La formazione della scrittrice, 13 / Antonella Bukovaz

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di Antonella Bukovaz

[Questo è il tredicesimo articolo di una serie che spero lunga e interessante. Ringrazio Antonella per la disponibilità. Chi volesse proporsi, mi scriva mettendo nell’oggetto le parole “La formazione della scrittrice”. La prossima volta tocca a Sara Loffredi. gm]

Antonella_BukovazRicordo una gita, sarà stato nel 1983 o forse nell’ ’84…
Avevo appena ricominciato a studiare. Gli anni delle Magistrali avevano lasciato un buco intorno al quale frano ancora adesso. Una parente mi indirizzò a un ufficio nel quale, dietro una scrivania ingombra di libri e davanti a un quadro coloratissimo, grande, con forme che nascevano le une dalle altre senza soluzione di continuità, sedeva Pavel Petričič. Mi mostrò due libri uguali. Due libretti sottili che narravano la leggenda della Kraljica Vida illustrati da disegni in bianco e nero. Mi chiese di leggere. A fatica lessi, in dialetto sloveno senza conoscerne la grafia, la prima pagina di uno dei libretti. Con il secondo non mi riuscì. Era la versione in lingua letteraria slovena, della stessa leggenda che alla difficoltà dei grafemi a me sconosciuti univa un lessico altrettanto sconosciuto. Lui mi sorrise, di un sorriso che prometteva una cura per ogni mio smottamento. Mi offrì di rimettermi a studiare e di prepararmi per un grande progetto: la nascita di una scuola bilingue, italiano/sloveno, che per modello didattico sarebbe stata, ed è, unica nel suo genere in Italia. Ma di questo volevo scrivere dopo o forse anche no. Volevo invece cominciare con la gita. Avevo appena iniziato lo studio dello sloveno, lo capivo e parlavo poco. Il recupero della parlata dialettale era però già avviato. Del mio percorso di studio facevano parte le gite d’istruzione che per me erano vere e proprie esplorazioni nel paesaggio e nella cultura slovena. Indelebile nella memoria quella che mi portò a stare seduta su un pavimento di legno nero in una stanza buia. Le pareti, anch’esse nere. Ma forse tenevo solo gli occhi chiusi. Un filo di musica. Una registrazione. Le poesie di Srečko Kosovel che si materializzavano dal nero. Si infilavano sotto di me e mi tenevano sollevata. Era in atto una meraviglia. Da quella casa atterrai stordita. Cercai di mantenere quello stato di stupore il più a lungo possibile. Non avevo mai letto poesia. Cercai Kosovel. Poi, a lungo, più nulla.

Sono cresciuta in una casa senza libri. La forma più alta di cultura con la quale avevo a che fare erano i boschi e una libertà selvaggia irregimentata all’ora dei pasti dai riti di una famiglia patriarcale, alla quale le donne davano un contributo aristocratico fondamentale per la qualità dei miei ricordi. Nonno Šiman, il patriarca, incarnava ai miei occhi la sola cultura necessaria. Classe 1901, emigrò come molti suoi coetanei lasciando il comune più piccolo e più povero e più a est della provincia di Udine. A Buenos Aires lavorò e studiò per alcuni anni. Inviava a un padre sciagurato tutti i guadagni. Tornò giusto in tempo per veder svanire i suoi risparmi, o quello che ne restava, nella depressione degli anni ’30. Portò con sé la lingua spagnola e un rotolo di planimetrie, piani e progetti di case coloniali che aveva disegnato nel suo corso di studi. La Divina Commedia invece non so dove la prese e quando ne imparò lunghi passi a memoria. Succedeva che lungo il sentiero, in fila per uno diretti ai campi con le gerle, ci recitasse un canto. Oppure ci interrogasse in geografia. Materia fondamentale. Niente aveva più importanza ai suoi occhi per la formazione e la crescita e la costruzione della propria cultura, che coincideva con il sapere dove sei e dove vai. Nella mia pagella era l’unica voce alla quale si interessasse. Non brillavo in geografia, perdendo così valore ai suoi occhi e anche ai miei. La domenica risalivamo il crinale della montagna verso la chiesa di Svet Štuoblank. Nonno Šiman saliva disegnando una serpentina per agevolarsi la ripidità, diceva. Una Kundalini geografica che ancora compare al mio salire. Ecco, io di tutto questo suo essere e fare pensavo che originasse dalla Divina Commedia, pensavo che tutto fuoriuscisse dal poco che aveva letto e studiato. Però non mi capacitavo di come questo stesso uomo, con l’aura che gli attribuivo, potesse mantenere l’abitudine di sputare per terra in cucina senza dubbio alcuno che a pulire sarebbero state le donne di casa. Restavo immobile, cercando di individuare, sulle piastrelle in graniglia di marmo lo sputo mimetizzato. Non mi tornavano i conti. Ma tant’è.
Da nonna Olga, la serva-regina, ascoltavo un’unica poesia, però lunghissima, che imparò senza più scordare nei due o forse tre anni di scuola. Non ho frequentato la scuola materna, a casa parlavamo solo dialetto sloveno che poi persi e che poi riacquistai, e quella poesia è stato forse il mio primo contatto con la lingua italiana. Me la recitava guardandomi negli occhi con una cadenza bambina, io mi imbarazzavo sempre un po’ e allo stesso tempo temevo potesse dimenticare le rime che attendevo come fossero caramelle. Per nonna Olga ogni giorno era santo e ogni santo giorno, la sera, dopo cena, recitava il rosario in sloveno. Seduta lei vicino alla stufa e noi sulle panche. Prendeva il rosario, lo baciava, si faceva il segno della croce, abbassava gli occhi e cominciava. Recitava sempre espirando. La sua era una nenia ininterrotta. Non aspettava mai la fine della nostra parte di preghiera, riattaccava sempre prima. Le parole nelle parole. Così c’era questa sovrapposizione di voci che aggiungeva straniamento sonoro alla bellezza delle dita che scorrevano i grani. Tutto si concludeva con un canto, ma la vera chiusa era un piccolo silenzio. Poi, lahko noč.

Da ragazza ho fatto letture casuali, ho cercato di disegnare e di dipingere. Non ho mai tenuto un diario, mai scritto una poesia. Avevo un quaderno dei sogni nel quale scrivevo velocemente senza pensarci troppo altrimenti i sogni si dissolvevano. E più li scrivevo più li ricordavo con precisione. Ne ho una serie in cui compaiono molti animali, deformati, colorati stranamente, sproporzionati. L’unico breve tentativo di scrittura è nato sotto la spinta erotica delle prime relazioni amorose. Cercavo di rendere chiari i desideri che provavo, di renderli più comprensibili. Come se metterli sulla carta li rendesse visibili, li materializzasse e in qualche modo li potenziasse. Era un modo per riappropriarmi dei gesti e dei godimenti. E rileggere era una forma di voyerismo introspettivo.
Tra le letture casuali c’erano i fumetti di Andrea Pazienza e tra i suoi album c’era, c’è, Campofame. Un deliro epico per negare la morte, disegni che portano dentro l’orrore. Ero attratta e respinta allo stesso tempo da quelle immagini, dai mozziconi di testo. Ritrovai dopo molti anni il poema di Robinson Jeffers e scoprii le sue poesie. Moreno, compagno della mia vita, mi raccontò di come ne parlava a Andrea e di come lui si appassionò non solo a Jeffers, ma anche, facendo risuonare gli LP nella campagna toscana, a Blok, Majakovski, Esenin, recitati da Carmelo Bene. Moreno mi lasciava ogni giorno tra le mani un tesoro. Avevo già trent’anni e un gran bisogno di tesori. L’epoca e i lupi di Nadezda Mandel’stam è stato forse il libro che più mi ha avvicinato alla poesia, non solo a quella di Osip Mandel’stam. Le memorie di Nadezda mi avevano riportato la vicenda umana e letteraria di una intera generazione di poeti e il senso di una poesia necessaria e potente. Poesia sottratta ai tempi falcidianti perché imparata a memoria, nascosta nel cuore. Poi i Quattro quartetti, un classico quasi innominabile ormai. Handke il viandante e poi Rilke e il suo sentiero Duinese, mescolati agli sloveni e ai russi in perfetto stile di frontiera. I diari delle viaggiatrici dell’ottocento letti durante le gravidanze (forse nella segreta illusione di insinuare nelle mie figlie l’istinto nomade che è in me così carente)… Ho scritto le prime poesie di notte, dopo aver riaddormentato Sofia che sapevo si sarebbe risvegliata dopo poco. Lo fece per i primi due anni di vita. Io non ho retto così a lungo. Di notte cercavo di dormire ma ormai mi ero messa a scrivere e scrivevo quando capitava, dove capitava. Vivevo quel tempo strano che è proprio della neo mamma fatto di precedenze primarie, istinti primari, stanchezza secondaria. Le prime poesie le inviai a Camillo Pennati ricevendone lodi in stile inconsueto e bizzarro su lettere ornate da collage composto da ritagli di giornale. Le inviai anche a Franco Loi dopo che fu ospite della Stazione di Topolò. Le sostenne con messaggi affettuosi. Fu uno dei pochi poeti che restò con noi in paese un paio di giorni. I poeti, tra i nostri ospiti topolonauti: musicisti, field recorders, video makers, si distinguono per la velocità della fuga dopo la serata a loro dedicata. La prima mattina Loi venne a fare colazione nella mia cucina e quella breve intimità lasciò un piccolo segno. Arature e solchi vari lasciò invece l’incontro con Franco Arminio. Lui dice che sono fosforescente e che le mie sono poesie slovene scritte in italiano. E qui la lingua batte proprio dove duole. Scrivo in italiano perché mi è impossibile abbandonarmi e affidarmi completamente alla lingua slovena seppure materna. È così. E questo mi fa essere rovo della mia terra. Terra che io canto in ogni verso che scrivo, fedele al paesaggio. Mi interessa che la mia scrittura dica dove mi trovo, cosa vedo, cosa ho intorno. Solo così posso trovare la materia per sostenere la geografia che porto tatuata sotto la pianta dei piedi. E forse Šiman ha un po’ di pace.
In questi ultimi anni cerco di approfondire la possibilità per la poesia di accogliere, grazie alla tecnologia elettronica, i rumori del mondo, il sonoro che non sentiamo più, le vibrazioni, l’acustica del quotidiano. Mi affido a Cage perché insiste sulla casualità. Sembra non importargli nulla del contenuto ma in verità, sottraendosi all’intenzione, libera il contenuto affidandolo alla potenza sonora. Assolutamente affascinante. E ora che ci penso è forse un tentativo di ripristinare quello stato di stupore seduta su un pavimento di legno nero in una stanza buia. Le pareti, anch’esse nere. Ma forse tenevo solo gli occhi chiusi.

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5 Risposte to “La formazione della scrittrice, 13 / Antonella Bukovaz”

  1. Bruno Chiaranti Says:

    Quando ascoltai Antonella per la prima volta, la sera che iniziammo il famoso corso “Mitico” del CSS nel 2011, non riuscivo a capire bene di dove fosse, l’italiano perfetto senza inflessioni con un lievissimo ricordo del friulano nel lieve raddoppio di consonanti, ma molto lieve, e vocali con le aperture e chiusure perfette. Era seconda lingua, studiata a fondo e a lungo.”Insegno e scrivo poesie” disse . Poi il nome del luogo veramente mitico, Topolò, fu fatto cadere delicatamente fra noi, come un regalo. “Ah, e suono anche la kalimba” concluse.(In “In C” di Terry Riley, aggiungo doverosamente) .
    Le capitò il mito antico di Dafne , che trattò con suoi brani collegati da cose nuove, nei suoi boschi con caprioli e salamandre. Poi alla fine per il mito moderno scelse Stalin, che impersonò su un suo testo condannando un poeta al gulag, mentre un collega recitava Mandel’stam.
    Improvvisamente avevo ritrovato la poesia. Vent’anni prima l’avevo affrontata di petto con il “Die Maschine” di Georges Perec ma ora non la sentivo più da tempo. Bastò trovare alcune delle ultime cose di Antonella come “Camera ardente”, “Tatuaggi” ed altri pezzi che mi trovai in un mondo poetico inaspettato dove i sentimenti, le cose, le storie appaiono e scompaiono mutando come nel suo sciame quantico, arrivando con una forma per lasciarti con altre ed aver scambiato con te, per quel tempo più breve del tempo di Planck, il ricordo di una vita. La pubblicazione di brani usati nelle sue espressioni multimediali in “Al Limite”, geografico, della vita ma anche in certi punti matematico, e le ultime raccolte come “STO” continuano a darmi da pensare all’origine della sua poesia ed agli influssi su essa della descrizione scientifica del nostro (uni?)verso. Molta della sua natura è anche mia, i pugni dei gelsi, le poiane, i bordi dei prati, ma che sorpresa trovare il nonno che le recitava Dante nella sua infanzia.

  2. ant Says:

    ma…. la foto sul colmo del blog è Topolò/Topolove!!!!

  3. Scrittura creativa: Wild Mind di Natalie Goldberg | Chasing Hygge Says:

    […] sempre a proposito di scrittura, ieri ho letto questo bellissimo pezzo dell’autrice Antonella Bukovaz. Fa parte della serie “La formazione della […]

  4. Giulio Mozzi Says:

    Certo, Antonella. C’è spesso una sottile relazione tra gli articoli di vibrisse e la testata…

  5. Alberto Cellotto Says:

    Questo scritto, oltre ad essere toccante (sulle piante dei nostri piedi), è anche molto importante per qualsiasi persona che scrive e che legge. Grazie.

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