di giuliomozzi
“Buongiorno”.
“Buongiorno”.
“Lei dunque è una scrittrice”.
“Ho scritto e pubblicato un romanzo”.
“La imbarazza la parola scrittrice?”.
“No. Se lei mi avesse detto: Lei dunque è un architetto, le avrei risposto: Sono iscritta all’Ordine degli architetti“.
“Ma lei è architetta?”.
“Architetto. Sono iscritta all’Ordine degli architetti”.
“Non è un mestiere molto femminile”.
“E’ una professione che conserva un certo prestigio, e perciò non è ancora molto femminilizzata. Se preferisce: non è ancora molto femminilizzata, e perciò conserva un certo prestigio”.
“Se la sentisse una femminista…”.
“Sono femminista”.
“Intendevo una femminista storica…”.
“Conosco la storia del femminismo e del movimento delle donne. Lei la conosce?”.
“Veramente…”.
“Torniamo al punto”.
“Certo, certo. Però vede, nel suo romanzo ci sono molti personaggi maschili…”.
“Il mondo è pieno di maschi”.
“Senza dubbio. Però addirittura la voce narrante…”.
“E’ quella di un maschio”.
“Appunto. E’ sorprendente, no?”.
“Per lei”.
“No dico: un lettore apre il libro, sul frontespizio c’è il suo nome, nel momento in cui incontra una prima persona..”.
“…”.
“Mi spiego?”.
“Ha lasciato una frase in sospeso”.
“No, è che viene naturale pensare… No?”.
“Cosa, no?”.
“Insomma, un autore maschio e un io narrante maschio, un autore donna e un io narrante donna. Di solito…”.
“Si tratta di romanzi. Opere di finzione. La finzione investe anche il narratore”.
“Sarà, sarà. Però mi domando come lei…”.
“Apuleio. Flaubert. Yourcenar. Collodi”.
“Eh?”.
“Apuleio ha fatto raccontare una storia – in prima persona – a un uomo diventato asino: eppure, ne siamo certi, Apuleio non è mai stato asino; non ha avuto a disposizione risorse d’esperienza. Flaubert diceva Madame Bovary c’est moi, ma siamo abbastanza sicuri che non fosse – né fisicamente né in altro modo – una donna. Marguerite Yourcenar ha scritto Le memorie di Adriano, e ha pure raccontato come ha fatto a scriverle: studiando e studiando, immaginando e immaginando”.
“E Collodi?”.
“Ha raccontato le avventure di un burattino, senza mai essere stato burattino: anche lui senza risorse d’esperienza”.
“Ma lei che cosa vuole dimostrare?”.
“Niente. Dico solo che è normale, raccontando storie inventate, inventare. Inventare anche magari la voce che racconta”.
“Sì, però, ad esempio, la Jane Austen ha portato un punto di vista nettamente femminile sulla società del suo tempo”.
“Si potrebbe discutere di quanto quel punto di vista femminile fosse in realtà un punto di vista maschile inconsapevolmente (o magari consapevolmente) introiettato. Ma non è questo il punto”.
“No?”.
“Eh no. Nel mio romanzo parla un personaggio che è maschio. Ciò non significa che nel mio romanzo non vi sia un punto di vista femminile”.
“Intende che scegliendo di far parlare una voce maschile lei esprime un punto di vista femminile sui maschi?”.
“Sciocchezze”.
“Perché sciocchezze?”.
“Io non posso non avere un punto di vista femminile perché io sono quello che sono. E da questo punto di vista, che è un dato di fatto consapevolmene assunto, guardo il mondo”.
“Cioè la sua scelta di una voce narrante maschile non è motivata da un’intenzione critica”.
“Io le dico che voglio un pasto completo, e lei capisce che non voglio un secondo piatto”.
“Eh?”.
“Un punto di vista consapevole è un’intenzione critica”.
“E allora”.
“E allora sono felice che esistano opere letterarie scritte da donne, ma sono opere letterarie come tutte le altre. Parlano del mondo, offrono uno sguardo – critico – sul mondo. Quelle scritte dai maschi non sono necessariamente focalizzate sul loro rapporto con le donne, quelle scrite da donne non sono necessariamente focalizzate sul loro rapporto con i maschi”.
“Insomma, secondo lei non esiste uno specifico letterario femminile”.
“Esiste uno specifico letterario maschile?”.
“Be’, storicamente, la letteratura femminile…”
“Esiste una letteratura femminile?”
“Ma per secoli, non faccia finta di niente, le donne non…”.
“Quindi per secoli non è esistita la letteratura, ma una letteratura maschile“.
“Che però, lo ammetta, era tutta la letteratura“.
“Credeva di esserlo. Pretendeva di esserlo”.
“E non lo era?”.
“Guardi: questa dicotomia tra letteratura maschile e letteratura femminile l’ha introdotta lei. Tocca a lei risolvere le aporie che ne derivano”.
“Voglio solo dire che, di fatto, la letteratura è stata quasi esclusivamente una faccenda maschile”.
“Ma per ragioni specificamente letterarie o per altre ragioni?”.
“Perché alle donne non insegnavano a leggere e scrivere”.
“Appunto. Per ragioni non specificamente letterarie”.
“Quindi lei sostiene che, nel momento in cui anche le donne hanno cominciato a produrre opere letterarie, non è cambiato nulla; che le donne non hanno introdotto nella letteratura un punto di vista nuovo; che nulla distingue le opere letterarie scritte da donne dalle opere letterarie scritte da maschi; eccetera”.
“Queste sono le opinioni mie secondo lei”.
“E allora, qual è l’opinione sua?”.
“Che la letteratura esiste. E che la convegnistica accademica sulla letteratura femminile o sullo specifico letterario femminile è una forma garbata di discriminazione”.
Il fotogramma dal film di Godard Masculin, féminin viene da qui.
21 marzo 2014 alle 07:50
@giuliomozzi Ecco la letteratura esiste a prescindere da forma (garbata?) di discriminazione. Estenderei concetto
21 marzo 2014 alle 08:15
Se in una recensione leggo “scrittura tutta al femminile” mi cadono subito le palle e mi astengo dal comprare.
21 marzo 2014 alle 08:36
L’ha ribloggato su Sono Solo Scarabocchie ha commentato:
Apuleio ha fatto raccontare una storia – in prima persona – a un uomo diventato asino: eppure, ne siamo certi, Apuleio non è mai stato asino; non ha avuto a disposizione risorse d’esperienza. Flaubert diceva Madame Bovary c’est moi, ma siamo abbastanza sicuri che non fosse – né fisicamente né in altro modo – una donna. Marguerite Yourcenar ha scritto Le memorie di Adriano, e ha pure raccontato come ha fatto a scriverle: studiando e studiando, immaginando e immaginando”.
“E Collodi?”.
“Ha raccontato le avventure di un burattino, senza mai essere stato burattino: anche lui senza risorse d’esperienza”.
“Ma lei che cosa vuole dimostrare?”.
“Niente. Dico solo che è normale, raccontando storie inventate, inventare. Inventare anche magari la voce che racconta”.
Grazie, Giulio Mozzi.
21 marzo 2014 alle 09:50
Sono dell’opinione che uno specifico femminile non esista in se’, ma si crei, che sia il risultato di una infrastruttura tutta culturale. Del resto il primo giorno di vita puoi vestire azzurro o rosa a seconda del sesso, fin dai primi mesi i tuoi genitori sceglieranno i giochi da regalarti in base al sesso e non a inclinazioni naturali, perfino l’istigazione ai bacetti e alle coccole sara’ molto piu’ accentuata nel caso delle femmine. Con la stessa logica arriviamo a dire che esiste, e’ innegabile, una letteratura femminile (riesco in genere a capire se un libro e’ stato scritto da un maschio o da una femmina fin dalle prime pagine), che pero’ e’ solo il riflesso dell’educazione e dello specifico culturale che una donna e’ pressoche’ costretta a subire. Una vera emancipazione presuppone la possibilita’ di scrivere romanzi in cui nulla possa distinguere il sesso dell’autore.
21 marzo 2014 alle 10:36
Ma perchè dobbiamo distinguere necessariamente tra letteratura al maschile e letteratura al femminile? La letteratura, indipendentemente da chi è prodotta, non necessita di differenziazioni. E’ vero, ci sono sguardi diversi tra scrittori e scrittrici sulle stesse vicende, ma non ne farei una categorizzazione. Ci sono donne che scrivono come uomini e viceversa; questo fa parte della finzione letteraria, come dice la protagonista del racconto. Ma un racconto o romanzo è bello se riesce a stimolare l’empatia del lettore e della lettrice e tutte le altre emozioni che inchiodano alla pagina fino alla fine. Io non sono per le graduatorie e per le differenze. Un libro, se è bello, è bello a prescindere. Ci sono donne che scrivono malissimo, ma anche uomini che farebbero bene a cambiare mestiere. Indifferentemente. In questo credo che madre natura sia sempre molto imparziale, anche nel distribuire in modo indifferenziato i talenti.
21 marzo 2014 alle 11:21
Rinco legge un libro di Virginia Woolf. “Questa sì che ha le palle!”, esclama Rinco.
21 marzo 2014 alle 11:39
“letteratura” è femminile in tutte le lingue?
21 marzo 2014 alle 12:29
Che differenza c’è tra “letteratura al femminile / maschile” e “letteratura femminile / maschile”?
21 marzo 2014 alle 12:39
Forse la letteratura maschile e’ quella scritta esclusivamente da maschi. Una letteratura al maschile puo’ invece essere scritta anche da femmine, ma usando toni, stili e schemi mentali prettamente maschili?
21 marzo 2014 alle 12:55
“letteratura femminile / maschile” dovrebbe riferirsi a letteratura scritta da femmine/maschi in cui è possibile rintracciare una specificità legata al genere o al sesso (non so, onestamente, quale sia il termine da usare) di chi ha scritto.
Questa accezione potrebbe sottintendere che esistono due tipi di letteratura e basta lì. L’altra potrebbe implicare una visione più idealistica: c’è una letteratura “universale” la quale può venire declinata dall’autore che non sa o non può fare a meno di questa operazione (o che vuole espressamente condurla).
Si potrebbe poi leggere la cosa non dalla parte dell’autore ma da quella del pubblico, cioè letteratura destinata al femminile/maschile (e parrebbe che, fissato così il bersaglio, si debba perdere la letteratura a favore di una qualche forma, più o meno colta, di intrattenimento: una letteratura “minore”).
21 marzo 2014 alle 13:00
forse si può raccontare una storia… e che storia? che da un certo punto in poi, tante più donne scrivono letteratura, prima pochissime o nessuna… e qualcosa accade, da allora… una rivoluzione, una apertura, un respiro radicalmente più ampio… si può non sentirlo? si può non raccontare questa storia? penso non si possa…
21 marzo 2014 alle 13:03
E’ una forma garbata di discriminazione, certo. E una partizione grulla. E tuttavia è innegabile che i gusti femminili tendano a concentrarsi su storie che affrontino temi molto intimistici, sentimentali nel senso buono del termine -che raccontano, cioè, precipuamente sentimenti-, e quelli maschili, di gusti, siano piuttosto volti verso storie di azione, di avventura, di conquista. Non lapidatemi. Non parlo della lettrice e del lettore colti, bensì del 90% di coloro i quali comprano tre o quattro libri di narrativa all’anno.
21 marzo 2014 alle 14:11
giulio, c’è un motivo per cui riproponi questo tema?
21 marzo 2014 alle 14:18
Non so se è un motivo comprensibile, manu, ma: è un tema che mi ossessiona (anche perché ci vado a sbattere contro di continuo nel mio lavoro).
E così ci giro intorno: anche con le “Lodi del corpo maschile”, con “La formazione della scrittrice”, e così via.
21 marzo 2014 alle 14:48
C’è uno specifico maschile (o femminile) anche nel gestire un incarico politico?
Mi sembra che le argomentazioni del “pezzo” di Giulio possano essere ripetute in altri ambiti. Mutatis mutandis.
21 marzo 2014 alle 15:19
carlocannella ho una domanda. Scrivi “riesco in genere a capire se un libro e’ stato scritto da un maschio o da una femmina fin dalle prime pagine”. Da cosa lo capisci? Questo dialogo scritto da Mozzi, per esempio, se non sapessi che l’ha scritto Mozzi, da cosa capiresti che l’ha scritto un maschio? (a meno che non sia una di quelle eccezioni che non fanno parte del tuo generale)
21 marzo 2014 alle 15:28
Riporto la mia esperienza di lettore.
Di alcune scrittrici (non dico quali, non è importante in questo discorso) io lettore sento, non so come dire, un’affettazione di femminilità, così è impreciso ma forse comprensibile. Voglio dire: la quintessenza di tutta una serie di stereotipi e luoghi comuni della letteratura e della vita. Questo vale per i classici, come per autrici del nostro tempo. E ciò ha niente a che fare con la “qualità” delle opere; e poi di certi classici è difficile non vedere il valore e la grandezza.
Lo stesso mi accade con certi (qui faccio un esempio, perché meno rischioso: l’emblematico Philip Roth) scrittori che hanno nella gran parte del loro lavoro dispiegato un narratore dentro fino al collo negli stereotipi e nei luoghi comuni maschilizzanti (o maschilisti) più lontani.
Cosa mi succede? Riesco a entrare in contatto con questi scrittori ostentatamente “maschili” e faccio molta fatica, pur avendo presente spesso grandezza e valore, con le scrittrici affettatamente “femminili”. E’ di sicuro un mio limite. E intendo superarlo. Col tempo.
Tutti gli altri autori, sono autori e basta.
Non ho idea di cosa c’entri con lo specifico maschile in letteratura veramente ma, forse, dall’esterno si può dire.
21 marzo 2014 alle 15:33
anche a me il tema un po’ ossessiona e mi dà anche fastidio. ci sono meno libri scritti da donne rispetto a libri scritti da uomini che mi piacciono. è perché le donne hanno scritto meno nella storia? è perché non ne conosco abbastanza? è perché sono prevenuta? (dovrei fare la prova con copertine senza nome) è perché, come scrive Livio Romano, i gusti femminili tendono a concentrarsi su storie che affrontano temi molto intimistici, sentimentali (e non solo su temi, ma su modi di raccontarle)?
21 marzo 2014 alle 15:40
Be’, Monica: però bastano le battute
per capire che il dialoghetto l’ho scritto io.
Si può dire che esistono contenuti più frequenti nei testi scritti da maschi e contenuti più frequenti nei testi scritti da donne.
Carlo, scrivi:
Siamo sicuri? Non è che una vera emancipazione si dà quando “il sesso” (metto le virgolette) dell’autrice o autore si intuisce o non si intuisce, e comunque non è un problema?
Peraltro ci sono tutti i passaggi intermedi. Ad esempio una collana come Astrea di Giunti ha – volendo – i caratteri, contemporaneamente, del luogo di liberazione, della discriminazione positiva e della ghettizzazione.
21 marzo 2014 alle 16:18
Giulio, resto della mia idea perche’, come dicevo sopra, considero la femminilita’ (intendendo tutte quelle caratteristiche che fanno di una persona una donna, ossia stereotipi e luoghi comuni che restano tali perche’ facilmente rilevabili, ossia sensibilita’ orientata all’introspezione, al sentimento e alla compartecipazione al dolore proprio e altrui) il risultato di una cultura e non di una natura. Affrancarsi da una cultura imposta vuol dire appunto emanciparsi.
Monica, cerco di spiegarmi con un esempio, utilizzando autori universalmente noti. Se leggo Allende o Serrano non faccio fatica a capire il sesso di chi scrive. Se leggo Celine o Stefen King nemmeno. Penso che orientativamente la differenza di genere sia deducibile dalle differenze fra questi diversi tipi di scrittura, che sono per l’appunto prodotti culturali, e in quanto tali di genere.
21 marzo 2014 alle 16:42
Ma quanto figo era Jean-Pierre Léaud
21 marzo 2014 alle 16:50
Diciamo: nessuno può sostenere ragionevolmente che a una classe sessuale corrisponda necessariamente un tipo produzione letteraria.
Esistono dei costrutti sociali sulla femminilità e maschilità.
La ricerca descrive questi costrutti delineando un repertorio di stereotipi, per capire come gli individui si rapportano a essi.
Un convegno che sposasse ipotesi essenzialistiche su femminile/maschile/transgender/intersex sarebbe ingenuo, normativo, discriminatorio.
Invece la ricerca sulle condizioni materiali e sui costrutti sociali di genere che ha per oggetto classi sessuali è utile proprio per rimediare alle discriminazioni. Del resto all’estero gli studi di genere esistono da quarant’anni, sono una spinosa novità solo (per chi ha potere) in Italia.
Venendo invece all’interesse di Mozzi per il genere che qua e là affiora, dal mio punto di vista, che poi è quello di Goffman, è assolutamente normale, e anzi dovrebbe essere banale ritenerlo un sapere necessario. Trovo sciatti e infrequentabili gli intellettuali analfabeti su queste questioni, gente che non ha idea di cosa sia un ruolo di genere, un corpo intersex, il genderismo e via dicendo. Goffman scrisse “il genere, e non la religione, è il vero oppio dei popoli”. Lo scrisse nel saggio “The arrangement between the sexes” pubblicato nel 1977.
21 marzo 2014 alle 19:54
Che sia una questione culturale, lo testimoniano le incursioni di svariati autori / autrici canonici nell’immaginario del sesso opposto (e dei vari stati intermedi realizzati culturalmente negli ultimi trent’anni), fino ad assumerne sembianze letterarie. Peraltro, se Kafka è riuscito ad immedesimarsi in uno scarafaggio, le possibilità sono infinite. 😀
21 marzo 2014 alle 23:13
si può raccontare anche questa storia: che prima di arrivare un poco più vicino a noi, nella storia della letteratura, c’è Saffo ed è una rarità, un’esperienza però potentissima, e c’è poi Medea, Fedra… c’è la scrittrice in carne ed ossa, e la sua opera. C’è il fantasma femminile, per così dire, di una letteratura perlopiù “faccenda maschile”, come dice uno dei dialoganti nel post. Quando le donne hanno conquistato, ottenuto, cercato e trovato il loro accesso alla scrittura letteraria (alla scrittura tout court, in qualche caso), hanno innanzitutto così mi pare, portato nella dimensione dell’arte, quindi della letteratura, la loro “vie materielle” (Marguetrite Duras), oltre che la loro “vie spirituelle”, l’una e l’altra intrecciate, non l’una senza l’altra. E questo, forse, ha voluto dire che la bilancia che reggeva su un braccio la visione delle donne (vita, pelle, storia, corpo femminile) e il braccio del “fantasma femminile” ha iniziato a riequilibrarsi. Un intero mondo vagheggiato, “detto”, idealizzato, ha preso la voce. Se poi non solo si è donne, ma anche afroamericane come Toni Morrison, torna alla luce – per esempio in “Amatissima” – non solo la storia delle donne, ma anche la storia degli schiavi. Ossia: il rimosso, il senza voce. Noi non possiamo valutare con suufficiente gioia e stupore anche questo rivolgimento, la profonda bellezza di questa “ricucitura” del cielo…
un altro aspetto interessante : nel dialogo di Giulio, il “buono” e il “cattivo”, l’interlocutore intelligente e attento e quello stolido, sono – mi pare – molto ben nettamente divisi; è dunque un dialogo piuttosto manicheo, e dove si respira una certa aggressività. Lui è gonzo, e lei è incavolata, e fa pesare la sua maggiore cultura e acutezza… lei retoricamente infine “lo schiena”…
21 marzo 2014 alle 23:33
Mi è venuta in mente la famosa vignetta di Peter Steiner: “On the Internet, nobody knows you’re a dog”.
22 marzo 2014 alle 02:09
Io non so se esista questo “specifico femminile”, ma di certo se ne parla spesso presumendo che tutti sappiano che diavolo vuol dire. Del resto, lo diceva bene Gore Vidal – se non ricordo male -: qualunque aggettivo accostato al sostantivo “scrittore” svaluta il sostantivo. E di conseguenza implica un uso sbagliato dell’aggettivo. Forse c’è anche una sorta di contraddizione di fondo: se quella scrittura è femminile ma non di un femminilismo di maniera, allora vuol dire che ci insegna qualcosa di nuovo sul femminile, mettendo in crisi i nostri preconcetti in merito. Il recensore – poniamo – che ne fosse consapevole, si guarderebbe bene in tal caso dall’evocare lo stereotipo della letteratura “rosa”.
22 marzo 2014 alle 09:26
mi permetto modesta osservazione internazionale di lettrice madrelingua russa ed inglese, francese, italiano straniere. Il problema del gender e’ molto popolare ovunque, in letteratura soprattutto… Forse vale distinguere uno stile maschile e femminile non come marchio buono-mediocre o alto-basso, ma che sono diversi e forse puo capitare a un uomo avere uno stile femminile (raro) e vice versa (abbastanza frequente)… per me lo stile femminile si esprime con molti dettagli, attenzione allo stato interno, sensuale, quello maschile invece e’ piu attivo, forse rudo e concreto – definizione molto approssimativa…
Il brano mi e’ piaciuto, lo propongo per discussione ai miei studenti
22 marzo 2014 alle 11:29
egregio giulio, non avevo indovinato che il dialogo l’avesse scritto lei, e leggendolo mi rendevo conto che l’interlocutrice parlava come avrebbe parlato una carissima amica mia.
dovreste proprio conoscervi, voi due.
castellini
22 marzo 2014 alle 11:43
[…] il giorno dopo questo post, Giulio Mozzi ha pubblicato questo interessantissimo dialogo sul suo blog. Non ho la presunzione di pensare di averlo ispirato io, figurarsi, penso piuttosto che la […]
22 marzo 2014 alle 12:31
Son d’accordo con Maryanna. Nell’altro commento avevo assunto il punto di vista del lettore. Ma pure se si guarda la cosa dal punto di vista dell’autore scorgeremmo ictu oculi la medesima macrodifferenza, e senza addentrarci in complesse questioni di genderismo. Prendo due scrittrici molto popolari e, secondo me, molto brave, Catherine Dunne e Katherine Pancol, scrittrici non di genere. Ebbene, i loro libri, pur densi di avventure e azione, provano come sanno a parlare soprattutto di automatismi e dinamiche specificamente femminili. Cosa che non avviene, per dire, in O’Connor (Joseph) o Hornby, parimenti popolari e abili.
22 marzo 2014 alle 13:17
GiusCo, però non si può nemmeno ridurre il genere a una questione culturale, c’è anche un aspetto naturale, che con linguaggio di tipo psicoanalitico chiamano “legge interiore” e con linguaggio da scienza empirica chiamano “bias”, scritta nell’individuo. Questo bias, contrariamente al pregiudizio comune, non ha necessariamente una corrispondenza col corpo sessuato, né, quando anche ci sia questa corrispondenza, può essere ridotto a dei parametri rigidi. In questo caso il principio d’ordine che si utilizza non è per concetti intesi come contenitori con certe proprietà, ma si osserva una varianza rappresentabile come spettro. Quindi c’è da un lato l’identità di genere scritta dentro di noi, e dall’altro degli stereotipi sociali (che nel pregiudizio comune sono naturalizzati). L’espressione dell’identità di genere è il risultato di un match tra natura individuale e cultura.
Chiaramente si possono anche utilizzare concetti (cioè scatole con proprietà) in cui dividere nettamente per classi sessuali. Però bisogna essere consapevoli che costruiamo una tassonomia “discreta” che non riflette pienamente la realtà, è soltanto pragmatica. La costruiamo in quando serve a qualcosa. Quindi dobbiamo chiederci ogni volta che produciamo una tassonomia discreta se davvero serve (e porci il problema etico se sia oppressiva).
Serve a qualcosa distinguere tra letteratura in stile femminile e stile maschile?
Forse rafforza un pregiudizio.
Serve a qualcosa distinguere all’interno della produzione teologica dell’antichità le opere scritte da donne?
Forse combatte un pregiudizio.
22 marzo 2014 alle 14:09
@ livio r. quali sarebbero gli automatismi e le dinamiche “specificamente” femminili? (sopratutto gli automatismi – non capisco); mi interesserebbe saperlo anche a partire dai testi… grazie
22 marzo 2014 alle 14:09
Giulio, in che senso è un tema che ti ossessiona? Qual è il tema?
22 marzo 2014 alle 14:42
Scrittore e scrittrice parlano. E noi registriamo. Poi – grazie a una qualche tecnologia non ancora inventata – abbassiamo l’altezza della voce femminile di un’ottava circa, senza perdita di verisimiglianza sonora. Oppure portiamo un’ottava sopra l’altra. Ora la distinzione verte sul tono. Ci sono particolari specificamente maschili e femminili nel tono?
Forse in letteratura è questo che resta (di là dai contenuti ovviamente).
22 marzo 2014 alle 14:59
Andrea: Aspetto naturale e questione culturale sono componenti dibattute dall’universo femminile da almeno due secoli. A Lou Salome’, ad esempio, che rivendicava una specificita’ tutta femminile, una interezza femminile contrapposta a una frammentarieta’ maschile, si oppose Emma Goldman, per la quale “bisognerà farla finita con l’assurda concezione del dualismo dei sessi, secondo cui l’uomo e la donna rappresentano due mondi agnostici”. Propendo per l’interpretazione della Goldman.
22 marzo 2014 alle 15:08
Oh Daniele. Faccio due esempi. Ammesso che abbia colto la tua metafora. Per me la voce di Angela Carter è terribilmente fonda, scura, e anche Alda Merini – com’era “spaventosamente” e meravigliosamente cavernosa la sua “voce”. Mi par di ricordare: un reading di Alda e di Zeichen. Le ottave “su” erano tutte di Valentino. A un certo punto, Alda gli ha detto: non sei male come poeta ma leggi da cani: dammi qua una tua poesia. E la terra, per così dire, o forse meglio il suolo, ha tremato. Eravamo in silenzio. c’era Pitone, e la Pizia, insieme.
22 marzo 2014 alle 16:00
Tale Bianca commenta un libro di Pamuk, in Internette: “Il libro? Bellerrimo. Immagino che noi donne lo possiamo apprezzare meglio, essendo sentimentali di DNA”. Ecco, appunto!
22 marzo 2014 alle 16:12
Ciao Enrico. Sì, anch’io ho presente la voce di Angela Carter come oscura, profonda; di Alda Merini non ho un ricordo vivo della voce parlata, ma ho ben presente la voce scritta. In realtà non volevo suggerire una qualche interdipendenza tra voce scritta e parlata. A volte capita di conoscere scrittori senza poterli (ri)conoscere, con tutto lo straniamento del caso: parlano come mangiano forse, e non come scrivono. Per dire, pure la voce cantata in certi casi, differisce e molto dal parlato (mi viene in mente, esempio peregrino, quel Luca Laurenti, non ricordo ora conduttore di quale trasmissione, che, una volta m’è capitato di sentire, ha una voce bella e del tutto differente da quella parlata, nel canto la nasalità viene meno la voce risuona altrove). La voce scritta, forse, è un tentativo di idealizzazione della propria voce naturale.
22 marzo 2014 alle 18:37
Come sempre ho trovato la sollecitazione di Giulio Mozzi piacevolmente ironica e stimolante, poi come sempre tra i commenti e le citazioni mi sono persa, forse perchè attentano alle mie convinzioni che non sono intellettuali ma emotive. Per quanto se ne parli e se ne scriva la conclusione è solo una e basta dare un’occhiata alla letteratura: le donne hanno cominciato a scrivere tardi per ovvi motivi. E’ chiaro che oggi le categorie passato/presente sono diverse, un po’ come la faccenda della rappresentanza di genere discussa in parlamento: non solo non ha senso, ma è offensiva. In politica dovrebbe essere sufficiente la distinzione tra capaci e incapaci. E’ tuttavia irritante leggere un commento che dice “Se in una recensione leggo “scrittura tutta al femminile” mi cadono subito le palle e mi astengo dal comprare”, (Luan) perchè la scrittura al femminile esiste e meno male! Poi un libro può essere bello o brutto. Esiste uno specifico della dimensione femminile che niente ha a che fare col femminismo,almeno non più, non a caso sono due uomini ad aver scritto di due donne le pagine tra le più belle, Flaubert e Tolstoj.
Non so se l’esordio del dialogo “la imbarazza la parola scrittrice” sia legato alla provocazione successiva maschile/femminile. Una donna può assumere voce narrante maschile senza dover scrivere un romanzo d’azione e può farlo meglio, oggi, secondo me, di un uomo che faccia altrettanto (almeno non mi sovvengono esempi degni di nota).
Io ho scritto un romanzo di “genere” in cui i personaggi maschili rimanevano sullo sfondo, ma non ho inventato niente, se mai ho cercato le parole per descrivere stati d’animo e reazioni diverse che sono frequenti nella vita, perchè ci sono anche i libri che assomigliano alla vita. Si può fare bene o male, e questo è un’altra cosa.
Come scrisse George Duby nell’introduzione alla Storia delle donne in Occidente :“per molto tempo le donne sono state lasciate nell’ombra della storia. Poi hanno cominciato ad uscirne”* (..) Le donne sono rappresentate prima di essere descritte o raccontate, molto prima che parlino esse stesse”
23 marzo 2014 alle 08:50
Daniela: “La scrittura al femminile esiste”, dici. Ma come si fa a riconoscerla? Quali sono i tratti che la distinguono dalla “scrittura non al femminile”? Come faccio, dato un testo adespota, a capire se è “scrittura al femminile” o no?
Andrea, scrivi.
Le due domande a me sembrano irrelate. La distinzione tra “letteratura in stile femminile” e “letteratura in stile maschile” prende in considerazione, appunto, lo “stile” (direi: lo “stile di scrittura”): cioè è separata dalla presa in considerazione del contenuto.
La distinzione tra la produzione teologica dei maschi e la produzione teologica delle donne è una distinzione che non separa contenuto, stile argomentativo e stile di scrittura.
[Per la prima domanda tua: storicamente, e con ben poche eccezioni, la distinzione tra “letteratura per donne” (altra cosa dalla letteratura prodotta dalle donne) e “letteratura assoluta” è fondata sul pregiudizio ed è servita (serve ancora) alla discriminazione. Già questo è un pessimo indizio.]
La mia domanda è: ha senso – ovvero: ha un fondamento materiale, rinvenibile con l’analisi delle scritture – sostenere che, a prescindere dai contenuti, i maschi scrivono diversamente dalle donne?
Nel momento in cui si trovi che non ha senso, abbiamo combattuto un pregiudizio.
Nel momento in cui si trovi che ha senso, abbiamo ugualmente combattuto un pregiudizio.
23 marzo 2014 alle 11:55
… si tratta, Giulio, di un interessante problema ermeneutico. Come un rebus. Arriva sulla tua scrivania un misterioso manoscritto adespota. Lo leggi. Ipotizzi che… sia un maschio, sia una femmina, sia un autore del tal secolo, anzi che abbia scritto nel tal anno, probabilmente, proveniente dall’Italia del Sud ecc. Per “indovinare” metti in campo una serie cangiante di categorie. Romanzo “sentimentale”: donna. No, mi sa che non funziona. Descrizione realistica e assolutamente fedele, “dall’interno” per così dire, di una gravidanza… mmmm… chissà…
Al riguardo, a me è venuta in mente Colette, e la serie delle “Claudine”, che il marito di Gabrielle-Sidonie C. pubblica firmando “Willy”: nessuno se ne accorge…
23 marzo 2014 alle 12:10
Oh oh. Commento mio precedente un poco fuori fuoco. Parlavi, Giulio, non dei contenuti ma del modo di scrivere (se l’estensore del ms adespota scrive a penna o matita, però… mi pare che una “grafica” femminile e una maschile possano darsi, in taluni casi: chiedo consiglio a qualche grafologo…). Qui un sostenere l’indifferenziato unisex mi pare un po’ più sostenibile, senza grandi questioni.
23 marzo 2014 alle 16:31
Mi è venuto in mente adesso. Ho avuto una passione letteraria per le opere di Elisabetta Rasy. E credo che il primo pensiero, mentre leggicchiavo il suo libro L’estranea, nella Rizzoli della Galleria del Duomo, a Milano, davvero, non sto inventando, se non il primo pensiero il secondo, sia stato “ma scrive proprio come un uomo!”.
Evidentemente non era un giudizio di valore, era solamente un’impressione forte, abbastanza straniante, di un lettore qualunque.
Credo, ci metterei un dito sul fuoco, non la mano, che il centro di tutto sia, nel caso della Rasy, un certo modo di usare gli avverbi. Vistoso, direi, e in qualche modo assimilabile, per me lettore, ad una manifestazione di forza. Non ho qui i libri della Rasy, e in rete non trovo praticamente nulla (strano). L’impressione è autentica. Quanto ci sia di testuale ora non saprei.
Gli avverbi, comunque, la forza degli avverbi.
Per me lettore. Gli altri non saprei.
23 marzo 2014 alle 18:16
“Ma in che cosa si identifica un autore? Negli avverbi, naturalmente” (U. Eco, citato a memoria, dalle Postille al Nome della rosa).
23 marzo 2014 alle 19:25
Volevo proporre un esercizio – forse Maryanna potrebbe raccogliere, o Giulio, o altri: a una classe si sottopone il brano di uno scrittore o scrittrice “minore”, poco letto, senza svelarne identità e sesso, e si chiede agli allievi di ipotizzare, a partire da elementi stilistici (o anche di “contenuto”?), di indovinare l’identità di genere dell’autore, e vedere cosa succede.
23 marzo 2014 alle 19:40
Già, e a me piacerebbe poter dare un riscontro testuale di questa mia impressione. Ma Elisabetta Rasy – cerco – è in rete quasi una sconosciuta. Trovo in compenso quest’incipit del Seno, di Philip Roth:
La forza degli avverbi è palese.
A me pare qualche cosa di “maschile”.
Ovviamente non è il testo ad essere così e cosà, sono io ad interpretare il testo così e cosà, in sintonia coi così e cosà culturali.
Mi sento molto scientifico oggi.
23 marzo 2014 alle 22:24
Anni Settanta. Harlan Ellison, nell’introduzione alla storia di James Tiptree Jr. nell’antologia Again Dangerous Visions: se quest’anno per qualità delle storie Kate Wilhelm è la donna da battere, la palma fra i maschi non può andare che a James Tiptree Jr.
1975: Robert Silverberg, nell’introduzione alla raccolta di racconti di Tiptree Warm Worlds and Otherwise: It has been suggested that Tiptree is female, a theory that I find absurd, for there is to me something ineluctably masculine about Tiptree’s writing.
James Tiptree Jr., naturalmente, si chiamava in realtà Alice Sheldon (e nel 1991 è stato creato il Tiptree Award, premio annuale per quelle opere di letteratura fantastica che espandono o esplorano la comprensione delle tematiche di genere).
Direi che quando attribuiamo un testo ad uno scrittore di sesso maschile o femminile tendiamo a ricostruire il punto di vista della narrazione a partire da indizi contenutistici che a volte possono riflettere nostri stereotipi (guerra, matematica= maschio, shopping, maternità=femmina) altre volte aspettative più ragionevoli e casomai poi razionalizziamo a ritroso.
Mi sembra asurdo fare generalizzazioni sul piano dello stile, perché di stili ce ne sono molti e di autori che si assomigliano o si prendono a modello anche attraverso le barriere di genere pure.
Mi sembra però che di solito lo stile considerato più maschile è quello minimalista, che sfronda gli avverbi e buona parte degli aggettivi – i maschi sono diretti al punto con pochi fronzoli, senza giri di parole (Hemingway docet) mentre la presenza di avverbi è caratteristica del linguaggio manierato di chi vista la posizione meno indipendente, magari non può essere così brusco (vedi Jane Austen).
23 marzo 2014 alle 22:40
Marco, se è
allora è assurdo dire che
Tra l’altro, non è così.
L’incipit del primo racconto di Carver capitato a tiro:
(da “Vuoi star zitta per favore?”Minimum Fax; il nome del traduttore non è riportato, probabilmente Francesco Durante).
Il primo incipit austeniano capitato a tiro:
(Jane Austen, Ragione e sentimento, Newton & Compton, traduzione di Pietro Meneghelli)
24 marzo 2014 alle 08:07
Tipo Gadda, Arbasino, GB Marino, Rabelais…
Direi che il senso comune qui ci prende poco.
Ah: in vita mia ho vinto due primi premi in concorsi di scrittura riservati a donne. (Ricevuta la notizia, entrambe le volte ho svelato la cosa e mi sono ritirato). (Perché l’ho fatto? Eh, perché già a quei tempi – la prima volta fu nel 1994 – mi domandavo…).
24 marzo 2014 alle 11:14
http://lapeperini.wordpress.com/2014/03/24/le-quote-rosa-di-loredana-lipperini/
24 marzo 2014 alle 11:16
… mi sa, in realtà, che anche tu come scrittore Giulio sei un devoto del mito di Diotima nel Simposio, che ipotizza l’ermafrodito originario…
24 marzo 2014 alle 12:14
meraviglioso il ritmo.
24 marzo 2014 alle 12:30
Posseggo 2347 libri.
Di questi, l’86% sono stati scritti da maschi, il 14% da femmine (percentuali arrotondate).
Dell’86% maschile, il 12% è stato scritto da presunti omosessuali, il restante 88% da presunti eterosessuali.
Tra gli eterosessuali il 91% è stato sposato almeno una volta, tra gli omosessuali lo 0%; ma il 3% degli omosessuali ha avuto un compagno per un periodo di tempo piuttosto lungo, rendendo la sua unione paragonabile a un matrimonio.
Il 76% dei maschi che hanno scritto i libri che ho a casa son morti, il 33% son vivi, uno in questo momento mi sfugge, ma gli auguro di essere vivo.
Del 14% femminile, il 91% dei libri son stati scritti da presunte eterosessuali, il 9% da presunte non eterosessuali. Nel 3% dei casi son stati scritti utilizzando un nome maschile.
Il 3% dei libri scritti da maschi sono stati prestati (75% a lettori maschi, 25% a lettori femmine) e mai più restituiti, pertanto non presterò mai più un libro, né a maschi né a femmine.
Il punto è che per equilibrare la mia libreria dovrei comperare 1686 libri scritti da femmine senza comperarne altri scritti da maschi, il che non succederà mai. Ciò mi rende molto maschilista e comunque la notte dormo abbastanza bene lo stesso.
(Percentuali soggette a errori, anche non del tutto trascurabili).
24 marzo 2014 alle 13:18
Un viriloide “esprit de géométrie”, Griffi!
24 marzo 2014 alle 17:14
Io parlo di discorsi – quasi chiacchiere da bar – sentiti o letti in giro, ma più di una volta; naturalmente solo quando si parla di poli opposti definiti in senso autistico, scritture al 100% maschili o femminili, quindi Hemingway vero uomo corrida boxe guerra scrive così, Gadda omosessualità paturnie varie paura di vivere potrà anche scrivere cosà, che ti aspetti 😉
La scrittura della Austen è piena di avverbi:
It is a truth universally acknowledged/However little known/truth is so well fixed – dalle prime righe di Pride and Prejudice. In particolare li usa spesso come intensificatori di aggettivi – quando, secondo le regole dello show and tell sarebbero più superflui – e soprattutto nei dialoghi. E’ cosa diversa dall’uso di avverbi come somewhere o sometimes per dare un senso di indeterminatezza alla narrazione.
A me interesserebbe un discorso sulla diversa ricezione e i diversi giudizi di valore relativamente a combinazioni di stile e contenuto quando si conosce o meno il genere dell’autore. Perché di Gadda, Rabelais, o Lezama Lima diciamo che sono barocchi; Mary Butts o Dorothy Richardson, invece, sono sfocate e leziose. Clarice Lispector per fortuna ha un viso che si vende bene sulle copertine ma di Djuna Barnes salviamo Nightwood giusto perché ne ha scritto l’introduzione Eliot e ignoriamo l’esistenza di Ryder.
Non parliamo poi di Marguerite Young, che in Miss Mackintosh My Darling ha scritto 1500 pagine di fughe oniriche , metafore intricate, pleonasmi, neologismi, frasi che attraversano parecchie pagine, centinaia di personaggi.
E’ una fortuna che opere simili non rischino di essere tradotte; chissà mai turbassero i sonni di Griffi.
Ma ci piacciono le donne che scrivono come Alice Munro. Ne basta una però, che poche settimane fa è morta Mavis Gallant e nessuno se n’è accorto.
Due o tre anni fa il sito di germanistica.net aveva chiesto ai commenatori di indicare indicare autori e opere per un bookclub. Quando ho postato io l’unica donna pervenuta (con parecchi voti) era Christa Wolf.
Non Ingeborg Bachmann, non i due più recenti premi Nobel in lingua tedesca, non una delle tante autrici che hanno vinto negli ultimi anni i principali premi nazionali (Mora, Gaponenko, Martynova, Levitscharoff, Poschmann, Hoppe)
Come mai ogni movimento, scena, riquadro, frattale, microcanone, tende a scomporsi in cellule di diversi uomini (molti dei quali spesso non indispensabili) e una, massimo due token women, “vestali” o “sibille”?
Io non so quali siano le mie precentuali; so che da molto tempo leggo 50/50 e sono molto soddisfatto.
24 marzo 2014 alle 18:09
Marco, semplicemente non è vero che “la presenza di avverbi è caratteristica del linguaggio manierato”. Da com’è scritto il commento sembrava che ne fossi convinto anche tu.
Ad ogni modo dici poi una cosa completamente diversa. Che ci sono avverbi “intensificatori di aggettivi” (Austen) e avverbi “per dare un senso di indeterminatezza” (Carver).
Non mi pare sia proprio così. Non qui per lo meno. A esempio nelle prime sette righe dell’incipit austeniano si legge:.
“si era stabilita nel Sussex da molto tempo”
“per molte generazioni avevano vissuto in modo tanto rispettabile”
“aveva raggiunto un’età molto avanzata, e che per molti anni”
Poi, il refuso, o lapsus “secondo le regole dello show and tell”. Ecco, sì, così. “Show and tell”. Questo può essere un buon suggerimento. Mostra e non raccontare è un suggerimento superfluo, al confine con l’inutilità. (Se poi adoperato come grimaldello teorico a commento di un classico… Umpf).
Il resto mi pare un’ammucchiata di frasette un poco affrettate (“Clarice Lispector per fortuna ha un viso che si vende bene sulle copertine”).
24 marzo 2014 alle 19:55
Marco: niente, che riguardi la letteratura, potrà mai turbare i miei sonni.
24 marzo 2014 alle 20:26
Mi sembra ovvio e banale che quanto più cresca la frequenza relativa di aggettivi ed avverbi rispetto a verbi e sostantivi tanto meno il testo sia diretto.
N-V-N è una frase secca. Adv-Ag-Ag-N-V-Adv-Ag-N lo è meno, e viene percepita come manierata. Nulla di strano.
Il fatto che in Jane Austen vi sia una presenza di avverbi superiore alla media è provato dalle analisi statistiche del suo corpus.
Avverbi o locuzioni avverbiali di tempo, luogo, durata hanno comunque una funzione specifica più difficile da sostituire e saltano meno all’occhio. Gli avverbi che modificano gli aggettivi tendono ad essere percepiti come enfatici e alla lunga ridondanti p.e. “wakefully aware” – dove wakefully non aggiunge nulla ad aware – l’accentuazione di significato che portano potrebbe espressa in maniera indiretta (e da qui il riferimento allo show don’t tell – naturalmente uno può mostrare, raccontare, mostrare/raccontare, ma dovrebbe rendersi conto che ogni scelta produce effetti diversi).
Il resto, in sintesi: siamo davvero sicuri che oggi (non in quel passato in cui erano poche le donne scrittrici) i meccanismi che selezionano esposizione, opportunità, attenzione critica siano neutri rispetto al genere? Io penso di no.
24 marzo 2014 alle 22:05
Marco, stranamente
Sarebbe bene fare affermazioni controllabili. Quali “analisi statistiche”? (Secondariamente: che senso ha dire “superiore alla media”? Di quale media stiamo parlando?)
Scrivi:
Testo A: “Marco, questo ti sembra diretto? Prova a contare gli avverbi e gli aggettivi… Ti pare un testo schietto che va al cuore del lettore (di Vibrisse)?”
Testo B: “Ma onestamente, io che son la persona più tenacemente schietta, diretta sulla faccia di questa nobile Terra, posso francamente dirti: sono fregnacce”.
Tra Testo A e Testo B, quale il più “diretto”?
manierato agg. [der. di maniera]. –
1. Di artista o scrittore che fonda la sua opera sull’imitazione di modelli o sulla tradizione, risultando quindi convenzionale e privo di originalità; anche delle opere artistiche così eseguite: scrittore, pittore m.; pittura, scultura, poesia m.; versi m.; anche sostantivato, con valore neutro: in questo quadro, in quel lavoro c’è molto di manierato. (da Il Treccani)
Uno scrittore che imita spudoratamente un altro scrittore, famoso per la concisione delle frasi, risulta ad un orecchio bene addestrato manierato.
25 marzo 2014 alle 11:36
1- Io mi baso su considerazioni di una mia vecchia professoressa dell’università che aveva fatto analisi stilistiche sulla Austen (ma anche, peraltro, su Wordsworth e Coleridge) su articoli letti in vari momenti che sottolineano l’uso degli avverbi nella Austen e sulle mie impressioni dei romanzi. La Austen è uno degli autori più studiati proprio dal punto di vista dell’analisi delle ricorrenze dei termini. Non pensavo di dovermi giustificare come di fronte ad una commissione d’esame e non ho saggi pronti; sarei tentato di dire, se non ci credi, vai e fai il conto (sui sei romanzi però, non sugli incipit).
– (Non mi pare di aver mai detto di voler essere, io, diretto e spontaneo, o di apprezzare queste virtù a priori, peraltro. Fatte bene, mi piacciono molto le circonvoluzioni, e schietto non deve essere alibi per sciatto).
2 – Diretto si intende rispetto al grado zero della frase, quello che salvaguarda il focus, cioè la nuova informazione che essa porta.
Il nucleo di significato del testo B è “sono fregnacce” o “penso che siano fregnacce”. Tutto il resto non dice nulla.
“Onestamente posso dirti che sono fregnacce” suona ancora normale; la frase che hai scritto tu è un overkill, in cui tenacemente schietta e francamente sono semplici ripetizioni;chi parla risulta enfatico e pomposo. Al di fuori dei dialoghi, in cui può servire come tic specifico per caratterizzare un personaggio (ma non, si spera, tutti) questo modo di gonfiare le frasi decresce l’efficacia degli avverbi stessi (ad un onestamente ci puoi credere, ma non se a breve distanza poi trovi francamente e schiettamente ) e dà la sensazione di
manierato
2. ricercato, affettato, privo di spontaneità nei modi e nelle espressioni, lezioso.
25 marzo 2014 alle 14:26
Marco:
1.
Come è ovvio, non esiste un grado zero, nel senso in cui tu lo intendi: un nucleo di significato da complicare nei gradi a salire. C’è la frase. (“Osservò il cielo” non è il grado zero di “Osservò il cielo limpido e freddo”; sono due frasi distinte.) La ridondanza poi è ancora un’altra cosa.
2.
Il ventiquattro marzo scrivevi:
Ho domandato: ma quali “analisi statistiche”? Quale media (e cioè, ha senso riferirsi ad una media)?
Mi parli vagamente di un’anonima ex professoressa dell’università, non riporti nulla a supporto, e poi, perla, “se non ci credi, vai e fai il conto (sui sei romanzi però, non sugli incipit).” E dimentichi persino, ohibò, il corpus dell’intera letteratura (altrimenti come faccio a determinare la “media”? 🙂 )
Insomma: dici una cosa strana, a richiesta svicoli e, per finire, dovrei essere io a dimostrare la tua stramba tesi.
3.
Il ventitré marzo scrivevi:
.
Nota: se scrivi “manierato”, l’interlocutore considera legittimamente l’accezione più pertinente rispetto al contesto. “Di artista o scrittore che fonda la sua opera sull’imitazione di modelli etc”, piuttosto che “Riferito a persona, ricercato, affettato”. Era un modo per fartelo notare. Non hai colto. Pazienza.
4.
Nessuno, infatti, ha sostenuto niente del genere.
25 marzo 2014 alle 14:48
Marco: non si tratta di “giustificarsi come davanti a una commissione d’esame”. Ad esempio, se dici il nome della professoressa in questione, chiunque sia incuriosito dalla faccenda potrà fare una ricerca bibliografica (e Daniele – dm – sarà il primo a farla).
Se esistono già degli studi, perché rifarli? Se c’è qualcuno che ha già contato gli avverbi dei romanzi della Austen ecc., perché mai dovremmo rifare il lavoro daccapo?
Poi: discutere usando espressioni come “superiore / inferiore alla media”, “grado zero”, “maniera / manierato”, “diretto”, eccetera, conduce quasi inevitabilmente al problema di mettersi d’accordo sul significato delle parole.
Per non finire a ditate negli occhi si può, quantomeno, riconoscere l’indeterminatezza di queste espressioni.
25 marzo 2014 alle 15:30
Vero, dietro al disappunto sono curioso.
25 marzo 2014 alle 15:48
1 Dal punto di vista della linguistica Il focus è la parte della frase che aggiunge informazione totalmente nuova o non derivabile rispetto a quanto detto in precedenza.
http://en.wikipedia.org/wiki/Focus_%28linguistics%29
Anche avverbi e aggettivi possono portare nuova informazione. Tuttavia, se dico: “Era una splendida giornata di marzo.Luca guardò il cielo chiaro e limpido” chiaro e limpido sono superflui, perché già implicati in una splendida giornata di marzo.
Gli avverbi in -mente (o -ly in inglese) in particolare sono malvisti perché spesso la modulazione di significato che apportano è inutile (corse velocemente attraverso il giardino) – serve a sottolineare un tono che dovrebbe essere evidente dal testo (“asked confusedly” Replied sarcastically”) e potrebbe quasi sempre venire espressa in maniera indiretta. Gli intensificatori (very, really) decrescono di efficacia quanto più spesso sono usati, e così via.
2 Non credevo di dire nulla di strano e non ho ovviamente tempo e voglia per cercare saggi specifici tuttavia googlando ho trovato qualcuno che ha fatto una ricerca usando un software disponibile online:
http://pagesandlights.wordpress.com/tag/jane-austen/
Il secondo articolo – primo dall’alto – paragona la Austen con scrittori suoi contemporanei. La conclusione: “At this point, I think we have at least a preliminary answer to our question: the prevalence of adverbs and so forth in Austen’s works is indeed characteristic of Austen herself, rather than her period or genre.”
3 se l’interlocutore considera che nella frase originaria manierato era in opposizione a “con pochi fronzoli, senza giri di parole” e “brusco” non credo avrà problemi a capire qual’era l’accezione di significato selezionata dal contesto.
25 marzo 2014 alle 16:11
Oh non avevo letto la risposta di Mozzi, la professoressa si chiamava Joanne Clegg, gli studi peraltro erano al livello di articoli non libri. Le analisi quantitative col giusto software e know-how possono comunque essere riprodotte facilmente da chiunque. Il software di cui all’articolo linkato analizza le variazioni nel vocabolario rispetto alla media su 818 libri del periodo 1780-1859.
25 marzo 2014 alle 16:14
Forse Jeanne…
Senz’altro. Così come chiunque può controllare una citazione da un libro, se va a leggerselo tutto: però è una cortesia fornire il numero di pagina. Ecc.
25 marzo 2014 alle 16:17
Era una splendida giornata di Novembre. Rinco guardava il cielo color del piombo; il suo preferito.
25 marzo 2014 alle 16:20
Sì Jeanne
25 marzo 2014 alle 16:39
Il fatto è che si tratta di una cosa così ripetuta (Jane Austen e gli avverbi) e per un certo verso data per scontata che non ritenevo di doverla difendere in maniera particolare. D’ora in poi starò bene attento; non mi azzarderò mai a dire, ad esempio che Hemingway è più parattattico di Proust, visto che non ho studi specifici, solo ricordi di lettura e idee ricevute, prima di aver sottomano una cospicua serie di saggi sui rispettivi stili.
25 marzo 2014 alle 16:53
Per esempio così?
25 marzo 2014 alle 17:42
Uff.
1.
Ovviamente, fai un esempio di ridondanza. Ma io ti ho scritto “La ridondanza poi è ancora un’altra cosa.” Ovvero: tolto il superfluo delle cose superflue, ragionare sul “grado zero” porta a conclusioni al limite dell’insensato. Una frase complicata a partire dal suo presunto “grado zero”, è un’altra frase: stabilire imparentamenti e gerarchie è fuor di logica.
Inoltre, scrivi “Gli avverbi in -mente (o -ly in inglese) in particolare sono malvisti”? Malvisti? Ma chi è che malvede?
2.
Nella sua prima formulazione (commento del ventiquattro marzo) la tesi era:
Altra cosa è dire, a esempio: “Il fatto che in Jane Austen vi sia una presenza di avverbi superiore rispetto alla media su 818 libri del periodo 1780-1859 è provato dalle analisi statistiche del suo corpus.”
Così si evita di credere che si possa paragonare l’opera della Austen, sul piano dell’analisi, con tutta la letteratura scritta. Magari in periodi e lingue diversi. Inoltre, il riferimento d’un minimo più preciso, ti costringe a fornire una qualche pezza d’appoggio.
Insomma…
.
la morale è: non è un problema di generica attenzione, ma di un suo sottoprodotto piuttosto utile, nelle dispute e nelle conversazioni. La precisione, perbacco. Almeno un po’.
25 marzo 2014 alle 18:35
Marco scrivi: “Era una splendida giornata di marzo. Luca guardò il cielo chiaro e limpido” chiaro e limpido sono superflui, perché già implicati in una splendida giornata di marzo.”
Secondo me “Chiaro e limpido” non sono superflui. O forse sì, potrebbero esserlo, ma non perché una splendida giornata di marzo è o implica una giornata di cielo chiaro e limpido.
25 marzo 2014 alle 18:39
Comunque, Robysan: grazie; non conoscevo il servizio archive.is. Credo che lo utilizzerò in casi come questo.
25 marzo 2014 alle 19:14
Per me l’unica soluzione sarebbe chiedere l’opinione di Davide Calzolari, ma non so che fine abbia fatto.
25 marzo 2014 alle 19:35
1. E’ lo scarto fra la quantità di parole e l’importanza (qualità) dell’informazione che veicolano che ci fa percepire una frase come diretta o meno.
“E’ stata fuori tutto il giorno sul suo cavallo pezzato”
Se l’enfasi è sul cavalcare, pezzato non è ridondante, ma è laterale rispetto all’intento comunicativo.
Se l’enfasi è su pezzato (magari perché ha tanti cavalli di colori diversi ed ha scelto proprio il pezzato) no. (La differenza la danno l’intonazione o il contesto).
La maggiore frequenza di avverbi e aggettivi tende ad aumentare il numero di informazioni di minore rilevanza e porta alla percezione di uno stile meno diretto. Mi sembra quasi tautologico (per diretto, ricordo intendevo = dritto al punto, senza tanti fronzoli) e non è un giudizio di valore.
2. Da chi fa le liste di proscrizione contro gli avverbi? Da alcune scuole di scrittura?
La logica alla base è che a un truly solitario ci credi, ma sulla verità di un truly circondato da very, really, ma anche modificatori di segno diverso come dreadfully, simply, strangely dubiti. Se tutto è marcato nulla è marcato.
25 marzo 2014 alle 19:48
OT
griffi, se avessi soldi da lanciare, vorrei pagarti per ricevere una tua mail ogni giorno, dopo il lavoro. c’è poco da fare, mi diverti!
25 marzo 2014 alle 20:03
Marco, probabilmente sopravvaluti l’informazione. Il narratore non dà informazioni. Il narratore informa, cioè convince o, io preferisco, persuade il leggente.
Per cui ciò che tu chiami “intento comunicativo”, e comunque è un’espressione fuori fuoco, non prescinde dal carattere persuasivo della frase, e del testo narrativo tutto. Insomma, il tono, il ritmo musicale e concettuale, come anche la qualità visiva – tutte cose che dànno il carattere persuasivo ad un testo – sono estremamente importanti: informano il lettore e in modo significativo spesso quando non forniscono informazioni. Il lettore vive, all’interno di un testo, grazie a ciò.
Il resto a me pare teoria della scrittura creativa imparaticcia e poco calzante. (E con questo rispondo al punto numero 2).
25 marzo 2014 alle 20:46
1 A me sembra che sia tu che confonda i piani, quello del ritmo e dell’efficacia del testo con quello della sua organizzazione/struttura. Nessuno mai ha accusato Lezama Lima di essere diretto, ma certo questa non è una critica al carattere persuasivo della sua prosa.
2 Non sto neanche dicendo che non possano essere usati gli avverbi in -ly, un grappolo di avverbi di questo tipo in un dialogo può essere ad esempio impiegato per significare affettazione o ironia, ma certo bisogna averne presenti gli effetti.
Shirley Jackson è nella mia esperienza una scrittrice che ha saputo scrivere molto bene sia in una prosa molto piana, sfrondata di avverbi e aggettivi (come in The Lottery), che in una invece molto più carica, manifestamente ispirata allo stile di Henry James (come in Hangsaman); a volte variando anche nel corso di uno stesso romanzo. Sarebbe interessante analizzare ragioni ed efficacia di queste scelte e come contribuiscono alla voce delle rispettive opere. Dire che sono differenze casuali perché tanto quel che conta è il tono e il ritmo concettuale non mi sembra sensato.
25 marzo 2014 alle 21:02
Marco:
Il problema, Marco, è che non sono due piani distinti. E’ chi non li confonde a confondersi.
Sul resto. Va bene, non dici che “non possano essere usati gli avverbi in -ly” (e in effetti hai scritto, misteriosamente, “sono malvisti”). Come detto: se fosse scritto un po’ più precisamente, non bisognerebbe poi ridefinire in negativo l’argomento.
25 marzo 2014 alle 21:31
– Diverse strutture o organizzazioni possono essere egualmente efficaci, non significa che il loro rispettivo successo ne annulli le caratteristiche specifiche. Il fatto che io preferisca di gran lunga Paradiso di Lezama Lima o Darconville’s Cat di Alexander Theroux
o Miss Mackintosh My Darling di Marguerite Young a Addio alle Armi e ritenga quelle opere pienamente giustificate nelle loro scelte non mi porterà mai a dire che i loro autori hanno uno stile più diretto di Hemingway.
– Ho spiegato quali sono le controindicazioni degli avverbi in -ly, che sono quelle che inducono molti (decaloghi di scuole di scrittura, Ellroy o chi per lui, occasionalmente autori che apprezzo) a consigliare di eliminarli in maniera quasi assoluta. Questa è una posizione integralista, ma certo una frase che infila di seguito onestamente tenacemente francamente come la tua non suona granché bene.
25 marzo 2014 alle 22:06
Manu, forse devo mettermi a frequentare un blog di finanza e brokeraggio. Noi per far soldi da lanciare dovremmo leggere di meno, scrivere niente e impiegare tutto il nostro tempo libero a grattare dei Mega Turista Per Sempre fin quando ci viene l’epicondilite. Sfortunatamente (avverbio) noi piuttosto che stock option e forex ci piace fare l’analisi grammaticale di Mansfield Park, che soldi non ne dà.
25 marzo 2014 alle 22:28
Certo, se la radice quadrata di 16 è 4, risulta chiaro che, qualora preferissi il gelato alla panna alla crepe cioccolato e rum, non bisognerebbe discutere del valore letterario di Addio alle armi (peraltro ampiamente sopravvalutato, da noi che di gelato ci intendiamo).
In estrema/stremata sintesi, sogni d’oro.
25 marzo 2014 alle 22:40
gmg no, l’epicondilite no! 🙂 buono l’avver-bio
25 marzo 2014 alle 22:45
Gli ho sparato io. Miratamente.
Appropos di Addio alle armi:
Hemingway era così talmente paratattico che ha detto addio alle armi, nel ’18, ma ha conservato tutte le mutande tattiche avute in dotazione dall’esercito. Per ricordo. Se l’è portate fin sulle verdi colline d’Africa.
26 marzo 2014 alle 07:15
Tempo fa, dopo averlo avvisato più volte che certi suoi comportamenti mi risultavano intollerabili (in particolare – e siamo in tema – lo spacciare informazioni inverificabili e reagire alla richiesta di verificabilità con dileggi e divagazioni), ho deciso di bloccare a Davide l’accesso ai commenti. Ovviamente potrebbe intervenire con altri nomi ecc.
26 marzo 2014 alle 08:18
Robysan: Grazie. Così metto la citazione completa:
(U. Eco, Postille al nome della rosa).
Marco: quando scrivi
commetti due errori. 1. Tu hai una certa competenza in lingua e letteratura anglosassone: perciò ti sembrano scontate affermazioni che, a chi non ha un’analoga competenza, non sembrano scontate per nulla. Nel momento in cui ti si chiede qualche spiegazione in più, anziché invitare l’interlocutore a rifare daccapo il lavoro scientifico che altri hanno già fatto (lavoro inutile e invito un po’ insultante), basta che tu dia qualche riferimento. Come, dài e dài, hai alla fine fatto.
2. Ci sono affermazioni che hanno gradi diversi di evidenza. Che Hemingway sia più paratattico di Proust è un’affermazione molto evidente. Ma se, ad esempio, uno mi domandasse se l’enjambement è più frequente in Montale o in Sereni, direi “Un attimo” e andrei a controllare sul testo o a vedere se qualcuno magari non ha già fatto la conta.
Citi nei tuoi esempi diversi autori o autrici anglosassoni che io non conosco: ma li citi, nome e cognome e titolo dell’opera, e quindi io posso andare a vedere.
26 marzo 2014 alle 08:41
Vorrei comunque discutere questa cosa qui. Marco:
Premesso che parole come “rilevanza” o “diretto” sono parole che, ahimè, non tutti intendono allo stesso modo, oserei dire che
– diversamente da quello che pensa Daniele (dm) (“Il narratore non dà informazioni. Il narratore informa, cioè convince o, io preferisco, persuade il leggente), i testi narrativi contengono un sacco di informazioni (aggiungo che usare, per scopi espressivi, il doppio senso del verbo “informare” non contribuisce alla limpidezza della chiacchierata). Certo: le informazioni contenute nel testo contribuiscono a (servono a) “dare una forma” al lettore e alla sua immaginazione.
– possiamo sostenere che in un testo di Rabelais, di John Barth, di James Joyce o di C. E. Gadda l’esuberanza di avverbi e aggettivi (e/o parole strane, disusate, neoformazioni ecc.) “tende ad aumentare il numero di informazioni di minore rilevanza”? Io direi di no; perché mi pare che, in quel tipo di testi, le informazioni più rilevanti (più “formanti” o “persuasive”, direbbe forse Daniele) sono proprio fornite dalla sovrabbondanza o dalla bizzarria verbale.
– certo: dato un testo il cui scopo sia meramente informativo (es.: “Gisella, per piacere, compera il latte”) si può sostenere che ha senso fare economia di avverbi e aggettivi. Ma, supponendo che Gisella e Adalberto siano gli unici abitanti della casa, e che il testo in questione sia scritto sulla lavagnetta di cucina, potremmo dire che il vocaivo “Gisella” e la formula “per piacere” sono di troppo? Eh: dipende. Se abitualmente Adalberto lascia sulla lavagnetta messaggi per Gisella (e non, ad esempio, messaggi per sé stesso, promemoria), allora il “Gisella” è dispensabile. Il “per piacere” è, a livello informativo per noi, inutile. Tuttavia, sia il vocativo sia il “per piacere” sono ricchi d’informazione per Gisella: la informano sullo stato dei rapporti tra lei e Adalberto (Se Gisella trovasse scritto sulla lavagnetta: “Compera il latte”, e nient’altro, ci aggiungerebbe sotto: “E comperatelo tu, scansafatiche!”).
– ovvero: trovo un po’ rischioso discutere di testi così, in generale, facendo affermazioni che in realtà possono essere pertinenti e sensate se applicate a certi testi (e/o a certi tipi di testi), e impertinenti e insensate se applicate a certi altri.
– la parola “fronzoli”, opposta a “stile diretto”, non suona neutrale. Leggere subito dopo: “non è un giudizio di valore” fa un effetto un po’ strano.
– uno “stile diretto” può anche risultare oscuro per troppa economia (non per nulla gli scrittori dell’epoca barocca potevano oscillare tra sovrabbondanza e laconismo: due diverse vie per allontanarsi dall’ordinario).
– Pensiamo a un dialogo tra Gisella e Adalberto del tipo: A.: “Hai comperato il latte?”, G.: “Mio padre ha fatto un infarto”. Ora: Gisella sta dicendo che non ha comperato il latte perché suo padre ha fatto un infarto e lei ha dovuto prendersene cura? Oppure sta dicendo che suo padre ha fatto un infarto, e non ha nemmeno sentita la domanda di Adalberto? Oppure, mentre parla, tira fuori dalla borsa e mette nel frigo il latte? Ma ascoltiamo il séguito del dialogo: A.: “Allora brindiamo”. G.: “Sì, ma non col latte. Ho preso lo champagne”.
– le informazioni essenziali talvolta passano per le vie indirette. Non potrò mai dimenticare la faccia del giornalista del Telegiornale che dava la notizia del colpo di stato in Cile e dell’uccisione di Allende: era felice. (Qui non stavamo parlando del non verbale, lo so: era per fare un esempio esagerato).
26 marzo 2014 alle 11:17
Alcune riflessioni – mi spiace se eludo il dibattito che ha preso una piega specifica. Suonerò apodittica ma solo perché sono di corsa, e dovrei lavorare anziché scrivere qui 🙂
– Credo che il riconoscimento delle specificità diventi discriminante soltanto quando si ritiene che il titolare di quelle specificità non sia in gradi di uscirne. La specificità però può esistere ugualmente e derivare da questioni di ordine storico sociale che sarebbe davvero ingenuo ignorare, spesso chi è interno culturalmente a quella specificità nota quando chi è esterno prova ad addentrarsi senza averla masticata abbastanza. Soltanto i grandi scrittori se uomini riescono a scrivere bene da donne – per esempio. Per dire, non ho molto digerito How to be good di Horbny, mentre mi sto beando di Miele di McEwan. Da ebrea, quando la Shine tentò di entrare nelle aree dell’umorismo ebraico, ho avuto un sonoro moto di stizza. Ma questo non vuol dire certo che Philip Roth negli ultimi suoi romanzi non sia stato capace di trascendere la dimensione culturale di provenienza, di scrivere dei romanzi quasi perfettamente goy. Così come non vuol dire che ci siano scrittrici capaci di trascendere il campo di una piccola tradizione di genere. Situandoci noi politicamente e culturalmente in un momento a cavallo tra due possibilità storiche diverse – l’essere solo in un modo e il poter scrivere di tutti i modi che non sono il nostro, forse non dovremmo porre il discorso in termini di letteratura femminile si, letteratura femminile no. Discriminazione si discriminazione no.
26 marzo 2014 alle 13:04
Sì, Giulio, chi scrive fornisce al leggente un mucchio di informazioni; l’affermazione che riporti è affacciata sull’assurdo, il tentativo è quello di scuotere il mio colto e informato lettore, magari anche più colto e informato di me, su certi autori di sicuro, da quella visione tutta formalistica e inconcludente dello scrivere e del testo – per cui le regole superano la realtà. Determinati principi asserzioni e schemi di massima venuti fuori dalla didattica della scrittura in questi ultimi tempi, possono essere utili, mi pare, se e solo se somministrati con prudenza, con la relatività che si deve a queste cose. Come tu fai, d’altra parte. Buttati lì come degli oggetti in una conversazione, solidi e opachi, non sono di alcuna utilità. Soprattutto se la conversazione ruota attorno, non tanto alla scrittura, quanto alla lettura (creativa, si spera, e non troppo).
26 marzo 2014 alle 14:29
Senza fronzoli lo riprendevo dall’opposizione iniziale, che avevo presentato come luogo comune o chiacchera da bar; più o meno il senso era che la scrittura specificamente ed esclusivamente maschile è quella che screma fino all’essenziale (vedi Hemingway), il vero uomo è laconico, non usa tre parole quando ne possono andar bene due. Visto che subito prima avevo detto che mi sembrava assurdo fare generalizzazioni sul piano dello stile, non so bene perché debba difendere un discorso riportato tangenzialmente e a mo’ di battuta.
Anche se quella era un opposizione manichea, comunque, diretto, manierato (sic) tortuoso, obliquo etc., sono parole che riflettono impressioni solo in parte soggettive che ricaviamo dall’organizzazione dei significati all’interno di un dato discorso (e il testo letterario è un caso particolare di discorso).
Tutto quel che dice Mozzi è vero, ma non cambia la questione. L’informazione di cui parlo non è quella meramente fattuale, ma comprende l’enfasi e l’implicito (Avevo fatto l’esempio del cavallo pezzato apposta). Mi pare che un testo che dirotti continuamente le informazioni più rilevanti su avverbi ed aggettivi, o che presenti reiterati esempi di focus contrastivo (cioè nuove informazioni che contrastano o ribaltano le aspettative o presupposizioni generate in precedenza, come nell’ esempio di Gisella ed Adalberto) verrà inevitabilmente percepito come meno diretto (o lineare).
Non è didattica della scrittura, è pragmatica della comunicazione.
Poi sì, diretto lineare etc. non sono termini rigorosi e scientifici, ma di solito ci si capisce lo stesso.
Il libro da cui ho preso il titolo del mio tumblr – Red Shift di Alan Garner – è scritto in un linguaggio con pochi avverbi ed aggettivi e che predilige nettamente parole di poche sillabe di origine germanica rispetto a quelle polisillabiche di origine romanza, è costituito da dialoghi che si succedono senza soluzione di continuità fra personaggi di tre secoli diversi e uno dei passaggi centrali della storia non è descritto ma accade in mezzo a battute di dialogo che sembra continuo ma in realtà riprende dopo un intervallo.
Nessuno s’è mai sognato di chiamare quel romanzo diretto o lineare; ma neanche tortuoso, artificioso o barocco, nonostante non sia certo uno stile che dà l’impressione di scaturire spontaneo dalla penna. Oscuro ed ellittico sono i termini di gran lunga più frequenti. E’ ovvio che ridurre tout court un libro o uno stile a un paio di aggettivi è sciocco, ma scelti correttamente mettono sulla buona strada. Non penserei mai a “diretto”,”lineare” come primi aggettivi per Joyce e Gadda, e credo nessuno, ma proprio nessuno, lo farebbe, indipendentemente da qualsiasi discussione sul significato preciso dei termini e la loro neutralità o da dissertazioni sulle regole che uccidono la creatività.
26 marzo 2014 alle 14:31
A me interessava però, tornando a monte se qualcuno è interessato, discutere sull’esistenza o meno di una diversa ricezione/presentazione/considerazione di opere scritte da uomini o donne

Qui c’era uno spunto di Helena Janeczek sulle copertine
http://www.nazioneindiana.com/2012/06/04/sulleditoria-di-genere-in-entrambi-i-sensi/
Ad esempio, guardando questa immagine
(non si vede bene ma la ragazza della copertina sta sorridendo)
voi pensereste che tratta della storia di una donna eterosessuale che decide di attraversare in bicicletta l’Australia per venire a patti col suicidio, senza motivo apparente, di una sua amica lesbica che aveva compiuto lo stesso percorso, priva di agnizione finale o soluzioni consolatorie?
E’ vero che la scrittura femminile è più sentimentale, oppure le forme che prende il sentimentalismo dei maschi – chessò, John Fante, il Milton di Una Questione Privata – sono più facilmente viste – sia da maschi che da femmine – in maniera neutra o positiva?
O ancora, Housekeeping di Marylinne Robinson è presente in due liste dei cento migliori romanzi (Time, in lingua inglese del ventesimo secolo; Guardian, di tutti i tempi) e la Robinson con tre romanzi ha vinto o è stata finalista a tutti i premi in lingua inglese cui poteva concorrere. Come mai Housekeeping (che ha quel titolo, e parla di tre generazioni di donne) non è quasi mai menzionato quando si discute di esempi di Great American Novel degli ultimi anni? La storia vista attraverso il prisma dell’esperienza femminile è meno universale?
Ancora, scrittrici “d’avanguardia” -termine che lascio apposta maldefinito- appaiono solo nella scia di maschi con cui possono essere raggruppate (Woolf Mansfield, coi modernisti, Sarraute Duras col Noveau Roman)? O magari quando appaiono da sole tendono a essere più facilmente dei maschi marginalizzate o considerate curiosi one-off perché distanti dalle aspettative sulla scrittura femminile?
26 marzo 2014 alle 16:00
Marco, la mia sensazione è che la pragmatica potrebbe esserti utile più ad essere chiaro e inequivocabile (lasciando da parte l’assiomatica, ovvio) in questa conversazione pubblica che ad altro. La masticazione affrettata (da contrapporre alla ruminazione) di determinati principi da scuola di scrittura, che purtroppo, sono facili a diventare pregiudizi – è garanzia di una buona digestione.
Detto questo, il tema rilanciato è interessante.
Il link all’immagine di copertina non va, probabilmente è accessibile solo dall’interno…
26 marzo 2014 alle 16:02
* non è garanzia, ovviamente. Ma ogni stomaco è a sé.
26 marzo 2014 alle 16:27
A me sembra invece che sia tu che parti alla carica delle scuole di scrittura quando qualcuno sventola il drappo rosso “avverbi” – le mie considerazioni vengono semmai dalla linguistica.
Ma davvero, basta.
http://www.deastore.com/libro/inseguendo-la-croce-del-sud-pauline-slot-c-cozzi-sonzogno/9788845418617.html
Clicca immagine per ingrandimento.
26 marzo 2014 alle 17:08
Invoco il diritto di difesa dalla superficialità – che provenga dalle scuole di scrittura o dalle “quasi chiacchiere da bar” o dalla “linguistica”. Lo ritengo un mio diritto. Purtroppo non ho certo il potere d’impedire l’accesso a disneyland.
26 marzo 2014 alle 19:09
Dire che tre testi della stessa lunghezza in cui il rapporto sostantivi/aggettivi è rispettivamente 4:1, 1:1 e 1:4 scorrono in maniera diversa, o che il testo in cui prevalgono i sostantivi sarà
focalizzato su azioni o elenchi di cose e quello in cui prevalgono gli aggettivi sarà descrittivo, non è superficiale, è banale.
Ogni parte del discorso ha delle funzioni specifiche; una maggiore o minore incidenza di una di esse è un indicatore – grezzo, da non interpretare in isolamento, ma comunque un indicatore, perché orienta il testo in modo diverso.
Se si capisce questo, si possono creare testi efficaci in modi diversi raggiungendo effetti diversi seguendo principi organizzativi diversi. Anche usando avverbi a profusione; ma avendo presente che una scrittura ricca o priva di aggettivi (o avverbi) fallisce o ha successo in modi diversi.
Ma se credi che inserire senza particolare motivo un avverbio in -mente ogni 6-7 parole snellisca il discorso, e che pensare il contrario è superficiale o un pregiudizio, padronissimo.
26 marzo 2014 alle 19:55
Uno che ha la tua visione, almeno quanto a idea di letteratura e di lettore, ma pure quanto a contatto con la parola scritta, è di sicuro il Traduttore automatico di Google. Secondo me ne può nascere un’amicizia.
26 marzo 2014 alle 20:21
Uno che ha la tua visione, quanto a idea di letteratura e lettore, non ha bisogno del traduttore automatico; imparando la fonetica, tono, ritmo e qualità visiva gli basteranno per godere di testi arabi, cinesi o finlandesi indipendentemente dalle loro caratteristiche sintattiche o dalla tanto sopravvalutata informazione.
26 marzo 2014 alle 20:57
Mi piacerebbe, Marco, mi piacerebbe. Mi perderei le sciocchezze.
27 marzo 2014 alle 06:49
Marco:
In realtà a me questo tema – qui, ora – non interessa.
La mia domanda è: è possibile, con criteri scientifici (nei limiti di scientificità delle “scienze umane” ecc.), stabilire un elenco di tratti che permettano di distinguere tra le scritture (letterarie? Va ben, limitiamoci alle letterarie) delle donne e le scritture (letterarie) degli uomini.
Che so: un certo uso degli avverbi, dei pronomi, delle subrdinate finali, ecc. (Per questo ti chiedevo riferimenti sulla J. Austen e i suoi avverbi). (Anche se suppongo che la cosa varii di lingua in lingua).
Che vi siano differenze nella ricezione, nella percezione, nella considerazione, mi pare fuori di dubbio. Indagare su questo è lavoro da sociologi della letteratura, e mi auguro che ci si lavori alquanto (perché, in realtà, sebbene non ora e non qui, mi interessa moltissimo).
Nel momento in cui mi trovo difronte a un critico letterario che parla di “letteratura femminile” come se esistesse in quanto tale e come se in quanto tale (per certi tratti distintivi ecc.) fosse riconoscibile, non posso (non serve argomentativamente) opporgli un ragionamento sociologico (anche perché i ragionamenti sociologici non hanno nessun valore per le persone singole).
Posso invece domandargli se effettivamente una differenza – nei testi, nelle opere – si rinvenga.
E che non sia una differenza di contenuti, perché quella è di nuovo materia di storia e sociologia.
Daniele: a che serve insultare? Secondo me, a niente.
27 marzo 2014 alle 07:38
Uhm dunque ho capito. Mi riesce difficile starti appresso, perché non riesco a scorpora la storicizzazione delle sintassi dalle sintassi. Non riesco a pensare l’uso dei linguaggi come non condizionati da quegli elementi sociologici che tu vorresti espunti. E perché anche al livello dei singoli, se eludi la contestualizzazione storica ed eventualmente ti avanza una differenza, tu rischi di imputarla a qualcosa di radicale, al biologico per esempio. E io non penso che sia corretto.
Se esistono delle isole, diciamo sintattiche e tematiche con un certo nome, che sia razza o genere, se eludi la strutturazione sociale di quel campo devi finire con il dire che quelle persone scrivono così perché biologicamente sono così. Credo che bisogna rassegnarsi a stabilire che queste isole narrative hanno un’origine sociale e analizzabile per via sociologica. Esse producono stili, itinerari, vocabolari costituiscono un genere. Io per esempio discrimino certi scrittori che nella prosa avverto maschili. Molti. Un maschile a cui penso di poter arrivare con un lavoro di mimesi postmoderna – così come, nel mio mestiere – io sono psicoterapeuta – io posso entrare nei percorsi logici di un uomo, presentirli. Ma sono stati disegnati prima che io arrivassi. E non mi riferisco ai contenuti, o non solo, vuoi ma anche agli itinerari linguistici che sono altrettanto storicizzabili.
Credo anche, che il fatto che siano storicizzabili dimostri quello a cui tu in fondo vuoi andare a parare: la storicizzabilità infatti rinvia a una plasticità della parola usata che si può dominare. Ragionevolmente cioè potrebbe non esistere per chi lo volesse una letteratura femminile – e infatti per molte scrittrici – non ha senso. Ma se questa cosa è come dire, ideologicamente risolta – il passaggio storico – riconoscere l’isola culturale e la sua necessità non dovrebbe essere attaccato.
Si passa sempre dal riconoscimento del ghetto, della sua funzione identitaria discriminativa e protettiva per uscirne. Rientra nella storica dialettica dei percorsi di uscita dalle logiche della discriminazione. Se non lo riconosci – ti si ritorce contro.
27 marzo 2014 alle 09:15
La domanda è chiarissima. E non ha nulla, proprio nulla, a che fare con contestualizzazioni storiche o sociologiche (che si possono benissimo rimandare a un successivo livello, e vedremo come). La domada può però essere riformulata nel seguente modo:
è possibile inventare un esperimento, o una classe di esperimenti (di test, di prove), da condurre su testi letterari e da cui si possano trarre conclusioni sicure (o ragionevolmente sicure – e i limiti del “ragionevolmente” dovrebbero essere stabiliti prima) circa il sesso/genere degli scriventi? Oppure, dati gli stessi esperimenti, è possibile trarre conclusioni [ecc. ecc.] circa il fatto che sesso/genere dello scrivente sono indecidibili dal testo?
Poi ci si può (e ci si deve) chiedere se vi siano e quali siano le ragioni extra-letterarie del risultato ottenuto.
Si può obiettare a priori che esperimenti del genere sono del tutto inutili e che uno scrittore “sufficientemente abile” può mascherarsi da uomo, da donna e pure da rinoceronte, ma – per l’appunto – gli esperimenti confermerebbero l’ipotesi che una specificità di genere possa esistere. Anzi: lo scrittore che si “mascherasse”, riuscendovi efficacemente, creerebbe la specificità. A questo punto mi pare che la natura della percezione della specificità – e l’appercezione che se ne avrebbe – potrebbero essere comprese solo extra-letterariamente.
27 marzo 2014 alle 09:34
P.S.: caso mai non fosse chiaro: con il termine “mascherarsi” intendo dire “mascherarsi in quanto autore” e non in quanto “voce narrante”.
Le prime quattro righe, anche ciò dovrebbe essere chiaro, sono la citazione letterale della domanda di Giulio. Perdonate, vado di fretta.
27 marzo 2014 alle 12:38
Esistono esperimenti di questo tipo, ma sono fatti con algoritmi ed analisi statistiche. Non credo che un essere umano possa separare in maniera efficace le impressioni derivate dal contenuto da quelle della sintassi. Peraltro se esistessero eventuali
preferenze lessicali marcate e costanti nel tempo non sarebbero un tratto distintivo? Ci limitiamo ad aspetti sintattici?
Test di ampiezza limitata sono inconclusivi, ma per divertirsi uno può provare questo:
http://www.theguardian.com/books/quiz/2011/jun/02/naipaul-test-author-s-sex-quiz
Le differenze salienti riscontrate fra le strategie comunicative di donne e uomini – per esempio le donne usano molto più spesso i pronomi personali e le negazioni, gli uomini interrompono di più l’interlocutore, raccontano più parolacce e fanno più battute – sembrano riflettere differenze spiegabili in termini socioculturali.
Esistono anche studi specifici su maschi e femmine omosessuali che rimarcano differenze significative sia con uomini che con donne eterosessuali, ma anche suscettibili di più forti variazioni interne per sottogruppi o provenienza sociale/culturale/geografica.
Due dei primi studi trovati googlando, uno sul linguaggio parlato ed uno sui testi scritti:
http://libres.uncg.edu/ir/wcu/listing.aspx?id=7863
http://www.digitalhumanities.org/dhq/vol/3/2/000042/000042.html
E l’articolo di Wikipedia sulla linguistica arcobaleno
http://en.wikipedia.org/wiki/Lavender_linguistics
27 marzo 2014 alle 14:22
Zauberei, scrivi rivolgendoti a me:
Eh no! Mai mi sognerei di espungere quegli elementi sociologici. Chiedo solo, a chi parla (non io!) di “letteratura femminile”, che provi a dire se c’è qualcosa nei testi, nelle opere, che non sia meramente contenutistico, che permetta di distinguere tra “letteratura femminile” e “letteratura maschile”.
(La mia impressione – ma in quanto impressione è convinzione assai poco scientifica – è che non ci sia nulla: e infatti io non parlo di “letteratura femminile”, ma chiedo conto dell’uso di questa categoria a chi ne fa uso).
Rischio della spiegazione biologicista: condivido.
Roby, scrivi:
Sì: allo stesso modo che ogni parodia è una sorta di analisi (e critica) stilistica del testo parodizzato.
L’esperimento è presto detto: si tratta di prendere un accettabile numero di testi, di descriverne i tratti stilistici, e di vedere se vi sono tratti che permettano di distinguere con accettabile sicurezza tra testi scritti da donne e testi scritti da uomini.
Quanto ai livelli di “accettabilità”, andranno discussi sui dati e nel corso del lavoro. Le “scienze umane” non sono come l’ottica o la meccanica. “Test di ampiezza limitata sono inconclusivi”, avverte Marco: si tratta di decidere quanto esteso debba essere un campione (e come debbano essere “pesate” al suo interno le presenze es. dei diversi generi letterari, eccetera).
Marco: forse si può parlare di “tratti stilistici”, che includono sia modi sintattici ecc. sia preferenze lessicali: come mi pare facciano anche gli autori degli studi che tu citi.
Mi domando se ci sia qualcosa sulla lingua italiana. Immagino che le cose vadano diversamente da lingua a lingua.
27 marzo 2014 alle 14:25
Da Google.
Chiave: “scritture femminili”+”analisi linguistica” = 106 risultati.
Chiave: “scritture maschili”+”analisi linguistica” = 9 risultati.
Chiave: “scritture maschili”+”analisi linguistica”+”scritture femminili” = 0 risultati.
(Questo vale per la lingua italiana, ovviam.).
27 marzo 2014 alle 14:26
E comunque c’è sempre Shania Twain
27 marzo 2014 alle 14:59
Rischiamo di fare una serie di esperimenti i cui parametri cambiano strada facendo (questo avviene anche con l’ottica, la meccanica e l’elettronica, te l’assicuro), ma non mi stupisce: è caratteristico di qualsiasi ricerca. Non ho dubbi sul fatto che “l’esperimento è presto detto”: bisogna analizzare un cospicuo numero di testi (non so quanti testi possano essere: 100, 200?) ecc. ecc. Non stavo facendo la domanda a “te”, l’ho riformulata per sottolineare appunto che occorre partire dal materiale esistente. Cioè: io non vedo altra strada e non capisco come si possano fare affermazioni, sulla esistenza o meno di una qualsiasi specificità, a prescindere dall’analisi. Quel tipo di analisi. Ciò che è stato fatto dai ricercatori dei link riportati da Marco è un lavoro sulle ricorrenze dei termini, sul lessico, cioè solo su una parte di ciò che costituisce i “tratti stilistici”. E’ stato fatto, ho capito io, su testi in inglese e francese e si è concluso (ho sbirciato più che letto, posso aver compreso male più cose) che una specificità c’è e risiede nella terminologia. Epperò, a me, tutto ciò pare limitativo.
27 marzo 2014 alle 15:05
P.S.: attenzione, però! in qualsiasi lavoro sperimentale la continua rimessa in discussione dei parametri può sortire l’effetto di pilotare il risultato verso dove si vuole, consciamente o meno, mandarlo a parare. Purtroppo!
27 marzo 2014 alle 15:10
Sì, sono molto irritabile in queste settimane perché le cose mi vanno male. Metto da parte.
La domanda sulla possibilità di rintracciare, diciamo, sul livello della superficie del testo una comunanza di tratti fra i generi e prescindendo dunque dai contenuti, mi fa venire in mente almeno due cose.
1. E’ possibile che questi tratti che ci interessano emergano in misura significativa solo a partire da determinati contenuti. Potrebbe darsi cioè che un uso caratterizzante della sintassi e del lessico venga attivato da determinati nuclei tematici. Se così fosse, si spiegherebbe in parte la difficoltà di rintracciare queste differenze ad un livello non semantico. Un lavoro testuale automatizzato sulla sintassi, o di tipo, che so, lessicografico su un intero corpus potrebbe mancare queste differenze.
(Io mi accorgo, ad esempio, scrivendo di girare attorno a determinati nuclei tematici sempre con le stesse parole e, soprattutto, con la palla al piede di un certo tipo di sintassi. In particolare quando ciò che scrivo definisce i rapporti umani all’interno di un’ottica che possiamo chiamare standard. Ma non saprei dire di più.)
2. E’ possibile che questi tratti – che spesso percepiamo ad un livello di lettura profonda ma non riusciamo a spiegarci – siano manifesti sul piano dei significanti. Il ritmo di una prosa, a maggior ragione se narrativa, è fatto di continue risonanze tra le parole, che, in parte, si risolvono in immagine e, perlopiù, permangono come esito inconscio e emotivo nel lettore. Non credo comunque che una critica psicanalitica orientata in questo senso possa dare risultati che si allontanino sufficientemente da tutta una serie di stereotipi. Forse e, direi, paradossalmente, è un lavoro che solo un lettore ingenuo con una preparazione culturalmente eterogenea può mettersi a fare con qualche speranza.
Insomma, credo che potrebbe essere utile mescolare le carte (superficie e contenuto, professionalità e competenze). Ma è uno spunto.
27 marzo 2014 alle 18:07
Scusate, sono discorsi che in lingua italiana potrebbe aver senso fare in poesia, nella quale la forma è tradizionalmente da noi quasi tutto. Ho letto di recente l’antologia tutta femminile Nuovi Poeti Italiani n.6 e da assiduo -quindi allenato- lettore di versi da più di vent’anni, devo dire che non mi è saltata all’occhio alcuna specificità linguistica (quantitativa nell’uso della lingua) di genere, a parte forse qualcosa in Laura Pugno (sul tema dell’acqua) e Franca Mancinelli (sul tema del corpo). Al contrario, alcune nette specificità tematiche (contenutistiche) e di postura (di sguardo sul mondo).
30 marzo 2014 alle 13:38
Una nota a una cosa scritta dalla persona che utilizza il nome Zauberei.
Scrive:
Come dicevo sopra la biologia non dice nulla di certo, ma si possono costruire dei repertori di ciò che una data parte della società in un dato tempo e luogo associa alla ‘femminilità’ e ‘maschilità’.
Questi repertori sono convenzionali e ovviamente stanno dentro una cultura particolare. Quindi ci dicono soltanto se una persona/personalità è, in riferimento a quella cultura, associata alla femminilità o maschilità. Non ci dicono ciò che quella persona/personalità “è”, ma come “è considerata” attraverso il confronto con l’inventario convenzionale di una classe sociale di un certo tempo e luogo.
Purtroppo con un salto epistemologico bizzarro, alcuni “terapeuti” trasformano “è considerato” in “è” tout court, pretendendo in sostanza di dire qualcosa su un’essenza. Nel discorso citato infatti abbiamo il fantomatico “maschile” cui Zauberei pretenderebbe di “arrivare” finendo per diventare un tratto di personalità – addirittura entrano in scena i “percorsi logici” che ovviamente, come ogni vera essenza, “sono stati disegnati prima del nostro arrivo”.
Ripeto, stiamo parlando di meri repertori convenzionali, eppure c’è una sorta di delirio di onnipotenza dei “terapeuti” nell’oggettivare la personalità.
Tutto ciò non c’entra nulla con la sociologia. Questa piuttosto viene utilizzata da certa psicologia, specialmente di matrice psicoanalitica/psicodinamica, come cosmesi per rendere digeribile il vecchio impianto dell’etichettatura delle persone.
30 marzo 2014 alle 14:59
(Non capisco se non ti interroghi sul rapporto tra contenuto e marcatura sessuale dell* scrivente perché ritieni ovvio che non esista connessione, oppure perché ritieni ovvio che esista).
La metto così sperando di non snaturare la tua domanda:
“Ha un fondamento materiale, rinvenibile con l’analisi delle scritture, sostenere che esiste una differenza stilistica tra persone assegnate al sesso maschile e persone assegnate al sesso femminile?”
Forse è possibile, ma occorrerà un bel po’ di tempo per trovare il parametro giusto da cui ottenere due gruppi sessuali stilisticamente dicotomici. Magari è un avverbio di tot sillabe a differenziarli binariamente. Mi pare una ricerca un po’ oziosa. Peccato non ci sia più Herculine Barbin a stenderci sopra un sorriso…
30 marzo 2014 alle 15:30
Andrea: mi ci interrogo perché esiste una quantità di discorsi nei quali si dà per scontato che esista una “letteratura femminile” o “al femminile” eccetera: e spesso (quasi sempre, oso dire) mi sembra che si voglia accennare a una differenza nel modo di scrivere; mentre poi, quando interrogo chi usa queste espressioni (che io detesto), mi sento rispondere sempre solo sul piano contenutistico (o con vaghezze del tipo: “Si sente che c’è una sensibilità femminile”, eccetera, mentre mai nessuno mi dice cose del tipo: “Si sente che c’è una sensibilità maschile”, eccetera).
30 marzo 2014 alle 18:14
Non so se può essere utile alla tua domanda Giulio. Qualche giorno fa parlavo con un’analista della differenza tra il modo di raccontarsi dei pazienti uomini e donne. Questa analista – una che ha portato avanti la ricerca sulla deontologia professionale con pazienti queer o gay o transgender con colleghi omosessuali, femminista etc, ribadiva una differenza nel modo di riportare i vissuti, e nell’itinerario da mettere in atto nella terapia. Lei diceva che secondo lei le pazienti donne consegnano le emozioni in fieri, come le vivono le portano tout court, mentre gli uomini tendono a presentare i propri vissuti emotivi come impacchettati, organizzati, interpretati, pensati. Al punto che diceva lei, il processo analitico segue itinerari inversi: con le donne strutturi, con gli uomini destrutturi. Chiaramente alludeva a tendenze, a maggioranze relative, ma tant’è.
Mi ha spiazzata, non me lo aspettavo da lei, e non so ancora se sono d’accordo – io quando scrivo, sono regolarmente scambiata per un uomo – e anche epistemologicamente mi pare che il discorso possa far acqua – nel senso che non si da vissuto narrato che non sia intellettualmente riconcettualizzato – la presunta immediatezza è un alfabeto culturale.
Ma se vogliamo tracciare il perimetro dell’isola “letteratura femminile” l’isola da cui molte donne sono passate per accedere al mondo della scrittura, un’isola dove qualcuna rimane qualcuna no, qualche omo può decidere di esplorare altri no, forse possiamo immaginarlo come un territorio dove il rilievo semantico all’emotivo, in qualsiasi argomento ci si cimenti, viene in prima linea. In effetti – la regina del mio comodino, che per me rimane il massimo vertice di questo tipo di discorso letterario è per esempio Toni Morrison. Viceversa quelle – palloserrime confesso per me – venti pagine di Philip Roth dedicate alla confezione dei guanti in “pastorale americana”, o quella mandrakata di pagine sulla pugna che stanno in Guerra e pace, sono squisitamente maschili non perché si parli di fabbrica di guanti o di cannoni, ma per la classifica semantica delle cose da dire su quei mondi – l’oligarchia degli aggettivi – spero di essermi spiegata.
Questo passaggio c’è stato credo. forse c’è ancora? non so dirlo, non è più obbligatorio, esistono altre libertà ma anche diversi condizionamenti psicologici e culturali. Se per esempio di me – donna madre di famiglia – si dice che quando scrivo sembro un uomo – è anche perché di mia madre, si sarebbe detto lo stesso – e forse anche di mia nonna.
NOn so se mi sono spiegata. Spero di non essere andata OT.
31 marzo 2014 alle 00:24
Un’altra necessaria nota a questa cosa scritta dalla persona che si firma Zauberei:
“Questa analista – una che ha portato avanti la ricerca sulla deontologia professionale con pazienti queer o gay o transgender con colleghi omosessuali, femminista etc”
Nessuna persona può essere paziente in quanto “queer”, “omosessuale”, “transgender/transessuale” perché questi elementi dell’identità sessuale non sono intrinsecamente nel modo più assoluto delle patologie psichiatriche.
Quindi se sono in cura da questa non precisata “analista”, lo saranno per motivi diversi dagli elementi della loro identità sessuale, e non è etico classificarli in base alla atipicità della loro identità. Saranno per esempio dei pazienti con un disturbo d’ansia o altro. Altrimenti saremmo nell’ambito delle terapie cosiddette “riparative”.
31 marzo 2014 alle 05:57
Altra necessaria nota. Zauberei scrive:
Nessuna persona può essere “paziente” in quanto “uomo” o “donna”, ecc.
31 marzo 2014 alle 07:27
naturalmente “in quanto” certo che no, e chi sarebbe così troglodita da pensarlo. Ma esiste una storia pregressa problematica, in cui la psicoanalisi ha fatto una gran brutta figura, su come si intreccia il genere e l’orientamento sessuale nella eventuale psicopatologia. Una brutta figura intrecciata alla strutturazione stessa del pensiero analitico che su una certa forma di famiglia e una certa visione dei ruoli di genere, per cui è davvero necessario lavorare su queste cose per trovare una soluzione. d’altro canto, non è eludibile in questa professione, interrogarsi su come certi dati di vita, si intreccino con l’organizzazione della vita stessa. Io sono ebrea, per fare un esempio, certo che sono stata paziente non in quanto ebrea – ma per le esperienze che accomunano gli ebrei è utile che un mio analista ne abbia fatto conoscenza, abbia a portata di mano intellettuale la catena di esperienze e sintassi che è lì diciamo, sul comodino di un’identità. Oggetto disponibile da prendere o rifiutare, ma disponibile più a me che a te. Oggetto che se preso entra nelle sintassi e nei modi linguistici. Questo tipo di consapevolezze e conoscenze aiuta molto quando prendi in cura – quando vuoi scrivere di – qualcuno che ha un’esperienza che tu non hai fatto. Quando sei un uomo e scrivi di una donna incinta, quando sei cattolico e scrivi di un mussulmano.
Quello che io dico, riguardo due terreni che mi paiono simili, è che esistono delle isole probabilmente strutturate culturalmente, su cui molte persone passano, che esplorano, che considerano patria, mentre altre le evitano accuratamente. Ma bisogna prenderne atto. perchè sono oggetti troppo potenti, troppo catalizzanti e che hanno avuto una rilevanza identiraria per tanti che sarebbe ingenuo sperare che non esistano. Il che però non deve né far credere che non esistano altre isole, né che tutti devono abitare in quelle li per forza, né che non siano capaci di pensarne o stare meglio in altre, a prescindere da presunte corrispondente. In questo senso, almeno quando si parla con me, chiedo che non mi si imputi un essenzialismo che non condivido (lo chiedo a te Giulio, perché con Andrea ci ho provato, non ha funzionato – non mi crede, ne prendo atto e vado oltre da tempo).
Forse, la questione potrebbe essere semplicemente storicizzata. Forse, almeno in letteratura, si può pensare che da oggi, non sia più sensato parlare di letteratura femminile, perché cambiando le circostanze culturali, e si può approdare a delle mimesi importanti o linguaggi terzi che funzionano di più – sul terreno terapeutico penso che il discorso sia diverso, ma andrei ot. Sul terreno dell’attualità quei dispositivi che tu cerchi Giulio, sono molto meno presenti, o se utilizzati vengono chiamati in causa in maniera postmoderna, con un consapevole richiamo a che è scelto e non obbligato, come mimesi a un femminile codificato culturalmente nel linguaggio scelto tra tanti altri codici. Non so se ti pare una buona soluzione.
31 marzo 2014 alle 09:28
Buongiorno Giulio e buongiorno a tutti coloro che stanno intervenendo a questa discussione. Devo dire che sono stato sempre affascinato dalla questione posta da Giulio, nelle mie letture credo di aver individuato un genere maschile o femminile nel tratto di chi scrive ma é una sensazione personale. In realtà non mi é piaciuto trovare differenze o avvicinarmi nel giudizio a stereotipi classici. Eppure é accaduto, in maniera naturale. Coltivare un pregiudizio é l’ultima cosa che intendo fare. Nella mia vita ho fatto della trasversalità una bandiera. Ma il sapore di alcune parole o espressioni mi rimanda facilmente ad un universo separato: il maschile dal femminile. Ci sono certamente grandi autrici che hanno una forza androgina o anche semplicemente neutra nel loro scrivere e grandi autori che sanno fare lo stesso al femminile. Ma la generalità tende a volte a marcare una differenza.
Il mio esperimento letterario, nasce proprio da questa allergia al pregiudizio. Ho deciso di togliere il narratore o la narratrice dalla storia e rendere motori del racconto i personaggi principali che sono uomini e donne con diverse età e caratteri. Ho cercato di interpretare il loro punto di vista in maniera oggettiva. Diventando donna quando era una donna a narrare e interpretando un uomo quando era il suo turno, Sforzandomi di parlare e sentire come avrebbero fatto se fossero stati personaggi reali. Non so se ci sono riuscito, non so nemmeno se ho talento per la scrittura. Credo che la storia che é venuta fuori sia comunque interessante, nell’intreccio e nella struttura, a te Giulio il giudizio su questo (ne hai una copia nella tua mail di letture).
Grazie
31 marzo 2014 alle 15:31
Scrive Zauberei:
“Ma esiste una storia pregressa problematica, in cui la psicoanalisi ha fatto una gran brutta figura, su come si intreccia il genere e l’orientamento sessuale nella eventuale psicopatologia.”
Per tacere del fatto che è una storia contemporanea oltre che pregressa (e sarà purtroppo un futuro finché saranno nominati ctu per procedimenti giurisdizionali inutili), va ancora ricordato che né l’identità di genere né l’orientamento sessuale costituiscono una patologia, nemmeno “eventuale”.
Né l’omosessualità o la varianza di genere o l’origine etnica possono essere considerate “causa” di una patologia psichiatrica. Quindi una persona non ha disagio perché ebrea, ma perché sottoposta a minority stress – che ovviamente non è una condizione comune a tutte le persone di origine e cultura ebraica, essendo uno stress provocato da cause oggettive. Dunque “paziente ebreo”, “paziente omosessuale”, “paziente transgender” sono soltanto etichette oggettivanti.
A questo punto vorrei sapere il nome dell’analista che ha in “cura” gli omosessuali. Ma immagino sarà tutto avvolto nel più grande riserbo.
31 marzo 2014 alle 17:04
Naturale che non sono una patologia nemmeno eventuale.
la mia collega non ha in cura pazienti in quanto qualsiasi cosa. Ha tra i suoi pazienti, come me e come tutti anche pazienti omosessuali. No – non voglio dirne il nome. ma tutto questo è ot.
1 aprile 2014 alle 01:31
Tra le bizzarrie concettuali degli “analisti” c’è anche questa: l’omosessualità e la varianza di genere certo non sono patologie psichiatriche, ma anzi sono cure!
Questo tipo di discorso fa passare la condizione omosessuale o di varianza di genere come funzione riparativa di un presunto danno psichico.
Ecco perché, nell’ambito della psicoanalisi, si pretende ancora oggi di “curare” una persona “in quanto” omosessuale o transessuale.
1 aprile 2014 alle 05:13
Scusa, Andrea: ma mi pare che in questo caso tu stia lavorando sul nulla. Vuoi prendertela con gli analisti o, come scrivi tu, con gli “analisti”? Fa’ pure. Ma i tuoi interventi qui mi sembrano privi di qualunque connessione con ciò che ha scritto Zauberei (e quindi privi di qualunque contenuto critico).
1 aprile 2014 alle 13:24
http://www.rivistastudio.com/editoriali/libri/la-letteratura-femminile-in-america/
contributo.
silvia
1 aprile 2014 alle 21:36
Oddio Giulio, proprio sul nulla non credo, io leggo:
“la mia collega non ha in cura pazienti in quanto qualsiasi cosa. Ha tra i suoi pazienti, come me e come tutti anche pazienti omosessuali.”
e
“come si intreccia il genere e l’orientamento sessuale nella eventuale psicopatologia”.
Mi chiedo che senso abbiano queste asserzioni della psicologa clinica che si firma Zauberei.
Qual è la specificità del “paziente omosessuale”, che appartiene a un'”isola”? Bene, e quale sarebbe la specificità di questa “isola omosessuale”? Esiste una ricerca empirica che riesca a definire il contenuto dell’isola? Sinceramente mi pare fuffa che maschera un essenzialismo peggiore di quello biologico, perché almeno quest’ultimo garantisce la possibilità di confrontarsi con la realtà.
Senza contare che non è corretto parlare di omosessualità, casomai delle omosessualità – eh sì c’è varianza anche in questo campo.
Per dare senso allora ho proposto l’idea della “funzione riparativa”, che – forse è bene precisarlo – non ha nulla a che fare con la teoria riparativa di Nicolosi perché non mira a “cambiare” la persona, ma soltanto a fare in modo che la persona si accetti. L’idea è che l’identità sessuale (in questo caso l’orientamento) non si sviluppi in modo innato, ma (anche) in certi rapporti interpersonali, e quando questi rapporti sono per qualche motivo traumatici, la persona riparerebbe la metaforica ferita adattando l’identità sessuale. Nella terapia questa storia dovrebbe riaffiorare. E’ un’idea che ho espresso correttamente e riferito correttamente alla psicoanalisi intesa come sapere condiviso, immagino che anche la sua collega “analista” la condivida. Nulla di strano.
Ma è anche un’ipotesi che si basa su qualcosa che è andato storto, dunque patologizzante.
1 aprile 2014 alle 21:50
Un’altra cosa su cui rifletterei la scrive Giampiero Montanti (ma un’osservazione simile era anche di Zauberei se non erro:
“Ci sono certamente grandi autrici che hanno una forza androgina o anche semplicemente neutra nel loro scrivere e grandi autori che sanno fare lo stesso al femminile. Ma la generalità tende a volte a marcare una differenza.”
Osservare che ci sono scritture non catalogabili nei convenzionali inventari del femminile e del maschile, e dunque ascriverle a una zona “androgina” è comprensibile.
Però si dovrebbe capire che quella non è la zona spuria dell’eccezione che ha come ragione la conferma della regola generale. Bisognerebbe interrogarsi sul significato autonomo che hanno le eccezioni.
2 aprile 2014 alle 01:20
mi limito a dire sommessamente che a mio modestissimo avviso Jane Austen ha scritto ciò che sentiva e non ha introiettato alcun “punto di vista maschile” ma ha raccontato uomini e donne (del suo tempo, e forse non solo del suo)
6 aprile 2014 alle 13:48
Non Ellroy, ma Elmore Leonard.
Semmai. Anche se la sua avversione per gli avverbi è famosa (vedi per ultimo il necrologio sull’Economist), a ben vedere Leonard non obietta all’uso degli avverbi in generale ma soltanto come modificatori di dire o in cliché come improvvisamente.
La letteratura scientifica, nota per fronzoli e ornamenti, abbonda di aggettivi ed avverbi. Un frammento dai miei appunti:
Un verbo e cinque sostantivi contro due avverbi e sette aggettivi. Gli aggettivi e avverbi sono particolarmente densi di significato e non sono pleonastici. Il prezzo per eliminare algebrica, è una locuzione di quattro parole:
Una parafrasi di linearmente richiede un inciso laborioso, qualcosa del tipo: “indipendenti nel senso che non è possibile esprimerne una come combinazione lineare delle rimanenti”.
D’altronde, guardando bene gli esempi nei commenti precedenti, la conclusione che se ne ricava è che gli avverbi e gli aggettivi che non sono necessari si possono togliere. Sbaglierò ma a me sembra che tale conclusione lapalissiana sia valida anche per tutte le altre parti del discorso, sostantivi e verbi inclusi.
6 aprile 2014 alle 14:45
Rimane comunque il fatto che è estremamente difficile poter parlare serenamente di questioni di genere, in questo caso a proposito di letteratura, ma la mia esperienza è simile in altri settori.
La mera menzione di queste tematiche attira immediatamente l’attenzione di chi ci tiene a ricordarci che lui i coglioni ce li ha, di chi ha la (pseudo-)scienza in tasca [vedi l’esilarante commento sull’estrogeno in una Formazione della Scrittrice], di chi è convinto di avere un senso dell’umorismo che neanche Martufello, e di chi, infine, prende qualsiasi tema come pretesto per sfoggiare la propria presunta erudizione (come la sottoscritta, ovviamente).
Avrei voluto anche scrivere qualcosa sul tenore dei commenti sotto la “Formazione” di Gilda Policastro. Me ne è passata la voglia.
6 aprile 2014 alle 16:31
Pensieri Oziosi, puoi mettere i link ai singoli commenti che citi (li trovi aprendoli dal link della data), così li leggiamo direttamente.
30 giugno 2015 alle 11:54
Uh, ho realizzato a distanza di un anno che mi sono dimenticata di rispondere ad Andrea Barbieri: ecco il link 😉
27 gennaio 2017 alle 02:34
Chi ha scritto questo dialogo?
2 febbraio 2017 alle 17:34
Io.
4 febbraio 2017 alle 02:14
ti sei stancato di scrivere, eh giulio?