Ritorno e ricordo: al mio liceo
[Questo è il primo articolo della serie La formazione dello scrittore (parallela a quella La formazione della scrittrice), che apparirà in vibrisse il giovedì. Ringrazio Valerio per la disponibilità. Il prossimo ospite sarà Mario Benedetti. gm]
Per anni ho frequentato il “Liceo Statale Sperimentale”. La mia formazione e quella dei miei compagni si svolse tutta nel segno di un ossimoro simile a quello che in Messico è affidato al “Partito Rivoluzionario Istituzionale”. Studiavamo la devastazione. I nostri compiti a casa riguardavano Pollock e Beckett, Cage e Joyce. Afasia, dislessia, sabotaggio, erano già materie d’esame. Insomma, l’avanguardia era la tradizione. In breve ci trovammo a rovesciare, nostro malgrado, il motto di Mallarmé. Se il poeta francese esclamava: “La distruzione fu la mia Beatrice”, noi, miti cavie del laboratorio post-moderno, mormoravamo: “La distruzione è la nostra Perpetua”. Più che una musa, infatti, la distruzione ci appariva come una vecchia Tata, rassicurante e burbera. Naturalmente, il primo mio saggio fu una monografia sul Dada.
Il rischio, però, è di finire dal Cabaret Voltaire di Tzara, al Bagaglino di Pippo Franco (riferimento a uno sciagurato spettacolo dell’epoca, poi trasformato in programma televisivo): un luogo dove applaudono solo gli sprovveduti. Per spiegarmi, vorrei accennare a una mia particolare idiosincrasia, vale a dire il fastidio, si badi bane, non contro la Merda d’artista di Piero Manzoni, bensì contro il tipo di ricezione dimostrato nei suoi riguardi. Un lavoro del genere, al pari della pisciata di Carmelo Bene contro il pubblico in sala, poteva fare un effetto scandaloso su chi ignorava l’Orinatoio, ideato da Duchamp nel 1916 e con ben altre implicazioni teoriche. Questa provocazione in differita di mezzo secolo, poteva scandalizzare l’italietta del neorealismo o di qualche cittadina pugliese, ma per il resto andava e va considerata nient’altro che un’elegante chiosa, un omaggio, un d’après, se proprio non vogliamo parlare di plagio.
La forza di certi gesti sta nella loro esemplarità. Replicarli può giusto servire a divulgarli in società arretrate. In questo senso, il Gruppo ’63 ebbe l’indubbio merito di introdurre nuovi linguaggi in una letteratura rimasta ancorata a dibattiti ridicoli (tranne i pochi vertici dei grandi solitari, quali Morandi o Burri, Gadda o la Ortese, Penna o Caproni). Qui non si tratta di rinnegare l’avanguardia, quanto piuttosto di riconoscere che la sua azione fu inestimabile, definitiva, fondante, però appunto per questo, irripetibile in quanto tale.
Citando un saggio di Octavio Paz sul concetto di negazione nel pensiero di Duchamp, vorrei ricordare come quest’ultimo, all’età di soli venticinque anni, abbandonò la pittura, almeno nell’accezione tradizionale del termine. Proprio in un simile rifiuto, ritiene lo scrittore messicano, sta l’inizio della sua vera opera, “un’opera senza opere”: nessun quadro (tranne il Grande Vetro), qualche ready-made, pochi gesti e un vasto silenzio. Tutto ciò perché, secondo Duchamp, la ripetizione dell’atto produce una degradazione immediata, ossia una ricaduta in quello stesso “gusto” da lui messo al bando. Pertanto, limitando il numero dei propri interventi, egli intese esaltare il gesto contro la gesticolazione, l’unicità del segno contro la sua mercificazione, ossia, nota Paz ricorrendo a una splendida immagine, l’oggetto-dardo contro l’artefatto inoffensivo (una volta scagliata, la freccia non deve essere ripresa…).
Ecco il motivo per cui ritengo letale l’idea di una “Arcadia della sovversione”, una scuola attrezzata per ripetere all’infinito la stessa performance, variandone magari i materiali: sangue d’artista, sperma d’artista, soffio d’artista? Tutto fatto e rifatto. Abbiamo già dato. Dunque, a suo tempo, la riproposta “ingenua” della neo-avanguardia mi mise i brividi, sì, ma di nostalgia, gli stessi che mi afferrano ancora oggi quando rivedo antichi caroselli o sceneggiati di Anton Giulio Majano, o quando penso a quella remota pubertà pallida, annoiata, didattica.
Lo confesso: forse ho ecceduto nel condannare certi imperiosi, troppo prescrittivi “ritorni al disordine” (qualcuno ricorda ancora la dittatura del significante?) Allora, però, il pericolo veniva da quel preciso genere di censura, e quello bisognava combattere (qui devo un saluto all’intrepido milite Zeichen). Oggi, è tutto il contrario. Oggi, piuttosto, sono richieste confezioni standard, per una merceologizzazione della scrittura fedelmente sostenuta da tanti ex compagni di Lotta Continua (gli stessi cui ho dedicato un dialogo teatrale intitolato appunto Il Sessantotto realizzato da Mediaset). Ma al riguardo mi limito a ricordare i testi di André Schiffrin sull’editoria. Fatto sta che oramai, a dodici anni dalla sua morte, non mi resta che chiedere aiuto a Pagliarani!
L’arte anche a me pare di poco conto
ma è il nostro affare
e il nostro daffare al momento
è saltare è saltare è saltare
se no sulla coda ci mettono il sale.
PS. Il rosso l’ho aggiunto io
Tag: Alberto Burri, André Schiffrin, Anna Maria Ortese, Anton Giulio Majano, Carlo Emilio Gadda, Elio Pagliarani, Giorgio Caproni, Giorgio Morandi, Jackson Pollok, James Joyce, John Cage, Marcel Duchamp, Octavio Paz, Piero Manzoni, Pippo Franco, Samuel Beckett, Sandro Penna, Stéphane Mallarmé, Tristan Tzara
22 Maggio 2014 alle 08:40
” Sabato 23 novembre 1996 – Sono contento di sentire che Valerio Magrelli in un libro su I poeti e il cinema, alla domanda « Qual è il film più erotico che ricordate? » ha risposto: « L’amore è una cosa meravigliosa ». Bisogna avere il coraggio di non capire il cinema, bisogna non temere di essere cretini. O di farci. “.
22 Maggio 2014 alle 10:37
Bene, ma invecchiando si rischia di concentrarsi sulla propria vecchiaia, mentre il mondo rimane giovane. E il poeta ricrea il mondo non sé stesso. Speriamo che Magrelli vada in questa direzione col prossimo libro.
22 Maggio 2014 alle 12:20
Mi colpisce la profonda differenza tra il narrare al femminile della propria arte e il narrare al maschile: le artiste hanno narrato soprattutto di sè, delle proprie radici familiari, del percorso psicologico nel napporto con la scrittura, dei cominciamenti faticosi o gioiosi legati in qualche modo al proprio vissuto familiare. Lo scrittore (l’unico ancora della lista) ha narrato del suo rapporto con la letteratura a partire dalla sua prima educazione letteraria giovanile e scolastica. Ed è curioso che non abbia neppure fatto un cenno al principiare della propria passione per la scrittura, passione che pure dev’essere nata in un momento dato, collocato in un tempo e in un contesto familiare. Sarò ben contenta di leggere ciò che racconteranno gli altri scrittori.
22 Maggio 2014 alle 13:00
“ Domenica 31 ottobre 1999 – « Il faut que la nudité porte son voile toujours avec elle et que le vêtement ne cache pas toute la nudité. » (Joseph Joubert, Qu’est-ce que la pudeur?, 1815, in Valerio Magrelli, La casa del pensiero. Introduzione all’opera di Joseph Joubert, 1995) “.
22 Maggio 2014 alle 13:50
(maria rosa, in altre parole: niente mitizzazione. Vedremo nelle future narrazioni se si tratta – almeno nel nostro campione – di una caratteristica prevalentemente femminile.)
22 Maggio 2014 alle 16:42
L’ha ribloggato su cronacadiunavitaintimae ha commentato:
Valerio Magrelli
22 Maggio 2014 alle 22:32
“ Venerdì 7 settembre 2012 – A Valerio Magrelli gli hanno rimosso la macchina. E lui ci scrive sopra un pezzettino. Per scrivere tutte le scuse sono buone – anche per rimuovere, pensano i viggili… “.
23 Maggio 2014 alle 09:13
Un piccolo appunto, forse fuori tema (è la mia cifra): mi è capitato di assistere a una versione televisiva d’uno spettacolo della cricca del Bagaglino e ho ricavato l’impressione che ad applaudire fosse invece una avveduta – e becera – claque. Il che è ancor peggio. Ma forse Magrelli si riferisce a chi, candidamente, applaude “sul serio”.
26 Maggio 2014 alle 16:45
Scrive Magrelli:
“l’Orinatoio, ideato da Duchamp nel 1916”
Non esiste alcuna opera di Duchamp intitolata “Orinatoio”. Esiste un ready-made del 1917 intitolato “Fontana” (Fontaine). Il problema non è ovviamente nella data, ma nel riconoscere che i ready-made non sono semplicemente oggetti già esistenti nel mondo, ma espressioni che uniscono la scrittura a oggetti tolti dall’abituale contesto e plasticità (cioè hanno una bellezza formale, oltre che, diciamo così, concettuale).
Chiamare Fontaine “l’Orinatoio” significa compiere un atto linguistico di riduzione che è una sciocchezza. Su quella riduzione si
basa il ragionamento di Magrelli.
Aggiungo una perplessità sulla divisione genderista tra scrittrici e scrittori non ritenendo che il contenuto delle mutande sia significativo per fare letteratura. Si tratta di una perplessità, potrebbe anche esserci una buona ragione che ora non vedo.
27 Maggio 2014 alle 07:07
Oh, beh, Andrea: chiamare “contenuto delle mutande” la forma del corpo è – mi pare – un atto linguistico di riduzione che è una sciocchezza. Sostenere che tale contenuto “non… sia significativo per fare letteratura” è esso pure – mi pare – un atto linguistico di riduzione (che però mi pare meno una sciocchezza: è piuttosto un fraintendimento).
Rripeto cose che ho già dette diverse volte (a es., recentemente, qui, più scherzosamente qui – ma seria è stata poi la discussione), quindi vado riassuntivo:
1. esistono dei discorsi, direi parecchi, secondo i quali esisterebbe una “letteratura femminile” o una “letteratura al femminile” o uno “specifico letterario femminile”, eccetera;
2. ovviamente non esistono molti discorsi sulla “letteratura maschile” o sulla “letteratura al maschile” o sullo “specifico letterario maschile”: dico ovviamente perché mi pare ovvio che i discorsi sulla “letteratura femminile” eccetera sono discorsi che servono a chi ha il potere (i maschi etero) a etichettare, separare e in sostanza ghettizzare; e la “letteratura maschile” deve necessariamente essere proposta come la “letteratura senza aggettivi”.
3. esistono in numero sempre crescente discorsi sulla “letteratura omosessuale” o sulla “letteratura queer” eccetera: come spesso è avvenuto, si parte dalla “assunzione dell’etichetta” (“Mi chiami gay per insultarmi? bene: mi proclamerò orgogliosamente gay!”) per (a) costruire un discorso là dove non c’era possibilità di discorso, (b) raccogliere persone attorno al discorso, (c) trasformare l’etichettatura in rivendicazione d’identità e di diritti, (d) eccetera, passando anche attraverso tutti gli aspetti politici, lobbistici e così via.
4. i discorsi sulla “letteratura femminile” hanno avuto questa natura nei decenni passati, quando venivano proposti dalle donne; oggi mi pare che, come dicevo al punto 2, la loro funzione sociale sia cambiata.
5. ciò che con deliberata (e retoricamente inutile) volgarità Andrea Barbieri chiama “contenuto delle mutande”) influenza o addirittura determina, fin da quando è un mero “contenuto del pannolino”, l’educazione delle persone: fin dalla prima ecografia interpretabile si comprano camicine rosa o azzurre. Questo è un dato di fatto: la stragrande maggioranza della popolazione si comporta così. Quindi esiste una differenza culturale tra donne e maschi, e chi sostenesse che questa differenza sia irrilevante in generale, o irrilevante in una formazione artistica o letteraria, sosterebbe – credo – una sciocchezza.
(Qualche giorno fa un datore di lavoro, maschio omosessuale, mi dice: “E così, capisci, questa troia si è fatta assumere che era già incinta”, eccetera).
6. In queste due rubriche sulla formazione delle scrittrici e degli scrittori non si parla in nessun modo la “letteratura”. Si parla di “formazione”: di percorsi familiari, sociali.
27 Maggio 2014 alle 09:31
“ Giovedì 25 aprile 1996 – « “ Je n’ai été ni oriental ni occidental, ni homme ni femme, tout à fait, je suis demeuré amorphe, atone, agame, neutre, tiède et partagé. Pouah! “. Le Journal intime, écrit par un homme qui diffère de vivre, est le procès-verbal de cette neutralité. » (Albert Thibaudet, Amiel, in Interieurs. Baudelaire Fromentin Amiel, 1924) “.
28 Maggio 2014 alle 21:48
Il “contenuto delle mutande” però non è la forma del corpo, è l’idea che ci facciamo della forma del corpo. Prima invisibilizziamo, poi ci congetturiamo sopra e normiamo il contenuto per esempio con una legge anagrafica o con un discorso medico o religioso. Insomma non sono certo io che riduco la creatura umana al suo sesso.
Immaginavo che tu avessi una buona ragione. Ma non è immediato, davanti a quella dicotomia, capire dove la vuoi portare.
Scrivi:
“Quindi esiste una differenza culturale tra donne e maschi, e chi sostenesse che questa differenza sia irrilevante in generale, o irrilevante in una formazione artistica o letteraria, sosterebbe – credo – una sciocchezza.”
Il problema è che il linguaggio è pieno di trappole. E’ “una” differenza o sono “una molteplicità” di differenze? E’ meglio parlare di differenza culturale (intesa come fatto sociale) o di cultura della differenza (intesa come norma che costringe a vedere le cose in quel modo)? Donne e uomini sono due concetti-scatola separati? e così via. Questioni preliminari alla tua asserzione che forse gli darebbero un’altra forma. Comunque capisco quel che vuoi dire, è sicuramente un discorso sensato.
2 giugno 2014 alle 10:37
Andrea:
Non ti ho contestato di “ridurre la creatura umana al suo sesso”, ma la retorica volgarità dell’espressione “contenuto delle mutande” (e perché non quello, a es., della canottiera?), che riduce il sesso ai genitali.
Il creatore al quale fai riferimento, peraltro, si dice che “maschio e femmina li creò”.
E: non sto a discutere di che cosa sia meglio parlare. Ho cercato di chiarire (ma mi pareva già chiaro, ti dirò) di che cosa sto parlando.