di Valeria Parrella
[Questo è il dodicesimo articolo di una serie che spero lunga e interessante. Ringrazio Valeria per la disponibilità. Chi volesse proporsi, mi scriva mettendo nell’oggetto le parole “La formazione della scrittrice”. La prossima volta tocca ad Antonella Bukovaz. gm]
Di sicuro ricordo che al mio ottavo compleanno mi regalarono un cofanetto di Liala. I titoli che lo componevano erano Lalla, Dormire e non sognare, Lalla che torna. Ricordo di essere rimasta affascinata dall’uso del “che” nel titolo. Mi sembrò una possibilità meravigliosa che in un titolo si potesse mettere il “che” e non solo un sintagma nominale: L’isola del tesoro”, Ventimila leghe sotto i mari, etc. etc.
Di titoli ne facevo assai: giravo per la casa e dicevo, – Il giorno che scriverò un libro si intitolerà -, e poi intitolavo senza scrivere ovviamente, però intitolavo.
Un’altra cosa dell’infanzia che ricordo è che un anno a natale mi avevano assegnato una poesia su Gesù bambino e io non l’avevo imparata. Poi, a una cena tra parenti, a tutti i nipoti fu chiesto di recitarne una e io dovetti improvvisare. Ricordo la fatica e la concentrazione a cercare di baciare le rime, lì, davanti a tutti quanti…
Al liceo scrivevo molto bene e molto rapidamente, così poi i compagni mi passavano sotto il banco i loro temi e io dovevo leggerli, imitarne lo stile e integrarli. Era un allenamento da ghost writer. Infine all’Università (io ho fatto Lettere alla Federico II di Napoli), alla cattedra di lett. Italiana di Mazzacurati ci fu un seminario che titolava “Imparare a scrivere per imparare a leggere”. Ci chiedevano dei piccoli componimenti a tema. I miei se li fotocopiavano tutti, un assistente mi disse: “Ma davvero l’hai scritto tu?”. Allora capii che, anche oltre me, quello che scrivevo funzionava.
Così tentati di inviare un racconto a un concorso indetto da un’agenzia letteraria, Il segnalibro. Mi rispedirono il racconto indietro dicendo che qualcosa c’era, ma non andava certamente bene per la pubblicazione. Quello è stato il primo racconto che ha letto Nicola Lagioia di minimum fax, casa editrice con la quale ho esordito.
31 marzo 2014 alle 12:35
Oltremodo interessante, sto intervento. Specie la parte sulla poesia per Gesù bambino, quasi commovente. Mi sono proprio immedesimato, ma non so in chi.
31 marzo 2014 alle 12:40
: – )
31 marzo 2014 alle 17:35
La professoressa pensava che avessi copiato il tema del mio compagno di banco, mentre era stato lui a copiare il mio, e al prossimo mi spedì in cattedra a scrivere. Sempre mi dicevano che i miei scritti non erano farina del mio sacco e un anno fui rimandato in italiano. In realtà erano ‘farina’ dei tanti libri che leggevo…
31 marzo 2014 alle 21:34
Sapete che c’ero anche io a quel seminario “Imparare a leggere per imparare a scrivere”? Mi ricordo benissimo Valeria Parrella e il suo stile lezioso. Io scrivevo molto meglio 🙂
1 aprile 2014 alle 05:21
Apprezzo sempre questi esercizi di modestia, questi giudizi bene argomentati, ecc.
1 aprile 2014 alle 15:32
Io aspetto ogni libro di Valeria Parrella come si aspetta il Natale e cerco di farmelo durare il più possibile per godere di più.
1 aprile 2014 alle 18:37
Caro Giulio,
ci tengo a spiegare il perché del mio commento.
Non voglio sembrare un rosicone perché lei fa la scrittrice e io no, ma visto che hai apprezzato la modestia, racconterò pubblicamente cosa c’è sotto il mio commento.
Anche se detto in tono forse carico di possibilità di fraintendimento – quello che ho raccontato è un frammento del mio passato.
Ho partecipato a quel seminario.
Mi ricordo che riscrivemmo una novella di Boccaccio. Lei fu bravissima nel mettere insieme parole, nell’evocare stati d’animo eccetera, ma non aveva il dono della “narratrice”. Era una che costruiva le frasi, i periodi. Una che sapeva giocare con le parole.
Siccome mi è sembrato strano leggere di quel seminario, mi è venuto spontaneo scrivere quel commento. Ma non mi sono inventato nulla.
Ricordo anche il nome di uno degli “insegnanti”: Stefano Jossa.
http://it.wikipedia.org/wiki/Stefano_Jossa
E ricordo che la novella di Boccaccio da me riscritta (perduta, mannaggia!) di intitolava “Stephan Joss e lo struttiralismo”
1 aprile 2014 alle 18:56
Sono un’ammiratrice di Valeria Parrella, il cui stile, a dir la verità, non mi pare affatto lezioso. La sua scrittura mi pare alta ed insieme molto viva. Un raro esempio di valore, in mezzo a tanti libri preconfezionati.
3 aprile 2014 alle 06:31
D’accordo, Gianni: tu sei convinto che un certo testo di Valeria Parella, un esercizio di scuola che nessuno di noi conosce né può leggere, fosse meno ben fatto di un certo testo tuo, un altro esercizio di scuola che ugualmente nessuno di noi conosce né può leggere.
Tienti pure la tua convinzione, ma renditi conto che a noi che leggiamo non può risultare non dico condivisibile, ma nemmeno interessante.
3 luglio 2014 alle 16:17
Valeria la ricorderò per sempre. Accettò di presentare il mio primo romanzo. Lo lesse e disse sì. Un sogno. Una delle scrittrici che sognavo di conoscere al mio fianco per dire cose belle del mio libro.
31 luglio 2014 alle 06:05
[…] non lo è. Fate solo un piccolo esercizio. Andate a vedere le “formazioni” di Valeria Parrella e di Teresa Ciabatti, e guardate (basta guardare le etichette, dette anche tag) quali e quanti sono […]