » di Tullio Avoledo. Avrei molte cose da dire, ma voglio limitarmi al clamoroso caso del sindaco Paziente Sasso. Un nome troppo bello per essere vero, anche per uno come me che da anni ha il progetto di scrivere un saggio sui « nomi d’arte ». Cfr. il diario che dice: « 2 gennaio 1987 – Uno studio sui nomi d’arte. P. e.: Ornella Muti (ammesso che lo sia). Mi fa pensare 1 al fascismo (la “ Muti “ brigata repubblicchina) 2 al mutismo, l’assenza di parola, il silenzio, la bellezza sans phrase: Ornella-per-i-muti 3 all’ammutolire, far tacere: “ ch’ogne lingua devien tremando muta “ (Dante, Vita nuova) (Credo anche che a Siena il primo cinema – muto – fosse nei locali dell’istituto per sordomuti “ Tommaso Pendola “). ». Che poi ci sia qualche rapporto fra un « Paziente Sasso » e una « Ornella Muti », proprio non saprei dire, ma, a occhio e croce, non mi sento di escluderlo. Ci sono più cose fra la terra e il cielo… “.
6 giugno 2014 alle 02:33
bellissimo pezzo, un piacere leggerlo.
6 giugno 2014 alle 03:20
P.s. Mi accorgo di avere scritto “ repubblicchina “. Buffo. Mi fa pensare a “ biricchina “. Come dire in vena di scherzi, di marachelle. D’altronde si tratta effettivamente di uno scherzo, di una burla. “ Repubblicchina “ è forse Repubblica, il giornale che sembra un giornale, ma è un film.
6 giugno 2014 alle 11:39
Grazie.
7 giugno 2014 alle 00:20
Ritrovo qui il Tullio Avoledo che mi sembra di conoscere : lo sguardo prensile come alle origini lo fu il suo naso, il fastidio per la retorica e per la supponenza culturale, il ritmo profondità/leggerezza, l’evocazione di luoghi e di tempi che sono anche i miei. E poi, ancora: la naturalezza di certe riflessioni (“Immagino sia per questo che ho cominciato a scrivere: per raccontare a me stesso il mondo, gli amici, l’amore, la lontananza” ) e la naturalezza di persone ricordate o gesti rivissuti ( il bicchiere d’acqua di Nico Naldini., ad esempio. Un gesto che, quando lo rievoca, fa sollevare a Tullio la mano, spingendolo a mimare con lentezza il breve volo di un bicchiere d’acqua che diventa a poco a poco la quintessenza stessa dell’acqua – l’idea stessa di “acquitudine”– in una terra assetata).
I “Conoscere” sono sopravvissuti, impavidi, a tutti miei traslochi. Spalleggiati dai fidi “Quindici”, naturalmente. ( Stanno ancora di là, nella camera di mia figlia, fra libri di Fantasy e testi di greco). La forza di questo brano me li ha resi ancora più preziosi. Vale lo stesso per un mucchio di altre cose, dentro il pezzo di Avoledo: ricordi, primizie, divagazioni. Ho sempre pensato che non esista scrittura che non immagini occhi che la leggano. Ora ho imparato che forse non esiste scrittura che non immagini anche un naso che la fiuti.
Se tutto è davvero iniziato da lì, grazie al naso di Tullio. E agli odori della sua scrittura. Un che di agrodolce, freschi sentori di menta, tracce di erbe mediterranee, la cannella e l’uvetta sultanina che usava mia nonna per lo strudel. Poche spezie: inutili droghe.
Aloha.
8 giugno 2014 alle 15:06
Dei tre interventi questo è il più bello e, non so come dirlo altrimenti, il più trasparente. Ho qui vicino “La crociata dei bambini”, che era tutto quanto conoscevo di Avoledo. Confesso che adesso aprirò questo libro con curiosità moltiplicata. Dunque grazie. Antonello
9 giugno 2014 alle 11:22
Sì i libri sono parenti stretti delle foglie…da ‘L’elenco telefonico di Atlantide’ mancano le prime tredici pagine, strappate una alla volta da Pico, con perizia canina, prima di raggiungerlo e, riprendere il mio libro colpito dalla sua gelosia, per l’attenzione spostata da lui alla lettura. L’aereo di carta vola nelle stanze vuote di libri ‘importanti’, ma colme di inesauribile curiosità. an ma
9 giugno 2014 alle 11:38
L’ha ribloggato su cose da librie ha commentato:
leggete tutto il brano di avoledo su “vibrisse”. evitate pure i commenti: la gente adora fare della poesia sulla prosa altrui.
17 giugno 2014 alle 11:23
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