[Questo è il decimo articolo di una serie che spero lunga e interessante. Ringrazio Chandra Livia per la disponibilità. Chi volesse proporsi, mi scriva mettendo nell’oggetto le parole “La formazione della scrittrice”. gm]
A scuola ero un asino. Facevo fatica a capire un po’ tutto. Soprattutto i numeri, per esempio che avessero un nome, perché sapevo che tre e due fa qualcosa ma il nome cinque non sempre saltava fuori. Molte lettere poi le avevo imparate al contrario, perché il mio primo maestro involontario era stato mio fratello. Lui studiava seduto alla scrivania, io mi piazzavo di fronte a lui appollaiata su uno sgabello, con davanti foglio e matita e ogni tanto gli chiedevo: “Che lettera è questa?” E lui, distratto: “A”. E io la disegnavo, diligentemente, al contrario. Così sembravo scema a scuola. Non sapevo spiegare il perché, tutto qua.
Prima di andare a scuola, attorno ai cinque anni, c’è stata la faccenda di Pascoli. Sempre Max, mio fratello, studiava una poesia a memoria, diceva e ridiceva parole strane, sonore ma che creavano in corridoio delle immagini: rondini, nidi, bambole al petto, cavalline, stelle. Camminando lungo quel brutto e anche un po’ cattivo corridoio, le parole mi colpirono alla schiena, mi immobilizzai e le ricevetti, correvano le immagini un po’ di qua e un po’ di là e io mi dissi solo: “Da grande scriverò in quella lingua.” Finito, non ci pensai più. Ma continuavo a vedere. Chi parlava, chi raccontava, erano tutti circondati da immagini viventi e io restavo stupefatta che facessero finta di niente. Ricordo cosa successe quando mio padre gridò, per fortuna all’aperto, “Porca Madonna!” Apparve una Madonna tradizionale in veste bianca e manto azzurro, ma col viso di porco. Ero terrorizzata dallo spiazzamento. Esperienze incollocabili, come è spesso stato il resto della vita.
Tutto il mondo mi era misteriosissimo, essendo senza mappe. Era famiglia complessa, dico solo di una madre folle, non per modo di dire. La follia è una cultura: imparavo la frantumazione delle parole, il loro non coincidere con le cose, le furie che facevano dire cose immense, gli urli che articolavano altri mondi e certi bisbigli favolosi che aprivano dei fondi impensati, rarissimi, come dei cunicoli tra le parole. C’erano i racconti della nonna russa: “L’inverno non è inverno se non si sentono i lupi.” Mi facevano spalancare la bocca e metterci le mani davanti, inghiottivo tutto, una mappa storta e sbilenca, tutta stracciata. La nonna parlava per sentenze, spesso. O faceva domande imbarazzanti “Perché quella bambina non piange mai?” Ero io quella bambina. E subito dopo: “Non va bene”.
La mamma, in una notte di fuga al mare, si girò come un cane furioso verso di me, che raccolto un pugno di sabbia le dicevo stupefatta: “È fredda mamma!”, e mi soffiò sul collo: “Io non sento quello che senti tu, mai”.
Così il mondo era tutto strampalato, per fortuna c’erano gli animali e i libri. E un’altra sentenza della nonna. Piangevo, finalmente, alle elementari avevo imparato a piangere, stentatamente, per estraneità a tutto, e le dicevo che tutte le compagne mi odiavano, che ero sbagliata e lei disse severa: “Quando sarai più grande, troverai i tuoi amici nei romanzi russi.” Almeno avesse detto in Russia… vabbèh dai.
C’era un libro di poesie per bambini a casa, tutto rotto, ma con bei disegni infantili e parole leggere, si intitolava Piove in giardino di K. di San Faustino: che nome! La mia preferita era questa:
La luna mi dice
che lassù sul tetto
è molto più bello
che dentro nel letto
e io ci andrei
perché so come fare
ma poi ho paura
di non ritornare.
Me la rimasticavo per ore e fissavo il disegno di un bambino mingherlino in pigiama a righe, il letto, la finestra, la luna sbirciona.
Oppure:
Piove in giardino
ma cosa piove a fare
nelle fontane
nei fiumi
nel mare?
Sì, logica bella, logica domandata bene e a nessuno e nessuna risposta, logica solitaria, sì e sì.
La poesia è arrivata subito quindi, perché la mamma parlava fulminante, la nonna sospirava di luoghi lontani e attribuiva ai personaggi della letteratura la capacità di fare compagnia, il padre fantasma leggeva tanti libri come se abitasse in case diverse. Le sorelle e il fratello studiavano cose incomprensibili. La poesia parlava in modi irregolari, era in italiano ma anche in un’altra lingua, lingua di spaventi, colpi al cuore, colpi agli occhi, visioni, cose che crollavano giù e delle meraviglie da aprire la bocca all’universo. E tutto quel bianco. Fissavo gli a capo con misteriosa riconoscenza. Perché lì le parole camminavano così? Che andatura era? Stai a vedere che c’erano i miei stessi silenzi, quella totale perplessità che mi stringeva la gola ma era anche beata. Ma! Forse. Chissà. Mi portava in luoghi così la poesia, di sospensioni, di non so, e diventavano luoghi abitabili.
Direi che vedevo il mondo grazie a lei, non avendo altre mappe. O queste: la mamma mi racconta che Sant’Ambrogio era un prete bravissimo prima di diventare santo e un giorno stava lì nell’anticamera di un vescovo che aspettava l’udienza e non sapendo dove appoggiare il suo mantello, lo appese a un raggio di sole. Quando il vescovo entrò, capì tutto subito, tutto Sant’Ambrogio. Che bello sarebbe stato un portento tranquillo, domestico e dopo uno ti capisce tutto subito. Insomma il disorientamento era una mappa, credo, per il disorientante luogo della poesia, vivevo lì e non lo sapevo. O forse me lo racconto ora per non dire che ero matta anch’io? Ci sono bambini matti?
Poi c’era un pesce, rosso, vinto al Luna Park, gettando palline bianche in bocce di vetro con pesci rossi dentro, temevi di bombardarli, invece se la pallina beccava l’interno della boccia e ci rimaneva, vincevi un pesce un po’ stordito. Si chiamava Casimiro. Lo tenevo nella mia stanza e lo nutrivo. Lo osservavo tanto, per via del silenzio e di quelle parole che pronunciano i pesci sott’acqua, con tutti se stessi spalancando la bocca e sillabando, ma non si capisce niente. Un giorno, tornata da scuola, stava sdraiato su un fianco sul pelo dell’acqua. Pensavo che scherzasse. Invece era il modo di morire dei pesci. E quel giorno ho scritto la mia prima poesia. Trattava del mistero, che ti scombina tutto, di quello che un momento prima c’è e subito dopo non c’è più. Dove? Va? Si apriva uno spazio bianco.
Quell’anno poi è morto anche mio padre, ma di lui non ho scritto. Una morte tragica e severa. Troppi grovigli. Il pesce mi collegava di più con la vita, con il mondo fluttuante. Da lì non ho più smesso di scrivere. E di leggere. Avevo ormai dieci anni.
La morte è stata la prima vera Maestra: formale, severa, senza appigli, mi ha spinto a lasciar segni dell’invisibile, quasi delle prove che quel che non c’è c’è.
Ho continuato ad andare male a scuola. Soprattutto, non capivo la punteggiatura, mettevo le virgole dove pareva a me, un bisogno di una pausa piccina, un fiore o un’erba sul ciglio della pagina, macché, la maestra era furente e una volta disse: “Candiani, quando sarai una grande scrittrice farai quello che vuoi tu, adesso segui quello che ti dico io, una volta per tutte!” Era così ironica, visti i risultati scolastici, che tutte scoppiarono a ridere, ma in segreto mi rimase che c’è una categoria di persone che fa quel che vuole con le virgole.
Ho cominciato a leggere di nascosto, perché un somaro non legge libri, al massimo giornalini. Io prendevo i libri di mia sorella, alle medie leggevo sotto il banco Goethe, Dostoevskij, Tolstoi, Thomas Mann, Musil e via e via, i grandi classici ma di nascosto, come un furto. E Calvino, tanto Calvino. E Ungaretti e Quasimodo e Montale e Pavese. Non so bene com’è andata che ho cominciato a comprare i libri di poesia, i miei libri. In realtà, cercavo la poesia dappertutto, mi stufavo appena uno scrittore si dilungava, mi sentivo abbandonata appena scriveva cose senza sussulto. Cercavo vie di comprensione del mondo e della vita fulminanti. Cercavo la poesia. Sempre leggevo di nascosto, dovevo mantenere la mia identità di somara e un po’ scema, mi sembrava un sacrilegio leggere quei libri, temevo che da un momento all’altro qualcuno, a casa o a scuola, avrebbe urlato: “Come ti permetti!” Un paio di volte è successo quasi quasi così. Comunque, mi è rimasto un senso di clandestinità con la cultura, leggo voracemente, famelicamente, e di nascosto, un po’ in un equilibrio precario, con posizioni sbilenche, appena appoggiata a un muro, sdraiata di traverso, in tram. Spesso, scrivo per terra, un foglietto sul pavimento e una matita. Il tavolo è per il computer e le traduzioni, la terra per la poesia. Scrivo in fretta, all’insaputa di me, se no mi sgrido: “Come ti permetti, somara!?”, correggo dopo, in un secondo, terzo, ventesimo tempo o butto tutto.
Nella cultura mi muovo male, a disagio, goffa e spaurita. Sbaglio i nomi, racconto trame di libri e mi accorgo dalla faccia di un’amica che sto raccontando tutta un’altra cosa. Vabbéh dai.
A poco a poco la poesia è diventata una Via per me, simile a un’arte marziale. Mi sono accorta dopo, quando ho incontrato altre Vie che per me la poesia lo era già, quasi una religione, avevo pure dei precetti senza manco accorgermene: parlare poco se no le parole si consumano, non stare troppo con gli altri se no la solitudine ne risente, stare nella natura se no gli altri regni smettono di parlarmi, non riempire i vuoti se no la poesia mi trova occupata e se ne va, non lamentarsi perché la poesia è spesso uno sguardo grato su quel che c’è. E via dicendo, tutto inconsapevole, l’ho scoperto incontrando altre Vie che avevano i loro precetti e regole e pratiche. Io avevo la poesia con le sue regole tutte mie e bislacche parecchio. Certe volte le cambio. Ascolto molto gli altri ora e dedico tempo a sentire l’aria attorno alle loro parole. Aiuta tutte e due. E apre uno spazio per ascoltare anche la poesia.
Non ho mai pensato a cosa volesse dire essere poeta, ho solo scritto, ubbidito, sentito voci e steso dettati. Poi, ho imparato il mestiere del ciabattino, che scuce, stacca, ricuce, suola, leviga, lucida. Ma l’ascolto è quasi tutto, per me. E qui l’incontro con la grande poesia russa, Marina Cvetaeva, Pasternak, Mandel’ŝtam, Blok, Esenin mi ha dato meridiani e paralleli, coordinate: osare chiedere tutto e offrire tutto, l’esagerazione, che era misura buona per me. “Esagerata, esagerata, come nell’ora della nostra morte.” diceva Marina Cvetaeva. Una visione della poesia sterminata.
Per me, la poesia più che un genere letterario è sempre stata una forma di pensiero, una velocità, un battito cardiaco rapido, un modo di stare al mondo senza ricerca di senso ma di accoglienza, accogliere tutto e tutti e dar voce ai più muti di tutti. Per esempio, gli oggetti, fedeli servitori, nostri quotidiani consorti.
Amo le poesie tradotte, lo so che perdono tanto nella traduzione le poesie, il suono, le sfumature, le geografie delle parole, però acquistano una stranezza, sono spesso accostamenti di parole così improbabili in una lingua propria, parlata e ascoltata da sempre. Sono rotture della familiarità e per questo mi fanno tana. La poesia mi ha formato come essere umano che accetta uno spaesamento radicale e insanabile, mi ha insegnato un silenzio imperativo e anche misure diverse tra il senso e il segno, certe dita che indicavano e indicavano imperiosamente ma non avrei saputo dire cosa e certi significati asciutti che si presentavano bussando fortissimo quasi senza segni, perentori e spogli.
Un vacillare che mi ha dato equilibrio, cioè la capacità di perderlo e riacquistarlo di continuo, una solitudine rispetto alla lingua che taglia, ferisce, esclude, compiace, lusinga, una straniera che trova un villaggetto in cui parlano un’antica lingua di ideogrammi, ideogrammi facciali, manuali e anche fatti di piastrelle in cucina e voli di uccelli. Un mondo ideogrammatico che ti fa tirare un sospiro di sollievo. E ti fermi una notte, magari due. Poi riprendi il viaggio, nel mondo estraneo. Ma aspetti notizie, lettere, cartoline: le poesie. Arrivano. Sono sempre arrivate. Finora.
Entrare nel mondo dei poeti mi è difficile, un po’ come un animale selvatico che va in città, ma poi mi basta uno sguardo bello, una parola bianca, un sorriso e sto meglio. Ma resto una clandestina, una barbona delle parole. Sangue di profuga. Una che le viene da chiedere scusa, perché è fuori luogo.
Vado sempre in cerca di poesia, nutre una mia batteria fondamentale, la cerco nei boschi, nella notte, negli alberi, negli animali, nei libri, negli ascolti, negli sbagli. Soprattutto, nella mancanza. Se accetto di mancare, di assaporare quel mio mancarmi sempre, arriva una brezza di parole. È un dono assolutamente immeritato, non sono stati gli studi, né l’intelligenza, nemmeno la sensibilità, e non certo la bontà, nessuna dote positiva e nemmeno negativa. È così, solo un dono ingiusto. E lo accolgo con un salto e ballo e ballo come una vecchina pazza, felice: grazie mondo!
Tag: Cesare Pavese, D. di san Faustino, Eugenio Montale, Fëdor Dostoevskij, Giuseppe Ungaretti, Italo Calvino, Johann Wolfgang von Goethe, Lev Tolstoj, Robert Musil, Salvatore Quasimodo, Thomas Mann
17 marzo 2014 alle 08:35
Ho letto le tue parole tutte d’un fiato, sul metrò che mi sta portando in quella specie di galera che è il mio lavoro. Di giorno faccio la commerciale, di sera e dappertutto scrivo anche io poesie, quasi di soppiatto, in posizioni scomode, in situazioni improbabili, proprio come piace fare a te. Anche adesso ti sto rispondendo mentre cammino per strada, forse andrò a sbattere contro qualcosa, ma non importa, tanta è la gioia di averti letta e di condividere questo “dono ingiusto”.
Grazie
Patrizia
17 marzo 2014 alle 08:56
Grazie Chandra.
17 marzo 2014 alle 09:12
Non ho mai trovato una così assoluta e splendente identità tra vita e poesia, una coincidenza così sapiente e stupita tra l’essere e il guardare, una così tranquilla constatazione della propria diversa diversità, un omaggio alla maestà delle parole e la loro accettazione come fossero ospiti alieni.
17 marzo 2014 alle 10:10
Ho letto tutto d’ un fiato, impossibile fermarmi. Forse, è per via di tutta quella poesia in questo raccontare. Grazie
17 marzo 2014 alle 13:03
bello trovare sorelle, grazie grazie.
Chandra
17 marzo 2014 alle 15:59
un testo molto gentile, bello. sono attratta da quei ‘precetti’, ho immaginato, dopo averli letti, una carta da parati. posso dire che il mio preferito è questo: ‘non riempire i vuoti se no la poesia mi trova occupata e se ne va’.
quasi sempre, dove c’è semplicità c’è forza.
grazie
(altro nome da aggiungere alla lista ‘cose da fare, libri da leggere)
17 marzo 2014 alle 17:03
Una Poetessa da leggere e seguire. Senz’altro.
17 marzo 2014 alle 17:15
c’è una tale bellezza in questo raccontarsi ed una tale intensità, con il ritmo che solo le poesie sanno avere, che non resta che manifestare gratitudine
18 marzo 2014 alle 13:35
Splendido.
18 marzo 2014 alle 14:12
Si vede che suo padre aveva letto “whoroscope”. La sua era una chiara citazione.
18 marzo 2014 alle 16:18
Mi ha molto emozionato. Se è possibile dire “emozionato”. Grazie per la sincerità. Se è possibile dire “sincerità”.
A presto (alle parole).
18 marzo 2014 alle 17:21
Riporto una mia recente noterella ai testi della sig.ra Candiani ospitati in Nuovi Poeti Italiani 6, a beneficio di chi non li conosce: “Anche qui è raccontato l’amore, ma non rispetto ad un’idea o ad un’autoproiezione, quanto rispetto a piccoli gesti e piccoli incroci concreti. A differenza delle altre voci, si manifesta un chiaro rispetto dell’alterità, un non voler conformare né conformarsi simbioticamente. E’ come se la non tradizionale accettazione della diversità penetrasse questi versi fino a scolorarli. E’ probabile che nel tessuto diaristicheggiante si celi una qualche accettazione desistente e rassegnata, oggettiva.” Saluti. Giuseppe
21 marzo 2014 alle 11:14
per me Chandra sei uno dei punti di riferimento per comprendere, vivere la poesia del nostro presente (Chandra la grande “vecchina pazza” della lirica italiana!), e sono dunque rimasto contento di vedere il tuo nome su “poesia sei”, per esempio. Ho pensato: che bello! ci si accorge e si dà il giusto rilievo alla poesia di Livia Candiani… voglio ricordare che ti ho “incontrato” su Vibrisse in un capitolo del romanzo di Valter Binaghi, “La pigra giovinezza”. Se non sbaglio due suoi personaggi venivano a un tuo reading. E così mando un pensiero a Valter, anche. Grazie Livia per tutta la bellezza che ci doni, perché qualche mistero te l’ha donata!
23 marzo 2014 alle 14:04
Un pezzo semplicemnte magistrale. Raramente mi è capitato di leggere una roba così. Sono commosso.
25 marzo 2014 alle 08:00
[…] La Bambina pugile di Chandra Livia Candiani prosegue il suo viaggio. Qui di seguito Andrea Cirolla ci racconta la presentazione del libro alla libreria Il Delfino di Pavia. Nel frattempo segnalo e invito vivamente a leggere un bellissimo testo di Livia Candiani sulla sua formazione, proposto in questi giorni da Giulio Mozzi su Vibrisse. […]
25 marzo 2014 alle 09:59
[…] La Bambina pugile di Chandra Livia Candiani prosegue il suo viaggio. Qui di seguito Andrea Cirolla ci racconta la presentazione del libro alla libreria Il Delfino di Pavia. Nel frattempo segnalo e invito vivamente a leggere un bellissimo testo di Livia Candiani sulla sua formazione, proposto in questi giorni da Giulio Mozzi su Vibrisse. […]
27 marzo 2014 alle 16:11
Soltanto chi racconta in questo modo di sé e della poesia sa far innamorare i lettori-ascoltatori della propria scrittura. Grazie per quest’apparente lievità e per quest’ironia che rimandano, in realtà, a profondità inaudite del pensiero; grazie per questa contagiosa gioia di essere al mondo.
15 aprile 2014 alle 11:00
[…] Segnalo una recensione, un’intervista, uno scritto di Chandra Livia Candiani sul suo percorso. […]
18 aprile 2014 alle 08:04
Ciao, ti ho captata, come una piccola antennina ho raccolto la tua vibrazione,,,e ti rispondo con le parole di una bimba di 10 aa che voleva descrivere il silenzio.. ” non ho parole per stare zitta ! “…ed io zitta zitta ,sto’ in tuo ascolto… /Chiara
18 aprile 2014 alle 22:09
[…] Segnalo una recensione, un’intervista, uno scritto di Chandra Livia Candiani sul suo percorso. […]
12 Maggio 2014 alle 22:38
[…] in un’intensa prosa in cui ripercorre le tappe della sua formazione «clandestina» e solitaria (https://vibrisse.wordpress.com/2014/03/17/la-formazione-della-scrittrice-10-chandra-livia-candiani/ ). Nel suo precedente libro, Bevendo il tè con i morti (viennepierre, 2007), la levità della sua […]
15 Maggio 2014 alle 10:01
[…] Nadia Agustoni, Alessandro Canzian, Andrea Cirolla, uno scritto di Chandra Livia Candiani sul suo percorso, una mia intervista all’autrice su questo libro, una mia […]
15 Maggio 2014 alle 11:41
[…] Nadia Agustoni, Alessandro Canzian, Andrea Cirolla, uno scritto di Chandra Livia Candiani sul suo percorso, una mia intervista all’autrice su questo libro, una mia […]
4 giugno 2014 alle 21:59
Io vorrei tanto partecipare a un tuo seminario di meditazione . Grazie è bellissimo leggerti . ………….. Adesso che non so più niente che il vuoto è bella dimora che ho passi senza arsura che siedo e imparo a esitare , adesso che non sei più al centro e quello che conta non è più a centro ma spostato tra le mani dove le dita si disarmano e fanno un gesto limato, adesso questa categorica bellezza di rami e cieli pugnala solo perchè entri luce . Io ti auguro di essere felice e ti saluto Daniela .
21 giugno 2014 alle 10:02
[…] inoltre uno scritto di Chandra Livia Candiani sul suo percorso e una mia intervista all’autrice su questo […]
21 giugno 2014 alle 12:28
[…] inoltre uno scritto di Chandra Livia Candiani sul suo percorso e una mia intervista all’autrice su questo […]
4 settembre 2014 alle 10:00
[…] rete si può leggere fra l’altro uno scritto di Chandra Livia Candiani sul suo percorso, un articolo sulla sua produzione, una intervista sul suo ultimo […]
4 settembre 2014 alle 11:16
[…] rete si può leggere fra l’altro uno scritto di Chandra Livia Candiani sul suo percorso, un articolo sulla sua produzione, una intervista sul suo ultimo […]
4 settembre 2014 alle 13:12
L’ha ribloggato su panaceae ha commentato:
Chandra Livia Candiani
18 dicembre 2014 alle 08:26
[…] gruppo con cui lavoro; ho attinto da te, Giulio, da Luigi Dal Cin e dalla sua «penna bambina», da Livia Chandra Candiani, da Gabriel García Márquez e dal suo, bellissimo, Come si scrive un racconto… ). Non si […]
3 Maggio 2016 alle 08:01
[…] rete si può leggere fra l’altro uno scritto di Chandra Livia Candiani sul suo percorso, un articolo sulla sua produzione, una intervista sul suo ultimo […]
4 Maggio 2016 alle 13:52
Grazie. Splendido.
16 Maggio 2018 alle 13:29
Che bellezza
25 Maggio 2018 alle 09:30
Grazie Giulio.Grazie Chandra.
In questa giornata in cui il sole fa sentire la sua presenza fin dal mattino presto e preparo un incontro sulla cura, inciampo in questa pagina…ho letto tutto d’un fiato, solo il silenzio raccoglie le lacrime e quel sottile dolore di una parola che porta dentro, oltre, sulla soglia.
Grazie Chandra.
Come posso contattarla? Ho una giovane amica poetessa (21 anni) che intuisco avrebbe bisogno di incontrarla…grazie, davvero…anche a lei, Giulio di mettere in condivisone questi tesori.
26 ottobre 2020 alle 11:58
[…] Chandra Livia Candiani, poetessa nostrana, intreccia delicate rime di ragnatela, quasi impercettibili nella loro leggerezza, poesie oniriche e discrete, la parola tesa all’ascolto.Per la sua presentazione voglio rimandarvi a questo brano di qualche anno fa che ho avuto da poco la fortuna di ricevere, certa che i suoi giochi di luce sapranno stregarvi a dovere così come è successo a me –> https://vibrisse.wordpress.com/2014/03/17/la-formazione-della-scrittrice-10-chandra-livia-candiani/ […]