La formazione della scrittrice, 17 / Rosaria Lo Russo

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di Rosaria Lo Russo

[Questo è il diciassettesimo articolo di una serie che spero lunga e interessante. Ringrazio Rosaria per la disponibilità. Chi volesse proporsi, mi scriva mettendo nell’oggetto le parole “La formazione della scrittrice”. gm]

RosariaLoRussoDieci anni

Annusare la carta, sfiorarla con le dita, strusciare la pagina contro una guancia. Pagine ingiallite e sottilissime, un libro grosso, la copertina rossa. Le Mille e una notte a casa di mio nonno nella campagna toscana e i lunghi pomeriggi solitari di una bambina che amava molto leggere favole e poesie, e a casa di mio nonno c’erano anche molti libri di poesia. Nonno leggimene una. Nonno leggimene una. Ma soprattutto nonno Renato aveva un cofanetto, color porpora e ricami dorati, contenente una selezione del Reader’s Digest della più grande poesia italiana, dai siciliani a Montale, accompagnati da 45 giri in cui questi testi lapidari erano declamati dai grandi attori all’antica italiana, Gassman, Foà, Edmonda Aldini… Il cofanetto Le pagine d’oro della poesia italiana è un cimelio polveroso che sta sullo scaffale più basso nella parte della mia libreria dedicata interamente alla poesia, come un grande rettangolo genitoriale. I vinili a 78 giri ivi riposano in pace ma nescit vox missa reverti citando Ovidio. E la musica lirica. Mio nonno era un melomane straordinariamente appassionato. A casa sua ho conosciuto da bambina tanti cantanti lirici e lui spesso mi portava con sé all’opera. Ancora il ricordo di un grande sonno, un sonno cullato e interrotto dalle versioni filologiche di Riccardo Muti al Comunale di Firenze, sei ore di Guglielmo Tell di Rossini. Un sonno beato dal canto e turbato dal canto: croce e delizia. E poi i Quindici, i due volumi, quello con la costa rosa e quello con la costa viola, solo quelli sempre quelli. Il loro odore fortissimo. Avevo dieci anni e il 21 giugno era il compleanno di mia madre. La famiglia andò a pranzo da La Beppa, un ristorante famoso allora a Firenze, sui Viali dei Colli, ombreggiato dal tigli. L’odore dei tigli era fortissimo, il pranzo era stato buonissimo. Tornata a casa ero piena di sensi buoni e questi diventarono una poesia niente affatto ingenua. Una poesia dedicata a mia madre, nella sonnolenza meridiana di un primo giorno d’estate pieno di sensi buoni. Mamma, mi leggi una favola? Anzi, me ne racconti una? La poesia nasceva come risultato dei sensi appagati. Ascoltare, annusare, assaporare. Ma il mio nome calabrese, imposto dalla nonna paterna, non piaceva alla mia mamma fiorentina, che aveva dovuto accettare Rosaria per evitare Concettina, il nome di mia nonna (l’insopportabile suocera perennemente a lutto). Rosaria per Rosarina, Rina, la primogenita di mia nonna Concettina, morta a dieci anni per una malformazione cardiaca congenita. La foto del suo piccolo viso ingoiato dalle occhiaie nere e dal baschetto dei capelli neri incombeva consumandosi di anno in anno, ingiallendo, sparendo: io ero nata perché lei fosse ancora. Io non ero io, ero lei, morta a dieci anni. Il mio primo libro, L’estro, lo ha scritto lei, una bambina di dieci anni, una bambina morta che cantava arie d’opera.

Scuola media Niccolò Machiavelli in Piazza Pitti

Una fantastica prof. di Italiano che amava molto la poesia. Chi vuole leggere? Io! Io! Io! Mi alzo in piedi e leggo a tutta la classe La pioggia nel pineto, godendo di una beatitudine assoluta. Mi rendo conto, mentre scrivo, che deve essere a causa di questo imprinting sensual-dannunziano esagerato che poi non ho mai amato leggere D’Annunzio, nella cosiddetta età della ragione. Ho sragionato con lui e come lui mangiandolo fino al disgusto (il melodramma dannunziano, il bel canto dannunziano, il Bello della Poesia Italia, il SuperBello da Reader’s Digest). Fatta indigestione di Bella Poesia. Incarnata la metrica, incarnata ogni sinestesia, negli anni meravigliosi di ogni sorprendersi, dell’apertura totale all’ascolto del mondo. E per me il mondo era fatto soprattutto di parole dette, lette, cantate. Dei due dialetti dei nonni genitoriali, agli antipodi, il toscano, il calabrese. Inizio a scrivere molto baroccamente. Ma soprattutto la prof. Neroli, adorabile e severissima, ebbe l’idea geniale di farci scrivere un dramma sul Risorgimento, un testo collettivo. Grande spasso questa scrittura collettiva che faceva saltare la scansione noiosa delle ore e del programma scolastico. Si scrive Va’ pensiero. La lirica, gli eroi risorgimentali, ogni eccesso di passione coltivava la mia truccatissima prof. di Italiano (il suo viso era una bella maschera, ma, da vera prof delle medie, il fondotinta se lo dava fino al mento, mostrando un viso coloratissimo e due ciglia da Betty Boop sopra un collino bianco bianco e rugosetto). Terza media, saggio di fine anno, in un teatro vero! Un teatrino barocco, Il Rondò di Bacco. La classe deve scegliere la protagonista, la ragazzina che interpreterà la parte di Claretta Maffei. Si fanno i provini. Se non vincevo la parte sarei rimasta malissimo, ci tenevo da morire. E fui la Contessa Claretta Maffei. E il luogo della parola poetica, lirica e cantata, detta e recitata, diventava il mio corpo grassoccio in scena. O forse dovrei scrivere: poesia voce canto, il mio corpo in scena, ero io, Rina, la bambina morta, la sua larva, la masca.

Liceo classico Michelangelo, detto il Miche

Mai dubitato nemmeno per un attimo che le uniche cosa che mi interessassero fossero la letteratura e il teatro. Un Pinocchio visto al Teatro della Pergola da piccolissima con il febbrone fece sì che io fossi inghiottita dal Grande Pescecane nella cui pancia si attraversa la morte iniziatica, il luogo ideale per una bambina morta. Salire e stare su un palcoscenico è questo per me che recito, o declamo, o dico, la parola musica della poesia, lì essendo compiutamente Viva perché compiutamente passata attraverso la Morte.
Però il ginnasio è pesantissimo, ogni grammatica mi è sempre stata ostica e ostile. La rigidità della grammatica è come un vestito scomodo. Imparare la grammatica è un controsenso per chi la lingua se la mangia, la annusa, la tocca. Che diventi logos è insopportabile. Un mostruoso senso del dovere mi obbliga a studiare tanto per prendere voti bassi. Resta la goduria del tema in classe. Una volta presi 4/8: al liceo sbagliavo ancora l’h, ma le idee, le idee e la scrittura… Il Prof. Greco aveva capito che pendevo dalle labbra della letteratura, cioè dalle sue, e mi curava così. A sedici anni, non senza molto timore, gli metto in mano le mie poesie. Mi fece un regalo meraviglioso chiamandomi per commentarle, dopo averle lette, durante l’ora di matematica (la prof. di matematica sosteneva che fossi deficiente, e aveva pienamente ragione), l’ora in cui alla lavagna il gesso mi si scioglieva fra le dita. E mi dice che le mie poesie sono belle. E io mi sento veramente viva. E’ stato uno dei momenti più vivi della mia vita, quel colloquio, nel corridoio, fuori dell’aula dove si svolgeva l’ora di matematica. Il molto sagace prof. mi consiglia di leggere Pagliarani, La ragazza Carla. Pagliarani, Elio, che poi ho conosciuto, che ci siamo voluti un gran bene, che mi chiese di scrivere la prefazione di Comedia (lui, a me, proprio lui, a me!) Pagliarani, Pavese di Lavorare stanca. E qui comincia l’età della ragion poetica, della ragione poetante. Accanto al senso comincia a imporsi il pensiero, un’altra musica. Inizia il mio rapporto adulto con la poesia. Anche se tutte le volte che interrogava su Dante, alzavo la mano per andare volontaria. Per leggere Dante ad alta voce, in classe. Mi prendevano ovviamente per secchiona, i compagni di scuola. Io volevo solo godere.
Godere forte attraverso la gola. La bambina golosa e cicciotta stava morendo, era anzi nata morta e cominciava ad accorgersene, al termine dell’età di ogni sorpresa. Mentre l’amore mi lascia, mentre morivo di anoressia, la poesia diventava l’unico nutrimento, l’unica ragione di vita, l’unico piacere.
Quindi fui onnivora. Non posso elencare autori perché non leggevo autori o autrici leggevo poesia, tutta quella che trovavo, era una questione di voracità e di vuoto, di voracità e di vuoto da riempire di parole-musica. Madre parola musica, Padre parola musica. Dante, lingua Madre del Padre. Dante su tutti e su tutto. E Jacopone, Rilke, fra i superfavoriti, ma senza una vera percezione di discontinuità. Cibo ingerito, rivomitato in parole mie. Durante la mia anoressia trentennale non ho mai vomitato (neppure nel periodo della gravidanza, pur avendo nausee da capogiro) perché ho sempre scritto.
Negli anni del Liceo, un unico svago, per la ragazza occhialuta e necessariamente secchiona (se non studiavo tutto il giorno, data la tendenza a distrarmi, non strappavo la sufficienza in nessuna materia tranne Italiano) della fine degli Anni Settanta, un unico svago, anzi due in uno: il collettivo femminista e la scuola di teatro. Mi formavo come attrice e il femminismo mi aiutava nel difficilissimo distacco da una famiglia borghese nel senso più deteriore del termine, almeno per me: borghese di destra benpensante superficiale, col mito del successo e del denaro. A me tutto questo faceva e fa schifo e la mia evoluzione era coscientemente e savonarolescamente indirizzata verso quei valori e quei sogni di rivoluzione che per me durarono appena un paio di anni. Negli Anni Ottanta infatti, negli orrendi Anni Ottanta, decisi di rimanere chiusa in casa a studiare, anche il sabato. Non potevo stare nelle feste yuppies di quegli anni di imbecillità diffusa. Non mi piaceva nulla del nuovo che avanzava e che da allora non ha mai smesso di avanzare distruggendo quei pochi lampi di gioia sociale conosciuti nello scorcio dei Settanta. Fra i sedici e i venti anni ho vissuto in una quasi reclusione volontaria, frequentando quelli che avevano qualche anno più di me e che preferivano la letteratura e il teatro alla discoteca. Il rigore di una anoressica, che si accentuò con la prima grande delusione amorosa.
La mia scuola di recitazione, capeggiata da un Santo, Paolo Coccheri (attualmente famoso per le Ronde della Carità diffuse in tutta Italia), che era un cattolico illuminato da una vera bontà, da una vera ingenuità e da una innocenza totale, era basata sugli insegnamenti di Orazio Costa Giovangigli, famosissimo pedagogo teatrale cattolico illuminato, come il suo maestro Jacques Copeau, che in quel torno di anni, e in quelli precedenti, aveva formato i maggiori attori italiani presenti sulle scene. Ecco, Paolo era il suo allievo di serie B, quello troppo sincero e onesto per diventare attore di mestiere per l’ambiente teatrale e i suoi snobismi, ma di serie A per noi suoi allievi, che apprezzavamo le sue feste di primavera il 21 marzo e i suoi inviti a cena per conoscerci uno ad uno, in Sanfrediano, da Sabatino, un ristorante dove si spendeva pochissimo e si mangiava insieme ai pensionati rimasti vedovi la minestra e la fettina. Paolo, e la sua scuola di teatro povero e della povertà, Paolo aspirante cristiano, così si definiva: lui e i suoi allievi diventarono la mia vera famiglia, fra i 14 e i 18 anni. Ogni domenica mattina al Laboratorio dell’Attore di Paolo Coccheri si tenevano readings di poesia. Si leggevano tutti i poeti, talvolta Luzi e Bigongiari, se leggevamo i loro testi, venivano a sentirci. Ho visto cadere una lacrima sul viso enorme e severo di Piero Bigongiari sentendomi leggere una sua poesia e spesso ho passeggiato a braccetto con Mario Luzi, che mi stringeva il braccio e mi diceva brava.

Lettere, indirizzo Storia dello Spettacolo

A scuola da Paolo non ci andavo più – ormai avevo conosciuto Piera degli Esposti e seguivo lei per l’educazione vocale, e poi altre grandissime, fra cui l’immensa Gabriella Bartolomei – ma i readings domenicali andavo a farli: la mia malattia mi aveva creato un impedimento a recitare a tutto corpo e avevo deciso di specializzarmi in lettura di poesia ad alta voce, anche perché nel frattempo scrivevo poesia (di nascosto però, preferivo non si sapesse, dovevo assorbire e restituire poesia altrui e covare la mia nel silenzio). Ero diventata, lo sono stata per un paio di anni, allieva del corso di Letteratura Italiana Moderna e Contemporanea tenuto da Bigongiari, due anni di studio con il grande maestro dell’Ermetismo sulla poesia di Montale. Le Occasioni e La Bufera parola per parola, e talvolta Oreste Macrì veniva a spiegarci la metrica dei Mottetti saltellando. Avevo continuamente i brividi. Ero estasiata e muta. E poi Zanzotto, Cattafi, Nelo Risi, Caproni. In quei due anni ero tutta orecchie occhi e bocca. Due anni, due esami soli, con Bigongiari. E studiare la voce, conoscerla, usarla. Ascoltare in continuazione Carmelo Bene, idolatrato, seguito per anni, fino alla sua morte, ascoltato e riascoltato dal vivo e in cd. Mangiare solo poesia, restituire solo poesia. Ma l’ambiente postermetico fiorentino mancava di qualcosa di fondamentale per me, qualcosa di cui prendevo via via coscienza nonostante che provassi un piacere immenso in quello studio, mancava di una cosa che aveva già capito di me il prof. Greco, quella passione per il realismo che vivevo occupandomi (maldestramente ma occupandomene) di politica, femminismo e teatro. Il Sublimne non poteva essere esonerato dalla realtà. Il Sublime doveva anche essere rovesciato e analizzato. Restava l’appiglio ad una poesia diversa: quella del Pagliarani che avevo conosciuto (testualmente) al Liceo, quella di Pavese; non ho mai digerito la poesia di Pasolini, molto amato come cineasta e ideologo. E poi l’incontro con Caproni. L’incontro con il poeta Caproni in occasione di una mia lettura al Gabinetto Vieusseux dei Versi livornesi de Il seme del piangere. Me diciottenne magrissima che cantavo la vita di Annina si guadagnò le lacrime anche di Caproni (e le mie, tante, mentre preparavo la lettura) e una sua dedica bellissima alla mia copia Garzanti di Tutte le poesie. Tutti i nomi che sto facendo sono per me i nomi della gratitudine e della gioia di esserci. Quella lettura fu per me una pietra miliare perché mi permise di incontrare – e soprattutto di diventare in voce – la figura femminile nella poesia italiana, quel Tu che l’ossessionava dai Siciliani al Novecento e di cui ci aveva mirabilmente parlato Bigongiari, attraversando il Montale del periodo succitato. Da allora in poi la dramatis persona del Tu poetico ha impegnato quasi interamente la mia ricerca artistica, sia come lettrice che come poeta. Il libro più didascalico al riguardo è Lo Dittatore Amore. Melologhi, successivo frutto maturo di quella ricerca e decisione soffertissima, coltivata per anni, di rovesciare parodicamente la Dittatura stilnovista imperante nella poesia italiana in omnia specula saeculorum per dare una voce autonoma, autoriale, autorizzata a scrivere, a quegli io femminili che non potevano più abitare la lingua dei Padri senza prendere la parola in prima persona e in un necessario controcanto iniziale. Abbandonai come un vestito vecchio il Postermetismo fiorentino e i suoi maestri (mai smettendo di amare la loro poesia ma consapevole di dovermene emancipare), mi sposai, purtroppo, senza farci troppo caso, ma il mio matrimonio americano mi avrebbe permesso di incontrare colei che mi ha dato un definitivo scossone ermeneutico.
E, per concludere sulla formazione universitaria, virai in tutt’altra direzione che la poesia: la storia materiale dello spettacolo, architetture, attori in carne ed ossa, mercimoni artistici, costumi e opere d’arte visiva. La parola doveva restare ancora segreta (il primo libro l’ho pubblicato dopo il biennio bigongiariano e lungi dai poeti fiorentini postermetici), maturare ancora dentro, la mia, e far uscire fuori dalla gola solo la poesia grande e grossa degli Altri. Dovevo assorbire, imparare dalla lettura ad alta voce, lo sapevo che quello era il migliore esercizio, il più sicuro – la prassi, il fare, poièin – soprattutto il più amato, molto più amato della lettura silenziosa.

Io e Anne

Dieci anni di collaborazione con l’allora neonata rivista di traduzione e poesia comparata Semicerchio mi insegnavano la necessità fondamentale per un poeta del cimentarsi nella traduzione. La rivista era ed è tematica. Venne la volta del tema La ricerca del Padre. Me ne assunsi in parte la responsabilità della curatela con trepidazione inconscia. Quell’estate (non ricordo l’anno, ma il momento ha una valenza assoluta e perciò posso ignorare la cronologia) negli Stati Uniti, con mio marito Thomas Kirk, un uomo di un’intelligenza poetica straordinaria, mi capitò, tramite le mani di Tom, una antologia di Anne Sexton, la “sorellastra” freak di Sylvia Plath, che in Italia, specie in ambito femminista, era un culto larvale e adesso, grazie a tre volumi tradotti da me (di cui uno con la collaborazione di Edoardo Zuccate e Aldo Nove, miei sodali compagni di scrittura in quegli anni) lo è apertamente. In tutti questi anni sono stata più conosciuta come traduttrice della Sexton che come autrice in proprio. Il lavoro sulla poesia di Anne Sexton è stato per me totalizzante: traduzioni, saggi, letture pubbliche, e mi ha portato poi ad occuparmi quasi esclusivamente di poesia scritta da donne. Traducendo Anne, sia la sua scrittura che la sua voce, diventata, in italiano, la mia, il mio modo di scrivere è cambiato in maniera sostanziale sia per quanto concerne le tematiche trattate sia, in conseguenza di un decennale lavorio linguistico fra due lingue molto distanti fra loro, per quanto riguarda la ricerca stilistica. In estrema sintesi, ho scoperto nel frattempo che il mio modo di lavorare, che mi sembrava solitario se lo rapportavo alla poesia che avevo sempre frequentato (quella maschile per lo più italiana), era già in atto dalla metà del Novecento in aerea anglosassone e che la fonte originaria della diversità della scrittura femminile risiedeva nella sua genealogia, diversa in parte da quella della poesia scritta da uomini. La modalità espressiva di Anne Sexton, poeta e performer, ma “autodidatta”, non nasceva dalla tradizione accademica ma da fonti oscure e ancestrali per estrapolare le quali era necessario rifarsi alla tradizione attorica e mistica più che alla poesia laureata. Ancora riducendo all’osso: ho cercato di dimostrare in alcuni miei saggi che la poesia di Anne Sexton, la poesia cosiddetta “confessionale”, aveva rapporti strettissimi con la pratica delle attrici e delle suore, dal Medioevo in poi, di scrivere nell’esperienza. La questione riguarda, alla base, il ritardo storico dell’alfabetizzazione femminile. La genealogia della scrittura femminile riportava a galla, dal punto di vista tematico soprattutto, certe istanze aurorali nella necessità della scrittura che prima della seconda metà del Novecento era stato dato esperire, per cause storiche, dalle sole donne alfabetizzate e dotate di un ruolo sociale extrafamiliare: appunto le attrici professioniste e le sante, libere scrittrici perché escluse dalla destinazione esclusivamente familiare delle donne. In seguito ho potuto verificare che ancor prima che in ambito angloamericano – e forse a causa della dimestichezza con questo dell’autrice – l’immensa Amelia Rosselli aveva già intuito ed esperito stilisticamente questi portati ancestrali della memoria poetante. La “mistica del cervello” femminile era la matrice poetica da riconoscere. Ecco cosa ho trovato nella triade Sexton Rosselli Plath. Mi rendo conto che sto tentando di riassumere in poche parole questioni che hanno occupato molte mie pagine di saggistica. Posso solo rimandare alla mia bibliografia (reperibile in www.rosarialorusso.wordpress.com) chi fosse interessato ad approfondire questi argomenti. L’area letteraria femminista (che confesso interessarmi poco o nulla in quanto a ermeneutica) ha usato e spesso mal interpretato queste autrici, facendo dire loro quel che volevano che dicessero e non analizzando i testi, errore macroscopico dal momento in cui tutte e tre presero le distanze apertamente dal pensiero letterario del movimento femminista, non per contrapporvisi ma perché non frequentato, non affine alla loro ricerca: cosa che del resto riguarda anche me personalmente, oltre che come loro studiosa. Non si tratta quindi di affermare una genealogia femminista, ma femminile, e questa ha a che fare con una straordinaria complessità di matrici, di cui quella letteraria canonica non è la più importante.
E infine Patrizia Vicinelli, la molto emarginata. Ecco, fra le istanze fondanti del poetare di queste autrici l’ultima istanza emersa è la più importante: a parte Sylvia Plath – non per nulla la più legata alla poesia laureata e ai suoi esponenti – sia Sexton che Rosselli che Vicinelli hanno sposato un mito: la rifondazione del poema. Hanno capito che se volevano autorizzarsi ad essere un io che scrive invece che un tu scritto dovevano rifondare la Tradizione. E lo abbiamo fatto, parodizzandola.

Il poema di fondazione

La libellula, I fondamenti dell’essere, rispettivamente di Rosselli e Vicinelli, ne sono un chiaro esempio. Mentre Anne Sexton si smarcava dal lirismo femminile poetando in Serie a tema spesso mistico religioso e dedicandosi al teatro e molta Rosselli scrive in Serie ricalcando un lessico mistico, tutte hanno (abbiamo) la necessità della lunghezza poematica per cercare un Sé letterario autonomato dai Padri, di cui pure siamo Figlie Incestuose Orali. Così ho capito a posteriori che tutto questo patrimonio letterario femminile – volutamente messo in ombra dalla cultura letteraria dominante che nel Novecento stava implodendo nei frammenti singultanti di un poema moribondo e poi morto – aveva preceduto, con forza fondativa, il mio sforzo poematico di Comedia, il mio primo libro scritto in piena (in)coscienza di praticare una ricerca poetica e di definire una poetica, e dico a posteriori perché, che ci crediate o meno, all’epoca della scrittura di Comedia i miei riferimenti erano Dante e Foscolo e non La libellula, che ancora non avevo letto e che invece è la sua fonte ideale, insieme alla performatività testuale della scrittura vicinelliana, anche lei conosciuta a posteriori. Se Sexton mi aveva fatto intuire fonti diverse, Rosselli reintegrava le fonti classiche della nostra letteratura nel progetto poematico che scorreva, con la sua “flussuosità”, nelle vene delle poetesse contemporanee fra le quali ho dimenticato di citare – e qui le rendo, con gratitudine accompagnata da una frequentazione assidua anche al presente, tutto il merito della sua scuola, riassunto in questo suo potente neologismo – Mariella Bettarini. Negli anni del mio apprendistato fiorentinissimo, Liceo e Università, seguivo con un crescente senso di appartenenza le gesta poetiche e intellettuali della fondatrice della storica rivista Salvo imprevisti. Amata da subito come poeta, amata poi per sempre come poeta cattolica e comunista, o cattocomunista come si diceva. A sedici anni ebbi il coraggio di darle a leggere, preso coraggio dal Prof. Greco, le mie poesie, e lei, nonostante le molte correzioni ortografiche, non mi umiliò per queste dislessie, anzi con affetto mi incoraggiò 8e continua a incoraggiarmi). Paradossalmente fu Luzi a scegliere le mie poesie fra quelle dei compagni di Semicerchio per la mia prima pubblicazione su questa rivista a cui devo tanto, sia come studiosa di letteratura sia come traduttrice, ma Mariella era la madre che sognavo in mezzo a tanti padri che mi suscitavano timore e un certo senso di distanza, la sua poesia era un canto che volevo ricantare, che mi apparteneva, di cui ero erede. E l’ho fatto più volte, fino a dedicarle un cd in cui recito le sue poesie che amo di più, in omaggio per i suoi 70 anni che nessuna istituzione accademica avrebbe festeggiato. Le mie poetesse: mistiche, parodiche, eretiche, eroiche, suicidate dall’emarginazione in cui il cosiddetto Canone le ha relegate: è di questi ultimi anni l’omaggio in progress che dedico loro, insieme a Daniela Rossi, col progetto poetico performativo e critico Fragili Guerriere.
Ma perché questa missione poi si compisse dovevo prima uscire da Firenze e fu così che fui invitata a Reggio Emilia dal mio maggior sostenitore (l’ho verificato nel tempo), Nanni Balestrini (su segnalazione di Aldo Nove) per l’edizione 1997 di Ricercare, a presentare Comedia, che ancora era una serie di testi dentro un’idea poematica di matrice dantesca. Quella sì che fu un’esperienza incredibile. Scoprii che quel che facevo, e tenevo ben nascosto agli amici fiorentini postermetici, era molto gradito agli esponenti del Gruppo ‘63 e ’93. Mentre Marco Berisso mi chiamava sorella, un gigante mitologico, Elio Pagliarani mi chiedeva di prefare quel libro quando fosse stato pubblicato! Insomma mi hanno annoverata fra gli esponenti della neoneoavanguardia (sic!) ma io allora non ne sapevo molto dell’Avanguardia, non la leggevo, pensavo al teatro più che alla poesia agli inizi degli Anni Novanta. Ancora Anne Sexton non l’avevo conosciuta e non avevo letto altri che Pagliarani (al Liceo!) quando nel ’97 nacqui ufficialmente come poeta performer neoavanguardista a Reggio Emilia e iniziai a fare questo lavoro che amo ogni giorno di più: leggere e scrivere e soprattutto leggere in pubblico. La mia storia artistica mi ha portato ad incontri meravigliosi: ho letto, alla loro presenza e con loro, Wislawa Szymborska, Josif Brodskij, Friederike Mayröcker, Erica Jong, Giorgio Caproni, Mario Luzi, Elio Pagliarani e tanti altri e tante altre.

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11 Risposte to “La formazione della scrittrice, 17 / Rosaria Lo Russo”

  1. Morena Silingardi Says:

    Ho appena bevuto e mangiato tutto questo bendidio che Rosaria Lo Russo ha scritto.
    Io sono stata operata alle corde vocali, uso malissimo la voce, ho toni alti e non controllati e mi affatico di un troppo e troppo frequente parlare; non ho nemmeno imparato l’abc che vari corsi di logopedia hanno tentato di insegnarmi. Non sono certa che questo c’entri, ma so di essere estasiata dalla voce di Rosaria, anche se non l’ho mai sentita dal vivo.
    Sono estasiata perché ho immediatamente intuito (non saputo, si badi bene, quello l’ho imparato nel tempo, ché la mia ignoranza è abissale) che la voce di Rosaria è la voce della poesia stessa.

  2. rosaria lo russo Says:

    Morena Siliingardi, tu mi commuovi! Grazie, e vediamo se si può far qualcosa per la TUA voce.

  3. sarmizegetusa Says:

    “Più Cristi e Madonne, ce lo chiede Rosaria”.

    sempre la meglio.

  4. luciamarchitto Says:

    Non conosco Rosaria né la sua scrittura, e voglio pensare che abbia scritto delle belle cose, sicuramente sarà così, però questa cosa qui, senza voler essere scortese, certo potrei starmene zitta, non che sia scritta in modo scorretto, e non è neanche perchè è troppo lunga, non so, forse sono io che non ne so cogliere gli aspetti positivi, sarà sicuramente così, però questo testo mi pare proprio privo di bellezza.

  5. rosaria lo russo Says:

    la bellezza comunemente intesa infatti non mi piace per nulla, gentile Lucia: li ha proprio ragione!

  6. Il fu GiusCo Says:

    A me pare un post energico ed energizzante. Si intuiscono un grande investimento (tipicamente maschile) ed una grande profusione (tipicamente femminile) di vitalità sia fisica che mentale. Da agnostico, tale aderenza alla poesia mi stupisce sempre. Rimangono i testi ma quelli, si sa, sono per i morti. Saluti e buon lavoro. Giuseppe

  7. Magda Guia Cervesato Says:

    Ciao Rosaria, bellissima storia, la tua. Un giorno chissà, ci incontreremo per chiacchierare di mariti americani e cibi grassi.
    Ti ho letta e riletta a pezzetti in questi giorni. La ragione del singhiozzo è un pomeriggio afoso, anni fa, in cui per una di quelle coincidenze inspiegabili destinate a rimanere tali, l’amico in visita mi parlò di un evento su A. Sexton a Berlino. Non ne sapevo molto, allora. Iniziai a leggerla. Ascoltarla. Arrivai a ‘La doppia immagine’. Mi fermai. Ero appena tornata dalla mia Bedlam, e una piccola Joy di tre anni mi aspettava altrove. Inutile dire l’ovvio: una donna, laggiù a Boston, mi era così dettagliatamente sorella; non ero unica e non ero sola. Non mi commossi, al tempo: troppo vicini gli eventi, troppo abbattute le mie foglie. Solo mi chiedo perché, oggi, questo commento a(l) singhiozzo.
    Grazie.

  8. lorenzo Says:

    bellissima testimonianza!

  9. rosaria lo russo Says:

    Magda Guia, sono con te, un po’ certo come te. Siamo un noi in formazione!!! Grazie per le tue parole e i tuoi singhiozzi, hip!

  10. Lucia Guidorizzi Says:

    Le parole dell’estasi deviano e delirano sempre, uscendo dal solco produttivo, ma quale dono per chi sa coglierle e trasformare la sua dislessia in glossolalia! Grazie Rosaria per questo racconto avvincente in cui si delinea il tuo sentiero luminoso!

  11. Maria Cristina Vezzosi Says:

    Cara Rosaria,
    ho ascoltato una tua lezione di lettura ad alta voce nella stagione 2015/2016 dei corsi di Semicerchio e ora che ho letto la tua biografia comprendo la forza della tua sicurezza adulta e lo smarrimento dei tuoi primi passi al Miche (ci sono stata anch’io nello stesso periodo e ne conosco tutti gli angoli bui).
    Io trovo il tuo post interessante, emozionante e perfino di utilità per giovani precocemente smarriti tra i meandri della letteratura. Io, purtroppo, lo fui tardivamente.
    E poi mi rassicurasti che la mia orribile pronuncia nasale non è ineluttabile…

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