La formazione della scrittrice, 15 / Silvia Cassioli

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di Silvia Cassioli

[Questo è il quindicesimo articolo di una serie che spero lunga e interessante. Ringrazio Silvia per la disponibilità. Chi volesse proporsi, mi scriva mettendo nell’oggetto le parole “La formazione della scrittrice”. gm]

silviacassioliFelicità è un viaggio in macchina con mia madre per leggere i cartelli stradali l’anno che ho imparato a leggere. La felicità era in questo: decifrare il senso di cose correnti che avevo sempre registrato sotto un altro aspetto: l’aspetto della forma e del colore, che però era secondario (lo sospettavo) rispetto all’asse principale del messaggio. Un asse di lettere chiare: Bar, Farmacia, Stop.
Scrivere per me è qualcosa di simile, con un processo inverso. Come se per affrontare le cose bisognasse riconfigurarle in segni, forme e posizioni nello spazio. Ricostituirle daccapo. Raggiungerle, anche.

Volevo continuare a giocare senza avere ogni volta la seccatura di tirare fuori le bambole dalla scatola, apparecchiare le scene, passare sopra al fatto che Ken aveva solo un completo da tennis, inadatto alla maggior parte dei ruoli, e che quasi tutte le Barbie sorridevano con i denti, in spregio a ogni verosimiglianza drammatica. Scrivere cioè è stato il prolungamento di un gioco, il superamento di alcuni problemi che però si è subito tirato dietro problemi di tipo diverso. Il primo: il tempo. Nello spazio mentale del gioco il problema non si poneva, ma nel passaggio alla versione scritta tutte le mie storie improvvisamente diventavano corte, striminzite e secche.

Venivo troppo alla svelta: le cose accadevano tutte e subito, lasciandomi con un senso di insufficienza generale. Dovevo imparare dagli scrittori come farle durare, come sostenere una scena con descrizioni e dialoghi, per tirarla piú in lungo, perché fosse piú convincente e piú appagante. Come equipaggiare un personaggio per farlo reggere all’impatto con un’azione qualsiasi. Come distribuire le energie intorno a qualcosa che si svolge.
Dovevo imparare dagli scrittori. Maria Elisa Caselli se la cavava descrivendo per bene l’aspetto di ogni personaggio. Se uno aveva i capelli cosí, il naso cosí, i vestiti cosà. Io copiavo diligentemente. Il capitolo veniva piú lunghetto, ma il centro nudo, la cosa cruda, oscurava comunque tutto il resto. Accadeva e finiva: punto.

Passavo a un romanzo Salani degli anni cinquanta, Tre sulla traccia. L’autrice, non mi ricordo il nome, faceva dei dialoghi brillanti. Gente sveglia che si rispondeva sempre a tono, un po’ come succede ora nelle serie tv americane. E qui copiare era piú complicato. Com’è che uno scrittore riesce a passare dalla generalità di un tutto allo specifico di una battuta? senza diluirsi nel grigio? senza degenerare in un rumore ozioso? I miei personaggi si dilungavano in dibattiti ampollosi e nelle faccende piú importanti consumavano tutto in quattro e quattr’otto. Non soffrivano, non si divertivano, non si scambiavano opinioni. Non centravano mai il punto. Che punto?

Leggevo e rileggevo sempre lo stesso romanzo. Arrivavo in fondo e ricominciavo perché il bello veniva sempre alla seconda volta, o alla terza. Alla prima mi perdevo quasi tutto (è una cosa che mi porto dietro da sempre, e uno dei motivi per cui mi sento piú a mio agio a leggere, o a scrivere, o a frequentare qualcuno che conosco rispetto a qualcuno che non conosco. Non so rispondere al volo. Al volo non so chi sono. Al telefono difficilmente capisco quello che mi dicono. La temperatura delle mie email oscilla dal troppo caldo al troppo freddo. Di persona certe volte non va meglio. Assorbo troppo e parlo troppo poco).

Comunque il buono era che imparavo. Arrivavo in fondo a questi libri e ricominciavo. Copiavo da quello che leggevo, fin dove riuscivo. Leggevo e imitavo quello che mi capitava (cartoni, fumetti e guide tv: facevo dei fotoromanzi-collage con le foto delle attrici di Tv Sorrisi e canzoni. Certo il realismo andava a farsi benedire, Jane Fonda non era proprio somigliantissima a Julie Christie di pagina 2 e sempre di Lucilla Aldobrandi si trattava: ma era un tentativo. Il collage risolveva uno dei miei problemi spinosi perché fra una figura e l’altra c’era un’ellissi, ed era come dire: lo so che nel mezzo c’è un vuoto, ma non dipende da me!).

In casa c’erano pochi libri. Pochi ma buoni e difficilmente imitabili (mia madre e mia zia erano di gusti difficili). In pratica c’erano Anna Karenina, Bel-Ami e Madame Bovary. Il resto sembrava che fosse troppo moderno e che si potesse anche risparmiarselo. In biblioteca arraffavo Freud, Beckett e Čechov. Sviluppavo una simpatia per gli autori in cui non succede quasi niente. Mi davano una specie di sollievo.
Mi interessavo di filosofia, di psicanalisi, di teatro. Sempre capendo un terzo di quello che leggevo, e facendomi per questo l’idea che le cose fossero molto stratificate, allacciate in profondità, non isolabili. Tutto aveva troppe facce. Le esperienze, belle e brutte, mi lasciavano lunghi strascichi che mi rallentavano e inciampavano (è ancora cosí). Cercavo di mimetizzarmi, di recuperare in velocità.

Battevo con la macchina da scrivere che mi era stata regalata il giorno della prima comunione. Se a scuola studiavamo i veristi, battevo un romanzo para-verista. Se studiavamo i romantici, battevo un romanzo para-romantico. Ma non facevo mai in tempo a finirli perché fra un capitolo e l’altro ero già cresciuta troppo e non mi piaceva piú niente. Scrivevo alla stessa velocità con cui cancellavo. A scuola cominciavo a scrivere i temi su cinque fogli contemporaneamente. A ogni passaggio seguivano cinque varianti diverse, una piú lambiccata dell’altra. Costruivo e rismontavo, e alla fine ero sempre lí a cincischiare con uno, due, al massimo tre concetti striminziti. Davo l’impressione di essere un po’ ottusa, ma poi improvvisamente infilavo una frase piú tagliente delle altre, o piú profonda, che suscitava grandi aspettative e invece rinsecchiva subito dopo con qualche ragionamento astratto e avviticchiato. Mi chiedevano: E allora?

Ascoltavo la musica. Dall’opera italiana imparavo la polifonia. Le voci che si intrecciano ciascuna esprimendo un punto di vista diverso a partire da una situazione comune, come succede nel finale primo dell’opera buffa, quando tutti i personaggi si ritrovano e si raggiunge il picco massimo di caos sonoro. È una situazione viva, attuale. È il modo in cui mi sento nel mondo: fraintendimento, rumore, molteplicità. Gente che si assomma sulla scena continuando a svolgere il proprio delirio piú o meno solitario, ma tutta insieme. Scene di follia collettiva con sguardi divergenti sulle cose. Uno che la pensa cosí, un altro che la pensa in un altro modo. È questo che mi interessa del romanzo: che ognuno dica la sua.

Altra lettura rivoltante: Foto di gruppo con signora di Heinrich Böll. 1985, o giú di lí. Per la prima volta mi ha fatto vedere (dove non era facile distinguere negli impasti ottocenteschi) un campo di forze schierate, quasi lo scheletro di un romanzo, che per me era piú facile da capire. A quel punto naturalmente volevo scrivere quel libro, e ne ho scritto infatti uno vagamente somigliante (il primo a cui sia arrivata in fondo, pubblicato con una casa editrice a pagamento. Avevo diciotto anni).

La scuola mi ha fatto male. L’università anche peggio. Ma non per colpa della scuola, o dell’università, quanto per la mia tendenza a interiorizzare i “si deve” in maniera patologica, a rivolgermeli tutti contro fino alla paralisi, o quasi. Non ho scritto niente per tutto il periodo universitario. Piuttosto che non eccellere non esistere, la pensavo cosí. Tanti i problemi personali, di relazione col mondo, che però sono diventate risorse quando mi sono accorta che a bloccarmi era lo stesso meccanismo che mi rendeva capace di inquadrare una situazione da diversi punti di vista, di calarmi nei film degli altri.

Perché finora ho pubblicato poesia e libri per bambini, ma so di avere la forma mentale della narratrice, anche quando scrivo poesia. Tolstoj, Nabokov, Tolstoj attraverso Nabokov e Nabokov attraverso Tolstoj. Ecco per esempio Tolstoj mi dava delle risposte concrete a delle vecchie domande. La prima: come si dilata il tempo in un romanzo? Risposta: ritardando. A questo servono tutte quelle parti in francese in Guerra e Pace (o Moby Dick prima che arrivi Moby Dick): a caricare. Poi ognuno carica a modo suo, bilanciando diversamente i pesi, puntando o meno su un’unica balena gigantesca.

O anche: Cosa può accadere fra due alternative possibili? Risposta: la terza (finale di Anna Karenina: c’è un coleottero che sta marciando su un filo d’erba e Levin si domanda se ce la farà o non ce la farà ad arrivare in fondo. Finché succede questo: il coleottero apre le ali e vola via). Questo è un principio costruttivo che fa la differenza nei libri che mi piacciono: che fra diverse ipotesi si verifichi quella impensata. Si potrebbe chiamarlo il piacere delle cose vive, o che si muovono.

E ancora: È possibile andare oltre queste benedette cose! anche evitando che lo sconfinamento sia di tipo fantastico. A volte basta non scendere alla fermata obbligatoria. Insistere. Prolungare. Mi viene in mente la grande scena di Saint-Simon sulla morte del re Luigi XIV. Sono pagine e pagine di attesa, in cui si freme insieme alla corte che questa morte avvenga e non avviene, e quando finalmente avviene cosa fa il biografo di Sua Maestà? Passa a descrivere l’interno del re, proprio come aveva descritto le sue stanze, i suoi nemici e confidenti, la capacità del suo stomaco e dei suoi intestini. L’esito estremo di una ricerca che interroga ogni cosa, si interessa a tutto, gira e rigira tutti i versi possibili.

Risposte che producono domande. Domande a cui rispondono altri scrittori. Roberto Bolaño con la storia fulminante di Boris Ansky: un ragazzotto di provincia va ad arruolarsi per fare il soldato e in una manciata di minuti scopre che: 1) il nemico è stato già sconfitto 2) che anche il secondo e il terzo e il quarto nemico sono stati sconfitti e lui non ne sapeva niente 3) che la vita da soldato fa schifo e che la morte che gli si prospetta sarà terribile 4) che non vuole piú fare il soldato: ed è in quel preciso momento che gli rilasciano il foglio: è diventato un soldato.

È cosí che si diventa qualcosa, anche scrittori. Credo che valga lo stesso per uomini e donne. E si va avanti, comunque, con le esigenze che si fanno piú complesse: tutti gli scrittori danno qualcosa, ma quelli grandi chiedono, oltre a dare. È come se gridassero: Tu non puoi piú scrivere questo! Ma non sono questioni tecniche, sono questioni sostanziali. Un esempio: gli uccelli. Inizialmente una pensa che per fare un buon passaggio sugli uccelli sia necessario fare una specie di tirocinio sugli uccelli: come fa il merlo, come fa la ghiandaia, cose cosí. Trasporsi in quell’uccello per riuscire a estrarne l’uccellinità, la cifra assoluta. Io mi ero fatta dare un cd da una mia amica con la registrazione dei canti degli uccelli per risolvere una scena en plein air. Poi leggi uno che scrive: Numerose specie differenti di uccellini stavano cinguettando (D.F. Wallace) e capisci che sei rimasta indietro, che il tuo merlo può sempre tornarti utile ma che non potrai piú ignorare quanto sia piú forte la consapevolezza di un canto indistinto, e che la rappresentazione delle cose indistinte è piú difficile ma anche piú interessante, e chiede uno sforzo di tipo diverso: la liberazione dalle gabbie del “si fa cosí” letterario, dalle croste di tutti i libri che hai letto.

Scrivere è difficile. E forse per me anche piú difficile è il confronto con gli altri, che però è fondamentale. Con le persone che leggono e scrivono, piú giovani e meno giovani, con o senza il crisma della notorietà (ho avuto la fortuna di incontrare persone generose, che mi hanno letto e mi hanno dato una scossa: da Maria Corti a Manuela La Ferla, passando per Elena Gianini Belotti, Giuseppe Caliceti, Gabriele Frasca, Rosaria Lo Russo e Massimo Rizzante. Senza di loro sarei piú chiusa in me stessa, piú inceppata e spaventata). Ma anche con i cosiddetti padri (e madri) letterari. Il rumore dei padri è assordante. Per questo ho approntato un panchetto in cui ho disegnato le loro facce, lo tengo sotto alla scrivania e ci appoggio i piedi ogni mattina. Sono tutti lí, presenti e amati. Aiuta la circolazione.

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9 Risposte to “La formazione della scrittrice, 15 / Silvia Cassioli”

  1. Morena Silingardi Says:

    Leggere della formazione di Silvia Cassioli mi ha dato un piacere grande, ho avuto la sensazione di bere una tisana calda in sua compagnia, mentre si parlava fitto fitto di lei, di noi. Non so dire se questi siano piaceri caratterialmente femminili, ma so che il gusto di certi dettagli, lo scrivere di minuzie che a volte preludono drammi interiori (Ken che ha solo il completo da tennis, l’estrarre l’uccellinità degli uccelli perché altrimenti si è impreparate a rappresentarli, e tanto altro) può essere, fra donne, oggetto di disquisizioni e distinguo interessantissimi.
    Ringrazio tutte le scrittrici che ogni settimana mi permettono di dialogare e confrontarmi con loro, rendendomi partecipe di sensazioni spesso condivise. Nulla è più rassicurante del riconoscere un filo comune capace di legare insieme tante ricche diversità.

  2. Maria Luisa Mozzi Says:

    Vorrei avere il tuo sguardo, Silvia. Invidia? Sì, ma buona, commossa.

  3. Paolo Says:

    E’ un articolo, un racconto bellissimo. Lo dico da persona schiva e lenta alla risposta qual sono, anche e soprattutto alle mie stesse domande. Lo dico dal mio passato di passività e non esistenza giovanile (che forse perdura tutt’ora, infranto solo da sporadici, slegati gridi, vagiti), dai miei molto più inconsapevoli, ma formativi viaggi nei classici della letteratura, nei Russi, senza, ahimè, quella stessa premura e attenzione di ritornare sul luogo del delitto per aprire mille altre porte e avere accesso, così, a mille altre opportunità e forme di godimento. Lo dico da umile scrivano della domenica che ha forse il solo vizio di leggere e non riuscire a tacere. Grazie per queste ricche e pregiate testimonianze. Grazie per questi preziosi attimi di esistenza.

  4. Tiziano Says:

    Molto, molto bello questo scritto. Rivela un tormento, una ricerca, un lavorio continuo, il mettersi sempre in discussione. Molto bella anche l’immagine dello scrivere come il riconfigurare in segni gli accadimenti, salvo poi il capire che ci si può solo avvicinare a quanto si voleva effettivamente tradurre in parole. L’idea poi di un panchetto con le immagini degli scrittori più amati (che bello trovare Cechov nella formazione di questa scrittrice!) è formidabile. Credevo di essere l’unico pazzo ad avere come sfondo sul desktop Shakespeare e altri 5 o 6 grandi in modalità random…

  5. Massimo Vaj Says:

    La storia è bella, ma continuo a non comprendere il bisogno di definirsi scrittore, analogo al chiamarsi camminatore per chi vive un instabile equilibrio sulle proprie gambe.

  6. Giulio Mozzi Says:

    Infatti, Massimo, non è un bisogno.

  7. silvia cassioli Says:

    Grazie a Giulio e grazie a tutti per i vostri commenti! Mi fanno molto piacere.

  8. Elena Says:

    Ciao Silvia sono Elena la tua vecchia compagna di scuola ,io non sono ferrata in letteratura o quant’altro ma volevo dirti che quello che ho letto mi è piaciuto ho fatto un viaggio indietro nel tempo e li ho riconosciuto la Silvia di tanto tempo fa, la compagna ideale di classe, che nonostante fosse la più brava non se l’è mai tirata ogni volta che ho chiesto il tuo aiuto non hai mai detto no .Forse quello che ho scritto io non c’entra niente con quello che dici te, ma volevo fare gli auguri più sinceri ad una compagna di classe Buona, gentile, e leale in bocca al lupo per tutto.

  9. Elena Says:

    Salve, complimenti per questo articolo. Bellissimo. Mi sono ritrovata in tante parole…. in particolare nella citazione della Caselli, I cui libri io divorato da ragazzina e che ora divora mia figlia. A proposito… qualcuno mi sa dare notizia di lei? È ancora vivente? Ho provato a cercare ma senza frutto. Eppure è stata una grande scrittrice. Se qualcuno avesse dei dati, mi piacerebbe condividerli. Un saluto a tutti .ELENA

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