di Roberta Pilar Jarussi
[Questo è il settimo articolo di una serie che spero lunga e interessante. Chi volesse proporsi – come ha fatto Roberta – mi scriva mettendo nell’oggetto le parole “La formazione della scrittrice”. gm]
Ho imparato a scrivere come un gioco. Sulle ginocchia di mia madre, a tre anni. Una madre rigorosa e colta, senza carezze e senza baci, ‘anziana’ già alla mia nascita. Che però aveva, ed ha, una grande passione per le parole, dedizione che conserva anche adesso, che, quasi cieca, non può più leggere, neanche scrivere.
Le parole che mi insegnava erano solide, rotonde, erano di carne, erano mani addosso, conforto. Erano una promessa di felicità, sinché durava.
Capannuccia. Tavolino. Pettine. Pettinino rotto.
Imparavo a scrivere a stampatello. Dei disegnini, le lettere.
La A era la Capannuccia. La T, un Tavolino, qui la lettera coincideva con l’iniziale del disegnino, e facilitava le cose. La E era il Pettine. La lettera F, il Pettinino rotto, sdentato sotto. È chiaro, no? E poi l’H, che non ho mai chiamato ‘mutina’. Non era affatto muta, quell’acca. Era dura, respingente. Era un Portone chiuso.
La P, un Pancione, un po’ asimmetrico e sbilanciato, mi è sempre parso.
La B. Un Doppio pancione.
La C, l’Abbraccio che tanto volevo.
C’era un disegno preciso per ogni lettera.
A botta di immagini componevo parole. Ero veloce ad apprendere.
Da quel momento in poi io ho scritto per fare tutto, per chiedere, per dire, per gioco, per risparmiare il fiato, per esagerare, per disperazione, e anche per fare i compiti di scuola. Ma la scuola è stato un fatto assai secondario nella mia vita.
Non ho mai avuto un diario personale, di quelli che tengono le adolescenti anche oggi. Con il lucchetto e i cuori rosa e la copertina imbottita. Riempivo quaderni, o quel che c’era.
Scrivevo sulla carta che puzzava di acido, quella dei progetti di mio padre, le strisce che lui scartava. Quella carta grigiastra non assorbiva l’inchiostro della biro, e intanto che insistevo, mi tingeva la mano, il polso, la camicetta bianca.
Scrivevo su fogli qualsiasi. Foglietti, tovaglioli di carta. Sul bordo della Settimana Enigmistica o dell’Elenco del telefono.
Una volta, di notte, avevo litigato forte con mia madre, lei non si arrabbiava mai, mi puniva con il silenzio, sette, otto, nove giorni di silenzio assoluto, che son tanti per una bambina.
Premi, e punizione, accoglienza o rifiuto passavano sempre per le parole. Forse è per tutti così. Per tutti gli umani, intendo.
Io non sono d’accordo.
Io distinguo le cose, io parlo lo stesso e scrivo, se ho voglia, a prescindere dal male o dal bene che ti voglio. Tengo la parola fuori dal potere che il sentimento smuove. Ecco, diciamo che non uso le parole come arma, ma come strumento. Una canoa, se devo attraversare il fiume. Una corda se devo trainare un peso. Degli scarponi chiodati se devo scalare il ghiacciaio.
Comunque quella notte, dopo la brutta lite senza lite, stavo spaventata, già tremavo di gelo all’idea di ‘sto ghiacciaio da scalare a piedi nudi, e mi sbattevano i muscoli per quel peso sproporzionato che non potevo tirare, e annegavo nel fiume, e il silenzio che da lì a una settimana mi sarebbe toccato, mi toglieva le forze.
Allora ho cominciato a scrivere. Sulla tovaglia.
Era un’incerata chiara con delle foglie verdine, a coprire un tavolo di legno pesante e sciupato, bellissimo, lungo due metri e mezzo, che esiste ancora oggi nella casa di mia madre, e ancora coprono. Peccato. Che il legno dovrebbe stare nudo. Dovrebbe respirare.
La Bic scivolava benissimo sull’incerata, restava anche il solco. L’inchiostro penetrava in quel segno, rimaneva per sempre, una specie di tatuaggio indolore.
Il giorno dopo, a forza di braccia e alcool, neanche Giuseppina, la donna massiccia che faceva i servizi in casa, riuscì a togliere quelle parole. Lei non sapeva leggere. E si fece i fatti suoi. Gli altri, gli altri della casa, speravo in cuor mio che vedessero, che buttassero gli occhi su quel rigurgito, su quel foglio di plastica grande quanto il tavolo sul quale mangiavamo. Ogni giorno. Tutti quanti. Felici e contenti.
Tre o quattro giorni dopo, l’incerata sparì. Al suo posto comparve una tovaglia nuova, spessa, verde bottiglia, tinta unita, ruvida ruvida, refrattaria alla penna. Pareva il telone per raccogliere le olive.
Un’altra volta mi scrissi sulla coscia. Giovanissima body painter.
Scrissi a lungo. Con una lentezza disarmante. Dall’inguine sin dietro al ginocchio, e al polpaccio. La coscia di bambina era morbida e non troppo capiente, la pelle molto umida per via del caldo della mia terra. Le frasi slabbravano nel sudore, sporcandomi la mano, le mutandine, e il vestito.
Ho perso quasi tutti gli scritti di me piccola.
Eppure, credo, qualche cosa da salvare l’avrei trovata.
Ho scritto molte lettere. A tutti. Anche a mio padre, in casa, sinché è vissuto. Troppo poco. E a mia madre, con la quale la parola orale è una roba difficile, indigesta.
E ai fratelli molto grandi, sempre via, già lontani quando sono nata.
Poi, ho scritto molte lettere d’amore. Quotidiane. Di giorno e di notte. Con una dedizione e una costanza che i Whatsappisti di oggi non possono conoscere.
Lettere su fogli di carta pregiata, ritagliata a mano, o su foglietti normali.
Assaggiavo i francobolli, la saliva scioglieva la colla. La lingua era secca, arida, prosciugata dalla mancanza.
Il sapore della colla restava sotto al palato per alcune ore e io avevo la percezione precisa che il viaggio della mia lettera sarebbe incominciato quando finiva l’acre della colla in gola. Allora, sì, mi mettevo tranquilla.
Io sono di Foggia. Della stessa città di Michele Trecca, critico letterario, conoscitore del panorama letterario contemporaneo, e del fermento che da un certo momento in poi ha smosso le acque apparentemente quiete del nostro meridione, attento lettore e scopritore di nuovi talenti.
Io e Michele Trecca siamo amici da sempre. Cioè, lui in origine, era amico di mia sorella grande. Io ero una bambina. Lui, ed altri, erano un gruppo di giovani intellettuali, filosofi di vita, non solo di pensiero, impegnati in politica, ma con uno sguardo lungo e agile che me li rendeva simpatici.
Una volta entrai nella stanza dove mia sorella e Trecca e gli amici loro neanche trentenni conversavano e sfumacchiavano, inquinavano la stanza e bevevano forte, e mi infilai nel bagnetto.
Uscii dal bagno velocemente con la gonna lunga da figlia dei fiori che per la fretta era rimasta sollevata dietro, annodata nel collant. Avevo il culo tondo dentro quelle calze, e si poteva vedere bene. I maschi risero. Pure Trecca. Io mi offesi. Non mi avvicinai mai più a loro.
Incontravo Trecca molto spesso nel mio quartiere.
Lui abita ancora oggi a trenta metri di distanza dalla casa di mia madre, in una città così piccola che se anche fossimo ai capi opposti, ci incontreremmo lo stesso.
Crescevo.
Imbellivo.
Avevo smesso di sprecare parole su tovaglie di plastica. A volte osavo cose a forma di racconto, o di sfogo, ma come si deve. Uno sfogo che avesse la dignità della parola vietata e cattiva, che non si può dire.
Un pomeriggio di maggio, i pomeriggi di maggio dalle miei parti sono assai caldi, un caldo che arriva tutto insieme senza dar al corpo il tempo di abituarsi, avevo incontrato Trecca sotto casa mia, Aspetta un attimo…, gli avevo detto.
Ero salita in fretta, dal cassetto del mobile mio preferito avevo tirato fuori una manciata di fogli, senza scegliere, e glieli avevo portati.
Leggimi, se hai tempo.
Mi aveva guardato seriamente, Trecca, con quel poco di timida ammirazione che ha ancora adesso quando mi incontra. Come s’io fossi una che, bene bene, di che pasta è fatta, mica lo sa.
Giorni dopo mi avrebbe detto che quelle pagine mie, tanta umanità dentro, sì, tanto spessore, tanto cuore, scritte anche bene, ma da un punto di vista narrativo, come dire, proprio non valevano niente.
Scrivi bene, scrivi. Non basta, però.
Nel 2001 stavo facendo un lavoro sulle danze tradizionali pugliesi nell’Istituto Tecnico nel quale Trecca insegna.
Lo incontro nella sala dei professori. Non più bambina. Giovane madre senza marito, di due figli piccoli e maschi.
Ero nera, e disperata.
Ero anche in ritardo, nervosa, le mani impegnate, gli occhiali da sole mi cadevano nel collo, due borse sulla stessa spalla con dentro musiche e calzettoni per le ragazze schizzinose che non volevano ballare scalze, e castagnole [1] per tutti, e poi un radione di vecchia generazione per infilarci dentro cd e audio cassette coi pezzi già selezionati, che a scuola non trovi mai niente, neanche un impianto stereo decente per ascoltare due canzoni.
Era successo un fatto grave, quella mattina.
Mia madre aveva fatto sparire Bulbo, il cane di peluche di mio figlio grande, che però nel 2001 era assai piccolo. Poi lo aveva lavato, Bulbo. Di testa sua, in lavatrice, chissà a quale temperatura, e allora era diventato molto brutto, si era ristretto, s’era fatto ruvido, aveva buttato gli occhi da fuori.
Ora, certo, non era Bulbo il problema, ma io, veramente, ero sull’orlo del fosso in quel periodo, e il bambino con quel suo cane di pezza faceva tutto, a me piaceva vederli impastati insieme, giorno e notte.
La storia, di Bulbo, di me, e del fosso, del bambino, e di quell’altro più piccolo, della mia vecchia madre tanto amata/odiata, certo era complessa, ma io in quattro minuti stretti e accaldati, nel corridoio, là davanti alla sala dei professori, la raccontai a Trecca come meglio seppi, con un dolore sproporzionato ai fatti e una punta di bastarda ironia, anche.
Trecca mi stava a sentire. Come se avesse un codice suo d’accesso e potesse comprendere pure le cose che non si potevano dire. E solo mi disse: Ecco! Adesso ce l’hai la storia. Scrivila! La devi solo scrivere!
Appena finita la lezione di danza a scuola, tornai a casa e, senza neanche fare una doccia, mi misi a scrivere.
Senza avere l’idea di come si scrivesse un racconto.
Senza conoscere regole o criteri.
Conoscevo anche molto poco l’abc, sbagliavo ad esempio tutti gli spazi prima e dopo la punteggiatura, e le virgolette, e i trattini, e la spaziatura tra le righe, le maiuscole e gli a capo, gli accenti sulla è e su perché, poiché, affinché, e i puntini di sospensione, che non erano mai tre, erano due nei casi di sospensione leggera, e diventavano otto o nove nei casi molto gravi, in cui c’era da sospendersi per sempre.
Però la storia uscì.
Ci misi un paio di giorni, credo, o poco più.
Mandai il racconto a Trecca, che ne disse bene. Non correggemmo neanche troppa roba. Nella forma, intendo.
Bulbo fu il mio primo racconto a forma di racconto.
La prima volta che, disperata ma consapevole, restai per alcune ore, giorni, avanti a un monitor a scrivere, leggere, pulire, scrivere e rileggere ancora.
Trecca mi segnò tutti i refusi, tutti gli errori, proprio. Altro che refusi! Tanti ce n’erano.
Mi diede due o tre suggerimenti da tener a mente.
Io sono una che apprende subito.
Ho fatto delle scuole pessime. Mi son ripresa un po’ dopo la maturità. Ma la scuola è la cosa peggiore che io abbia fatto. Ho abbandonato, imbrogliato, saltato, concentrato, condensato il tempo. Due o tre anni in due mesi. Ho abbandonato ancora. Con una inquietudine e un senso di fallimento in corpo che non si possono raccontare.
E nessuno che sapesse tenermi ferma nel recinto o che mi sbattesse definitivamente fuori. Sempre queste cose a metà, sempre nel mezzo, sospesa.
Però quando poi riuscivo a frequentare per cinque o sei mesi di seguito la stessa scuola, la stessa classe, lo stesso banco, gli stessi compagni, davo delle soddisfazioni. Prendevo dei voti alti, molto alti, studiando niente. Era una specie di mistero, perché mica stavo mai sui libri, io.
Dagli anni della scuola, esili, smembrati, come il mio umore d’allora, ho conservato la capacità di apprendere quel che c’è da apprendere, subito, senza perdere tempo, che domani quel che succede non si sa. Con la pelle. Gli insegnamenti mi entrano direttamente dai pori.
Allora, quando c’è da capire una cosa, io la capisco, la imparo per sempre.
Mi hanno detto che parlo a orecchio.
Che scrivo come un jazzista negro del Bronx.
Che scrivo come penso.
Quando danzavo, mi dissero che a furia di girare, saltare e scivolare a piedi nudi da una parte all’altra, pure a scrivere facevo lo stesso.
Che scrivo col corpo, pure mi dissero.
Che è una scrittura fisica, che ha odore e consistenza.
Cosimo Argentina, sul risvolto di copertina del mio romanzo Nella casa, usa frasi tipo ‘Una storia […] vomitata a costo di spaccarsi lo stomaco’, o anche ‘ […] inchiostro raggrumato tra e cosce’, cose di questo tipo. Esagerò, calcò la mano, certo. Glielo feci anche notare, mi disse che lui poteva, poteva esagerare, per far capire come stavano le cose. Che lui se lo poteva permettere.
Una volta un amante mi disse Scopi come scrivi…
Cosa volesse dire, bene bene, non l’ho mai capito, neanche ebbi il coraggio di chiedere delucidazioni, ma mi sembrò un complimento. Sia per lo scrivere che per lo scopare, eppure lui non mi voleva bene e sapeva anche poco di me.
Insomma, il mio scrivere pareva sempre qualche altra cosa.
Sempre c’era un’immagine di fianco, sempre una metafora, un pezzo di corpo, sempre spostare il gesto su un piano altro.
Invece è semplicemente scrivere. Il mio scrivere.
Torno ai tempi di Bulbo.
Scrissi altri cinque racconti. In pochi giorni. In poche settimane. In presa diretta. Senza neanche cambiare i nomi, i luoghi, lo spazio e il tempo. E io là, in mezzo, stretta, a sbattere contro cose vere, riconoscibili. Molto piccole. Minimali. Piccole azioni semplici, di ogni giorno, che diventavano pretesto per raccontare di altro, di altri. Di tutti.
Un fare che adesso sarebbe adeguato, uno stile, sembrerebbe una scelta stilistica precisa, più o meno condivisibile, ma voluta, e che invece allora era l’unico modo possibile per me.
I racconti brevi, alcuni brevissimi, proprio delle istantanee, finirono in un piccolo libro edito da zerozerosud [2].
Il libro, del formato di un Sellerio, si chiamava Dal vivo (zerozerosud, 2002).
Un titolo giusto. Come per lo stile. L’unico titolo possibile.
Bulbo è poi comparso in vari luoghi, on line. Sul sito letterario BookBrothers e, in seguito, sul mio blog In punta di dita, senza che mai nulla fosse modificato della sua struttura iniziale.
Sul quel racconto, feci anche un paio di conversazioni alla Facoltà di Lettere dell’Università degli studi di Foggia, nell’ambito di un laboratorio sulla scrittura creativa.
Alla scuola elementare Montessori di Foggia, alcuni stralci ‘facili’ tratti da Bulbo, coi quei due bambini biondi come protagonisti, furono letti in classe (seconda elementare) e, negli anni seguenti, adoperati in un lavoro sul racconto della propria vita.
Certo lo scriverei diversamente, oggi. Come è giusto. Ma così come sta, non mi disturba.
Nel maggio del 2002, Dal vivo era nato da pochi giorni, fui ospite a Potenza di un piccolo ma interessante festival letterario, Bookmark – future letture [3].
Fu un momento significativo per me. Ogni tanto ne parlo.
Ne faccio cenno in un pezzo scritto in occasione dell’incontro a Foggia con Paolo Nori. Ed è tra le ambientazioni del racconto Il cuore in disparte (musicaos:ed, 2013 – ebook).
Quel festival fu una specie di battesimo.
Incontrai gli scrittori, quelli veri, li vedevo da vicino. Sentivo la voce. Stringevo mani, guardavo occhi, sentivo parole, leggevo il labiale, sfioravo braccia. Erano veri. Belli o brutti. Comunque esistevano. E io facevo, senza averlo deciso e senza meriti, parte del gruppo.
Sentii leggere per la prima volta Paolo Nori, fu un’emozione di quelle che poi te le ricordi e la ritrovi, nel tempo. In piedi, da una parte, mentre a poca distanza da lui altre letture si svolgevano, confusione, rumori di fondo, gente, tutto un sotto e sopra, libri da vendere, copie da firmare, movimento. Col vento che entrava nelle nostre nuche e dentro al suo microfono, e disturbava il suo bel suono.
Conobbi Cosimo Argentina in quei giorni, sempre.
Cosimo era proprio sul mio stesso palco, Andrea Di Consoli ci presentava, faceva troppo freddo per essere maggio, io arrivavo da un sud vero, senza montagne e senza parchi ed ero vestita troppo leggera. Cioè ero vestita giusta, da tavoliere, da grano e afa.
Il freddo o l’emozione mi fecero tremare mentre leggevo, la mia erre ne risentì, ma le pagine da Bulbo che io lessi, piacquero.
Alla fine di tutte le letture, tre giovani donne nel pubblico sedute avanti avanti, io le avevo notate, avevano il mio piccolo libro in mano e mi chiedevamo una firma.
Io, il rituale sacro del fare una dedica mica lo conoscevo, non lo avevo mai agito. Una dedica è una dedica. Se sei là a scriverla, è importate che ci sia un pensiero, dietro.
Intravidi Cosimo Argentina nel tendone dove vendevano tutti i libri di tutti. I passi decisi e i piedi ben ancorati al suolo, da calciatore.
Aveva comprato il mio libro. Lui. E mi chiedeva una firma, una data, un indirizzo email.
Il giorno dopo ripartimmo tutti quanti, ognuno per le proprie destinazioni.
Cosimo, prima di salutarmi, mi regalò il suo romanzo d’esordio Il Cadetto, e Bar Blu Seves che la sera prima aveva presentato sullo stesso palco ‘mio’…
Racconto di Cosimo non perché mi è caro, non perché è uno scrittore che apprezzo, non perché è quello che prima di altri e più di altri mi è stato amico, reale, non solo di penna, intendo. Ma perché, se di formazione dobbiamo parlare, credo che nella mia, di formazione, scombinata e senza scheletro, come le scuole che ho fatto, un tassello forte risieda proprio nella frequentazione quotidiana che da lontano tenni con lui per moltissimi anni, credo sette, otto, senza buchi, e che ancora oggi, assai leggermente, continua.
Non era epoca di Facebook o Whatsapp.
Io, di mio, se avessi potuto scegliere, avrei conservato per sempre la buona pratica dello scrivere le lettere su fogli bianchi con una bella penna nera che scivola. Ma le cose vanno come devono andare. Poi le email sono veloci e immediate. Allora a me piacquero subito. Mi ha sempre fatto gola l’immediatezza. Con le lettere elettroniche ero dentro al momento, in presa diretta. Una specie di tele trasporto dei sentimenti.
Allora noi usavamo quelle.
Una al giorno, o due. Mica troppe, come si fa adesso. Che ogni due o tre parole lanci l’invio, e il discorso che nasceva fluido, complesso ma ben sistemato, si sbriciola in infiniti frammenti e in altrettanti piccoli suoni metallici per ogni parola che parte.
Raramente saltavamo un giorno, doveva proprio succedere qualche cosa di grave.
A pensarci ora, credo che non saltammo mai.
Scriversi è interessante.
Ma interloquire con uno scrittore, scrivere, con le parole ferme là, che si vedono e restano, è una palestra. Un piccolo esercizio quotidiano. Non lo sapevo, non ci ho mai fatto caso. Magari me lo sto inventando adesso, ma mi pare così. Come passeggiare senza una meta, ma ponendo attenzione ai piedi, alla schiena. E allora quei quattro passi diventano un’azione importante. Fanno anche bene.
Fa niente quel che entra nelle lettere. Quel che conta, ma io non lo sapevo, l’ho capito poi, è una specie di continua naturale attenzione alla parola, che non sbraca mai, non è mai brutta, non diventa mai sciatta.
Gli scrittori ‘scrivono’. Scrivono sempre, scrivono anche dentro un sms. Mica lo fanno a posta. Scrivono come si deve, voglio dire. Hanno quei ‘muscoli’ là, quelli che servono proprio a scrivere, che funzionano. Funzionano bene. Un atleta che corre a prendere il tram, ha muscoli lucidi intuibili sotto i vestiti.
Io intuivo quelli di Argentina, in tre righe di mail, e mi erano di esempio, ne facevo tesoro.
La sintesi, poi, era importante. Il buon uso della parola nella sintesi, nei messaggi brevi, mica lettere d’amore, mica il racconto della propria vita, o lunghe confessioni.
Tenere viva questa semplice azione quotidiana, banale, con uno che nella vita non fa il dottore o il commerciante, ma lo scrittore, mi faceva sentire scrittrice. Certo questa è una sciocchezza di bambina. Eppure non mi sono mai più sentita tanto ‘scrittrice’ come in quegli anni di scambio epistolare.
Il contenuto delle lettere era vario. A volte superficiale.
Ma ci furono, nel mezzo, anche alcuni confronti sulla scrittura. Lui mi dava qualche volta delle mezze pagine da leggere, inedite. Che ho poi ritrovato nei suoi libri. Negli anni. Io, capitoli interi del romanzo Nella casa, al quale stavo febbrilmente lavorando, e che sarebbe poi uscito nel dicembre del 2003.
Davo a Cosimo molte cose. Argentina è un grandissimo lettore. Leggeva subito, leggeva tutto. Non che mi abbia mai corretto niente, non che abbia modificato o messo mani nelle pagine mie, eppure io respiravo quell’aria, quest’accortezza.
Insieme a questa percezione emotiva della cosa, ci fu poi un aspetto più laico, anche. Poche indicazioni, scarne e molto dirette, sul mio lavoro in opera. Che io ascoltai. Facendo sempre una certa resistenza, come una madre meridionale che difende pure i difetti del figlio, ma che ascoltai.
Da quel 2002 in poi non ho più smesso di conversare con gli scrittori, contraddicendo quel luogo comune che in parte è assai vero, secondo il quale gli scrittori tra loro non sono mai veramente amici, mai davvero complici, mai della stessa razza, ma sempre ognuno un poco meglio dell’altro, sempre un passo oltre, e poi sempre diffidenti, blindati e armati, e pure invidiosi.
Non è un bell’ambiente.
Io invidia, no. Eppure ho pubblicato meno di tutti, o di quasi tutti. Certi mi piacciono molto, certi molto meno. Ma quelli che mi piacciono, li tengo in un luogo inattaccabile. Da loro, rubo.
Io non ho mai fatto un corso di scrittura creativa, se è questo che importa sapere. In realtà ho delle perplessità profonde sul senso della parola ‘creativo’. In qualsiasi ambito. Giardinaggio creativo, cucina creativa, lettura creativa, e tutti questi bei corsi che fanno. Ogni tanto glielo chiedo agli scrittori creativi miei amici che tengono i corsi di scrittura creativa. Com’è che si fa. Anche a me piacerebbe tenere un corso di scrittura. Di scrittura normale. Non creativa. Ho chiesto a questi amici scrittori se fosse una mia fisima, o se non provassero pure loro un disagio estremo, una specie di orticaria a vedere il proprio nome e cognome sulla locandina, proprio sott’al titolo in grassetto CORSO DI SCRITTURA CREATIVA. Con alcuni ci siamo capiti. Con altri no. Certi non provano proprio nessun disturbo, nessun prurito.
Fastidio a parte, sono certa che qualche cosa si possa insegnare, o trasmettere. E imparare.
Trasferire, come da una damigiana a una bottiglietta. Questo passaggio di conoscenze, una trasfusione di liquidi.
Se lo dicono a me, che sono creativa, io quasi mi offendo.
Tanti anni fa, quando frequentavo l’Accademia delle Belle Arti di Foggia, nel corso di Scenografia, un luogo per sua natura, com’è ovvio, pieno zeppo di ragazzotti e giovani donne creative, giovanissime, e professori creativi, di varie età e varie misure, erano creative anche le porte e i soffitti e le pareti decorate a mano, e i bidelli coi loro vezzi e i loro tic e certe abitudini un po’ strampalate, molto idonei al luogo, pure loro, dunque, una volta, tanti anni fa, incappai in un professore di design industriale molto creativo, mi verrebbe seriamente da dire. Eppure veramente bastardo, glaciale. Senza sorrisi, senza una battuta, senza il Tu. Non c’era un Tu per nessuno, ci dava solo del Lei, a tutti! Senza un capello fuori posto, senza pantaloni rigati e camiciole con il collo alla coreana fuori dai pantaloni. Senza mani morte sui culi più belli, e dita appuntite che sfiorano quello che capita, uno che non ha mai messo la lode a nessuno, anche il 28 o il 30 li metteva di rado (io lo presi il 30 con lui), uno che aveva deciso che il suo corso doveva durare minimo due anni, anche se nessun esame complementare, per legge, in nessuna Accademia delle Belle Arti di nessuna città d’Italia, in quegli anni, era biennale. Lui decise così, e così fece. Per fare l’esame con lui bisognava frequentare per due anni consecutivi, ma frequentare, letteralmente, non segnare la presenza.
Beh, lui prese la parola ‘creativo’ e la face in pezzi su quei tecnigrafi, tra righe, squadre e rapidograph. Ci insegnava il rigore, i calcoli, i numeri, gli angoli, misure spaccate al centesimo di millimetro, l’osservazione, il ragionamento. Ci insegnava a fare un progetto. Insegnava a fare delle scelte precise, ad avere un punto di partenza, uno di arrivo. A non perdere, nel frattempo, la direzione, qualsiasi fosse la distanza tra i due punti. Ad individuare un motivo, e saper poi raccontare queste ragioni anche agli altri.
La creatività vaga e senza contorno cedeva il posto a linee, punti, proiezioni e, solo all’interno di questa griglia rigida, poteva crescere, e esistere.
Silvano Pellegrini, mio professore di Design Industriale nel 1988 e 89 mi stava insegnando senza volerlo un metodo che mi sarebbe poi servito in altre cose, assai distanti dal progettare un oggetto industriale.
Io non sono neanche una che legge tutto quello che gli scrittori contemporanei italiani pubblicano. Pur volendo, non credo sia possibile, per quanta roba esce, e non sempre buona. Non sono una fedelissima frequentatrice di presentazioni, reading, tavole rotonde, convegni e incontri letterari, che spesso mi annoiano pure molto. Ho più amici disgraziati che intellettuali. Purché siano generosi, e abbiamo guizzi di intelligenza, di genio. Anche la cultura di strada va bene.
Non sono una fan sfegatata di Radio Tre, non ventiquattro ore su ventiquattro, con quelle voci dense che a volte mi distraggono e mi immalinconiscono. Non seguo Fahrenheit, non tutti i giorni, anche se alle volte mi appassiona molto, e Sinibaldi ha una voce che acchiappa.
Spendo poco in libri, per via dei mio reddito striminzito, devo dire, mica per cattiveria. In compenso lavoro, quindi vivo per più di metà della mia giornata nella Biblioteca Provinciale della mia città, in mezzo ai libri e a gente che respira libri.
Non faccio e non sono tante cose che gli scrittori ‘veri’ fanno, e sono.
Ma ho avuto e ho degli amici che scrivono, che scrivono sul serio intendo, e fanno questo nella vita.
Ho avuto delle impagabili conversazioni con gli scrittori.
Ed è la cosa che nella mia formazione ha più peso.
Nel dicembre 2003, Nella casa (Palomar, collana Cromosoma Y diretta da Michele Trecca e Andrea Consoli, 2003) esce.
Il romanzo, in buona parte autobiografico (io personalmente credo che il concetto di autobiografia sia poco significativo, ma il lettore ci tiene, quindi lo dico io, prima che qualcuno me lo chieda: in buona parte è autobiografico) raccontava circa cento anni di storia, di una famiglia del sud, attraverso tante comparse e un’unica figura centrale. Le mura della casa fanno da sfondo a quasi tutte le vicende, testimoni di sfaceli e umanità, racconterebbero molto se avessero voce. Ma la figura più importante della storia è l’Architetto, il padre morto, del quale si racconta tanto, che però non c’è.
Il libro esce puntuale sotto gli occhi increduli dei più severi della famiglia che sino all’ultimo non credevano che avrei fatto sul serio, con tanto di ringraziamenti ad Argentina, al mio psicoanalista, che mi aveva sfiancata a furia di rivoltarmi, a un nipote grande dei miei, che ebbe cuore di leggere buona parte del manoscritto senza spaventarsene troppo, e ai miei due figli maschi, allora molto piccoli, ora ragazzi, che mi avevano costretta a scrivere in condizioni di disagio estremo, sempre, in un tempo maledetto, all’alba, o tardissimo la notte, sviluppando in me una specie di straordinaria attitudine all’isolamento, che è una condizione preoccupante in sé, ma può diventare, se auto provocata, un’immensa risorsa, una bacchetta magica che ti permette di fare quello che vuoi, quando vuoi, ovunque, e in qualsiasi condizione fisica e mentale tu sia.
Il disagio stimola la ‘creatività’, mi dicevo.
Io non ho mai scritto su una bella terrazza al tramonto, avanti al mare. Incastrata comoda dentro uno sgabello ergonomico, con le ginocchia perfettamente angolate e la schiena dritta dritta. In campagna, con le cicale, il pane e l’olio, e l’odore di grano arso nel naso.
Io ho sempre scritto come una bestia. Nervosa. Storta. In cattività. In una casa abitata, disordinata, chiassosa. Coi figli sotto la sedia che giocavano tra le mie gambe. E qualche cosa di molto urgente da fare, preparare da mangiare ai bambini, rispondere al telefono, dare retta a mia madre vecchia, nutrimi io stessa, spesso con una stanchezza senza speranza, il buco allo stomaco e una voglia disperata di chiudere gli occhi, cose semplici di questo genere che però non potevano aspettare, e che invece, poi, aspettavano sempre.
Due mesi prima che Nella casa uscisse, quindi nell’ottobre 2003, fui selezionata a Ricercare – Laboratorio di nuove scritture, a Reggio Emilia, con un capitolo tratto dallo stesso romanzo, dal titolo La verità (ora in ebook: musicaos:ed, 2013).
Lessi le pagine faticosamente, il primo giorno del convegno, davanti a un pubblico di scrittori a me per lo più sconosciuti, editor, editori e critici, e un comitato tecnico severo.
La lettura fu difficile.
Lo stralcio del romanzo che avevamo scelto per “Ricercare” raccontava, in presa diretta, l’aborto di una diciasettenne.
Il leggio, i fogli sopra, il microfono, la voce e la mia erre dentro, oscillarono. Al medesimo ritmo, però. Senza disturbo. Senza stonare mai.
Alla fine della lettura ero vuota.
Giuseppe Goisis, tra gli autori nel pubblico, si avvicinò a me e mi disse all’orecchio “Una storia! Proprio una storia, finalmente”…
Fui colpita dal timbro della sua voce, pulito, potente ma perfettamente misurato (non sapevo, allora, che cantasse), una voce che teneva conto di tutto, della gente intorno, chi stava in vetrina, chi in poltrona, chi faceva il suo giro in passerella, chi come me implodeva.
Stavo imperlata di sudore.
Nei giorni a seguire fu una carrellata di autori sempre più importanti, voci sempre più nitide. Editori sempre più forti.
Mi piacque tanto Vanessa Ambrosecchio, è una di quelle che ricordo di più, lei lesse un pezzo dal suo Cico c’è (Einaudi). Anche le sue pagine raccontavano di uteri e femmine e feti, di letti di ospedale e lenzuola asettiche, qualche cosa del genere.
Il giorno dopo sulla pagina della cultura de La Repubblica venne fuori un articolo con un titolo tipo Ricercare sforna la letteratura ginecologica. Non doveva essere proprio un complimento. Credo fosse piuttosto offensivo, ma a me piacque essere accomunata a lei.
Conobbi Grazia Varesani. Aldo Nove, Marco Baliani.
Tanti ce n’erano.
Ricordo bene Mario Cavatore, austero, grosso. Esordiva non giovanissimo, mi pare, e la cosa mi faceva sentire piena di futuro. Lui lesse alcune pagine da Il seminatore (Einaudi) e poi Francesco Tripodi, che ci aveva pure provato con me, ma appena appena, per ridere, e che nel dopo cena diventava molto divertente e animava la comitiva.
Il convegno, a letture finite, fuori dal palazzo, fuori dagli occhi stretti dei nostri giudici, in albergo e al ristorante, prendeva il sapore di una gita scolastica, c’erano battute, giovinezza e livelli alcolici alti, da adolescenti che neanche tanto reggono, che non si conoscono ma condividono gli stessi luoghi e qualche segreto.
Divenni amica di Goisis. È una amicizia che conservo tra le cose più preziose che ho. È parte del mio presente. Non è storia. Lo sa che avrei parlato di lui qui.
Lui è un amico, non solo letterario.
Ma con lui ho condiviso molte scritture, come con nessuno.
Goisis mi fa sempre leggere cose sue molto difficili, molto belle, complete, finite. Mi chiederebbe un parere, in realtà. Ma io non ho mai niente da dire. É tutto a posto. Ha una scrittura potente. Se lasciata libera, selvaggia, sconquasserebbe per quanto è forte. Invece ha misura ed equilibrio. Come con la voce.
Io comunque porto fortuna. Se entro in casa mentre la Roma gioca, la Roma poi segna. Se arrivo al mare ed è tutto coperto, poi il sole esce. Se leggo i racconti inediti di Goisis, magari presto glieli pubblicano.
Abbiamo pure avuto l’idea, Goisis ed io, di fare una selezione delle decine di migliaia di brevi, medi e lungi messaggi che dall’ottobre 2003 ad oggi ci siamo mandati, e di farne un racconto epistolare a due voci. Certo l’idea è vecchia quanto il mondo. Ma il ritmo sarebbe nuovo, sarebbe il nostro, e la scrittura, la qualità della scrittura, alta.
Quel che accade oggi è uno stazionare quotidiano nelle pieghe di una scrittura non sempre definita, spesso senza un obiettivo e senza una ragione.
Io, intanto, scrivo.
Bisogna scrivere, per due motivi. Perché la possibilità concreta di una pubblicazione, nella quale si può inciampare, pure senza volerlo, non mi colga impreparata. Perché se scrivo respiro meglio.
Quel che ho in mente oggi, e che sembra probabile, è pubblicare dei racconti, un libro di carta, ci tengo a specificarlo, con musicaos:ed.
L’incontro con Luciano Pagano, anima di Musicaos, scrittore, blogger, e molte altre cose, è stato un incontro ricco.
Con lui ho avuto uno scambio schietto e concreto su alcuni aspetti importanti della scrittura. Cose terra terra, anche, come la difficoltà del pubblicare. Che a volte ce ne dimentichiamo, come se la poesia fosse anche pane sulle nostre tavole.
Un confronto, anche, sul restare integri in questa jungla, senza perdere dignità, e fierezza, e senza esserne schiacciati.
Lui è uno giovane, non un ragazzo, ma giovane. E davvero giovanissimo era quando iniziò. Il momento in cui incominci conta, perché significa che avevi ossa tenere e la mente pulita quando hai cominciato a buttare gli occhi tutt’intorno e davanti, a prendere mazzate e parare colpi.
Pagano è uno che vive in una terra di confine, che più giù di quel pezzo d’Italia, non trovi niente, soltanto mare, acqua. Bellissima, ma sempre acqua. In una regione, il Salento, che sforna talenti senza fermarsi mai e scoppietta di idee e azioni e vitalità, e bellezze, dal mare in poi. Non è un luogo devastato e inospitale come la mia terra, arida e arrogante, non è avvelenato e tossico come la terra di Taranto, ad esempio. Il Salento è solo bello, ed è fiero di quel che è. Ciò non ostante, o forse proprio per questo, è a volte un luogo dove la tentazione di sminuire il valore altrui, per invidia o solo per vezzo, un fare quasi involontario, è sempre là, in agguato, e bisogna vigilare, bisogna avere rigore, e restare un passo distanti, anche, non per superiorità, ma per non perdere di vista le cose che contano, per non perder tempo, per non entrare in un meccanismo poco sano, poco utile, soprattutto.
Pagano è uno che sta fuori dalle ruspe demolitrici, da quell’essere tutti amici, quindi tutti nemici, senza capirci niente. È uno che fa la parte sua, silenziosamente, senza troppo rumore, senza schizzare l’acqua in faccia a nessuno quando nuota.
Io ho pubblicato tre racconti [7] grazie a lui, e a Musicaos, che nel frattempo da sito letterario diventa casa editrice.
Soprattutto dal suo esempio ho appreso la tenacia. Il resistere, con amore (Resistenza e amore, recita Alessio Lega), con tanto di guerra in corso, in un momento storico oggettivamente ostile, che ci vorrebbe tutti silenti e quieti, senza grandi possibilità, se non per quelli che hanno davvero un talento grandioso e indiscutibile, come è giusto che sia, o per chi ha delle dritte potentissime, che è meno giusto.
Bisogna lavorare, invece. Comunque.
Bisogna insistere.
Bisogna scrivere. Se sei uno che scrive, non devi smettere di scrivere.
Molte cose mie sono finite in rete.
Alcune delle cose da me postate negli anni d’oro di Booksbrothers.it, sono poi rientrate in una antologia che si chiama Frammenti di cose volgari.
Le cose a me più care sono sul mio blog personale In punta di dita, e sul blog Roberta Pilar Jarussi. scritture.
Sempre insieme al mio amico Trecca, che da che ho memoria ha organizzato le cose culturali più consistenti in questa città, nel 2006 ho curato l’organizzazione del convegno nazionale sui blog letterari “Le tribù dei Blog” [9].
Uno dei miei pezzi presenti nell’antologia Frammenti di cose volgari, è proprio una cronaca emotiva di quanto avvenne nei giorni del convegno, si chiama Scrivereparlare.
Tanti di quei ragazzi o giovani uomini e donne, blogger senza sponda a quel tempo, li ho poi ritrovati anni dopo.
Al lavoro, in Biblioteca, su ordinazione, per altri, spesso a nome ignoto, qualche volta a nome mio, scrivacchio cosette, con poco cuore, ma mai del tutto prive di me, ed è comunque un esercizio quotidiano che faccio con gusto, non per dovere. Come andare a nuotare in inverno. Il cloro non è certo il sale del mare, ma stare in acqua è piacere vero.
Mi capita di presentare degli autori, preferisco presentare scrittori che mi piacciono moltissimo, o molto. Qualche volta però mi è capitato pure di presentare autori neutri, o brutti, senza neanche un lampo di godimento per me, eppure qualche cosa ne è venuta fuori.
Tutto è palestra.
Quando gli autori e i libri che presento mi piacciono moltissimo, o molto, ne scrivo dei pezzi, non sono mai delle recensioni vere e proprie, ma una specie di racconto di me che leggo quel libro, di me che scopro un modo e m’impasto alle pagine, di una scrittura altra che entra nei fatti miei. Il racconto di quel che succede.
Credo che leggere sia poi questo. Mischiarsi.
Per quattro anni e mezzo, dal 2006 a tutto il 2009 ho lavorato al progetto e premio letterario nazionale “Libri a trazione anteriore” [11], insieme a Michele Trecca.
Lui, sempre. Il mio angelo custode letterario, in questo caso era ideatore e direttore artistico del progetto che stavamo realizzando grazie alla Biblioteca Provinciale e alla Provincia di Foggia.
Dal secondo anno al quarto siamo entrati in carcere, anche. Insieme ai ragazzi del ‘Kollettivo’ di lettere dell’università di Foggia che idearono Baol, un concorso per scrittori esordienti. Un progetto che viaggiava parallelo a Trazione, mano nella mano, ma con gambe proprie, forti e giovani, tant’è vero che Trazione è finita, e Baol no. Baol cresce e continua.
Portavamo gli scrittori e i libri tra le sbarre e parlavamo dei romanzi, delle storie, anche quelle che non c’erano tra le pagine, storie nostre, storie vere, parlavamo di strappi, di fantasmi, d’amore.
Le storie di mancanza, d’amore e di spavento, tra le sbarre, con quel rumore di ferro che ci sbatteva alle spalle e nel cervello, ogni tre passi, e ci blindava dentro, venivano proprio bene.
‘Dentro’ saltano le unità di misura, il peso, la grandezza, i tempi, il numero dei volumi pubblicati, la forza di un nome e cognome…
La storia è tutto quello che conta.
È tutto quello che c’è.
Dentro non contano neanche la bellezza, la giovinezza, la vanità. Conta un po’ il sesso, forse, nel senso che se sei femmina l’impatto iniziale è diverso, ma è solo il primo momento.
Anche il più corazzato degli autori, quello con l’Io più gonfio, ne è uscito senza vestiti.
Ho una memoria nitidissima di ogni singolo incontro.
Valeria Parella parlò quasi sempre in inglese, a bassa voce, seduta tra i banchi della chiesetta che quel giorno s’era trasformata in sala d’incontri e ci ospitava. Cambiava sempre di posto, si avvicinava ora a una, ora a un’altra, leggera e poco ingombrante com’è lei, ma con la sua presenza fortissima. Erano tutte donne, quel pomeriggio, erano straniere, quasi tutte straniere, e l’italiano non lo capivano. C’erano pure due bimbetti, non avevano neanche due anni. Uno beveva al seno di sua madre ventenne. La guardia, donna pure lei, ci raccontò che quando ci sono dei bambini evitano di chiudere le sbarre, la cella la lasciano aperta.
Ogni tanto Valeria Parrella si rivolgeva a tutti e diceva le stesse cose in italiano. Faceva un poco e un poco.
Nicola Lagioia era spiazzato, e molto serio. C’era insieme a lui una fidanzata molto scosciata, poco vestita, su tacchi molto alti, che di certo aveva sbagliato abbigliamento.
Flavia Piccinni, così garbata e griffata, capitò tra pedofili e stupratori. Ma nessuno di noi lo sapeva. Ce lo dissero dopo. Io non capivo cosa ci fosse di strano quel giorno, ma tutti gli occhi erano bassi, non c’era insolenza, non c’erano domande, non c’erano risate né complimenti. Un‘aria densa irrespirabile, un disagio faticoso che mi faceva male alle ossa, Non ci vengo più qua!, avevo pensato per due volte.
Flavia mi stava di fianco, come una figlia. Come se io potessi qualcosa.
Cosimo Argentina parlò poco del suo libro, cattivo e maledetto, molto di più di un bar tarantino, e della strada che bisogna fare per arrivarci, anche di una certa pizza molto piccante, parlò, una cosa tipica che da qualche parte fanno. Perché nel pubblico, quel giorno, cioè tra i detenuti, c’erano un paio di tarantini, e loro avevano letto il libro e avevano trovato tanti pezzi di città, avevano riconosciuto angoli di strade, spigoli di muro, pezzi di marciapiede, erano tornati là, e avevano avuto voglia di parlare di questo. E anche Cosimo. Anche Cosimo stava tornando là, a casa sua, per un momento in fuga dalla Brianza, tra le sbarre, e voleva parlare della stessa cosa.
E poi tanti altri.
Tanti quelli che passarono.
Dopo, in Biblioteca, tra pochi addetti ai lavori e una crocchia di intellettuali preparatissimi e motivati, sempre gli stessi, dopo, dopo essere stati in cella, le conversazioni venivano diverse. Non so dire se meglio o peggio. Ma diverse.
Noi organizzatori insieme agli scrittori, arrivavamo imbambolati. Senza molte parole, con un po’ di vertigini, e il bisogno di allungare una mano su qualcuno o qualcosa, che appena restavi fermo, vacillavi. La sensazione che avevo io, ad esempio, era che se non mi fossi tenuta, sarei caduta per terra.
Devo tutto a Sergio Colavita [12], mio giovane amico, caro. E collega. Perché senza di lui che mi teneva il braccio all’andata e al ritorno, io non sarei andata da nessuna parte.
Io uscivo sfinita.
Spesso con sintomi veri da attacco di panico vagamente tenuto a bada, che poi mi duravano molte ore, una notte intera, qualche giorno.
Ma a parte me, tutti noi eravamo senza lo strato più esterno di pelle. E il pubblico composto e per bene, all’inizio ci guardava storto. Come se non capisse. Come si gli mancasse un pezzo. Come se faticasse a prendere il ritmo nostro, ad acchiappare il filo.
Noi ci guardavamo intorno, piano. Dopo un po’ ci accordavamo al luogo e alle persone, e tutto funzionava benissimo. Ma un pezzetto invisibile di carne restava nuda.
Ognuno di noi, a suo modo, ha provato una sensazione simile a questa che descrivo qua. Non ce lo siamo mai detto, quasi mai. Ma fu un segreto che in quelle settimane, e anche nei mesi a seguire, ci unì.
È il lavoro migliore che ho fatto. Quello da cui ho ricevuto di più, e nel quale più ho dato.
Quel che accade oggi è non posare la penna.
Quel che accade, è interloquire con chi scrive molto meglio di me.
Quel che capita, senza volerlo, è amoreggiare (in senso artistico) con chi scrive bene, benissimo, con chi abbia qualche cosa che proprio a me manca.
Certe conoscenze. Tutti i saperi scientifici, ad esempio, mi eccitano molto.
O la grande capacità ad articolare le trame, difficili, complicate, ma sempre come se costruirle fosse un atto semplice, naturale.
L’ironia. L’ironia è difficile. Non so perché, per le femmine è più difficile che per i maschi. Non so se è così. Ma per me è difficile.
La sintesi. Che pure mi manca. Quel sottrarre ricami, dettagli, aggettivi. Ma ci sto lavorando.
Ho invece imparato a raccontare il sesso. Nudo e crudo com’è. Anche sporco, se serve, senza necessariamente mischiarlo all’amore, che l’amore sta da un’altra parte, ma senza che diventi osceno.
Raramente i racconti di sesso mi sembrano credibili. In genere sta sempre qualche cosa che stride, una parola che guasta, o un pezzo che manca. Troppo zucchero. O troppa carne in mano. Allora ho avuto bisogno di provare a raccontare il sesso in un modo che mi convincesse.
Poi mi piacciono i colpi di scena, quelle storie che riservano delle sorprese, certe piccole cose inaspettate che arrivano non si capisce da dove, e mutano all’improvviso il colore della storia.
Mi piace molto ridere. Mi piace ridere, mentre leggo, mi piace anche piangere.
Poi mi piace eccitarmi, quella voglia urgente di infilarmi una mano tra le gambe.
Ecco, devono succedere tutte queste cose, o almeno una tra queste, mentre leggo. Quindi mentre scrivo.
Mi piace la scrittura che entra nel copro, e la vita vera che entra nella scrittura. Quando s’infila con prepotenza tra le pagine, anche se non l’hai deciso. Perché non hai potuto isolarla, non hai potuto chiuderti in una stanza insonorizzata e lasciare tutto il mondo fuori. Mi piace la vita quando spinge e si ficca, con tutti i suoi tic, i guasti, i difetti, le crepe, le malattie e certe brutture. A me i guasti e le brutture non mi fanno paura. Ci trovo dentro del buono.
Mi piacciono poi le storie d’amore, ma di amore senza abbellimenti, quello disarmante. Anche cattivo.
Non mi piacciono le cose dolci, i merletti, neanche il lieto fine, io forse non ho mai scritto niente, neanche un racconto breve, una favoletta per i miei figli quand’erano piccoli, una filastrocca in rima, che avesse un lieto fine. Anche quando leggo un romanzo e guardo un film, il lieto fine mi disturba, un disturbo fisico, una specie di nausea.
Mi piacciono i lieto fine assai celati. E le fini drammatiche che però hanno speranza. Come nella vita. Il lieto fine non esiste, se esiste si veste d’altro, non si fa riconoscere. Ti mette alla prova.
Ho letto, non moltissimo credo.
La mia scrittrice preferita è Agota Kristof, lei è scarna e spietata. Non concede niente. Il mio scrittore preferito non so, ma di sicuro L’uomo sentimentale di Javier Marìas è un libro che da un certo momento in poi ha avuto a che fare con le cose che scrivo. Per la sua struttura, per come sono montati gli accadimenti, per quel che si vede e per tutto quello che non compare mai, più che per i fatti che racconta, o per lo stile.
E poi, le lettere. Che sono d’amore.
Io scrivo lettere d’amore. Tutte le volte che ho avuto amore, l’ho infilato in una lettera. É la cosa che in vita mia che ho scritto di più.
Mi piace dire grazie, anche. E scusa. Perché secondo me noi non diciamo molte volte grazie. Neanche scusa. Come popolo, dico. Come generazione. Come specie animale. Invece grazie e scusa sono parole semplici, suonano anche bene.
Ho avuto e ho a che fare con molti autori, belli e brutti. Non li ho nominati tutti.
Anche se tutti qualche cosa mi danno.
Certi li voglio ringraziare.
Michele Trecca, per esserci da sempre.
Cosimo Argentina, per tutti i motivi che ho raccontato, e per i suoi romanzi, uno ad uno.
Giuseppe Goisis, perché quando scrive, o canta o va in scena, lascia pezzi di sé.
Paolo Nori, grandissimo. Perché ho scritto un pezzo per lui, mi ha detto Brava! e io gli ho creduto.
Antonio Pascale, per tutte le cose che sa, per tutte le cose che mischia, per come confonde le carte, per la lingua familiare. Perché parla di sentimento in un modo laico.
Nicola Lagioia, che ha letto con attenzione delle mie cose inedite e mi ha risposto prestissimo, e seriamente.
Alessio Lega, cantautore di testi veri. Perché mi ha cantato una canzone.
Mario Desiati, perché racconta le storie. Perché ha misura. Poi, racconta il desiderio e quando io lo leggo mi sento una non proprio straniera.
Luciano Pagano, perché ci lavoro.
Giuseppe Cristaldi, con le parole di carne. Per certe cose, quello che sento più simile a me.
Carlo D’Amicis, che ha avuto molta pazienza, e pure mi ha letto e mi ha dato dei consigli.
Rossano Astremo, perché non ha la vanità degli scrittori. Non ha vanità.
Mirco Menna, cantautore, difficile d’animo. Testimone involontario di queste pagine.
Giulio Mozzi, che chiedendomi il racconto della mia formazione di scrittrice, mi eleva in un lampo a scrittrice, vera, adulta, femmina.
Postfazione
Tutto questo che ho raccontato è un pezzo di verità.
Il pezzo più piccolo.
Il motivo vero che mi spinge a scrivere, non ha niente a che fare con l’essere più o meno scrittrice. Con l’essere più o meno ‘abilitata’ a scrivere.
Ma coincide con una specie di vuoto permanente che io ho. Un dolore che resiste anche al sole, al piacere, e ai doni. Quel vuoto che riempio nel letto di un amante, qualche volta, per finta. Sinché dura. E che a scrivere, invece, un poco passa.
Poi.
Poi ci sono tutte le cose che non si possono dire.
———
[1] Castagnette, o castagnole: Particolari nacchere di legno di ulivo, scavate a mano, che si usano sul Gargano per ballare le tarantelle, in Campania le tammurriate.
[2] zerozerosud (Foggia): una collana preziosa curata da Michele Trecca, per BookBrothers. Venne distribuita in Puglia e in buona parte del centro – sud Italia, dal Gruppo Editoriale Protagonisti, di Foggia.
[3] Bookmark – Future Letture. Quarta edizione. Potenza, 22-26 maggio 2006.
[4] Anche mio padre faceva i suoi reading, scritto in occasione della presentazione del romanzo di Paolo Nori, La banda del Formaggio (Marcos y Marcos, 2013), che si tenne a Foggia il 28 giugno 2013, nell’ambito del Festival Nazionale della letteratura – Libri per ogni Palato, seconda edizione.
[5] Ricercare – Laboratorio di nuove scritture, Reggio Emilia, Palazzo del Capitano del Popolo, 24-26 ottobre 2003. Comitato tecnico: Nanni Balestrini, Silvia Ballestra, Renato Barilli, Ivano Burani, Giuseppe Caliceti, Enzo Golino, Giulio Mozzi.
[6] musicaos:ed – Leggere migliora, di Luciano Pagano. Sito e laboratorio letterario dal 2004. Casa editrice, dal 2012 (Lecce). Pubblica narrativa nel 2012/2013 in formato ebook e dal 2014, in formato cartaceo e ebook.
[7] Panni sacri, a cura di Luciano Pagano, musicaos:ed, gennaio 2013; La verità, a cura di Luciano Pagano, musicaos:ed, febbraio 2013;
Il cuore in disparte, a cura di Luciano Pagano, marzo 2013.
[8] Sotto la sigla editoriale ‘BooksBrothers’ è stata pubblicata l’antologia Frammenti di cose volgari – Acqua passata – Volume Uno 2006/08”, a cura di Maurizio Cotrona e Antonio Gurrado (2009), nella quale sono presenti le cose migliori postate in rete, dal 2006 al 2008.
[9] Al convegno ‘Le tribù dei blog’ (Foggia – Biblioteca Provinciale ‘La magna Capitana’, 1 dicembre 2006),
hanno partecipato, anche, Christian Raimo, Maurizio Cotrona, Giulio Mozzi, Enzo Verrengia, Anna Maria Paladino, Rossano Astremo, Ivano Bariani, Luciano Pagano, Silvana Rigobon, Fabio Dellisanti, Manila Benedetto.
[10] Il pezzo, testimonianza del convegno è contenuto nell’antologia Frammenti di cose volgari (BookBrothers, 2009).
[11] ‘Libri a trazione anteriore’, progetto e premio letterario a cura dell’associazione culturale BooksBrothers e della Biblioteca Provinciale di Foggia – Provincia di Foggia. In collaborazione con Provincia di Foggia – Assessorato alla Cultura, Comune di Foggia, Università degli Studi di Foggia, Casa Circondariale di Foggia. Direzione artistica, Michele Trecca. Segreteria organizzativa, Roberta Pilar Jarussi.
[12] Sergio Colavita, ideatore del progetto Baol, anima del gruppo (Spaziobaol.com) e promotore culturale.
Tag: Alessio Lega, Andrea Di Consoli, Antonio Pascale, Carlo D'Amicis, Cosimo Argentina, Flavia Piccinni, Giuseppe Cristaldi, Giuseppe Goisis, Luciano Pagano, Mario Desiati, Michele Trecca, Mirco Menna, Nicola Lagioia, Paolo Nori, Rosano Astremo, Sergio Colavita, Valeria Parrella
24 febbraio 2014 alle 12:44
ciao. bello il tuo nome, roberta pilar jarussi, provenienza?
mi è piaciuto il tono del tuo raccontare, e ho letto qualcosina sul tuo blog. leggerò dell’altro, probabilmente.
riporto questo tuo passaggio:
(io personalmente credo che il concetto di autobiografia sia poco significativo, ma il lettore ci tiene, quindi lo dico io, prima che qualcuno me lo chieda: in buona parte è autobiografico)
ecco, io sono quel lettore noioso che ci torna su.
in che senso ritieni che il concetto di autobiografia sia poco significativo? io me lo chiedo spesso: l’autobiografismo, a chi scrive, viene mai a noia? voglio dire, se io fossi uno che si mette a scrivere con l’intenzione di scrivere, temo sentirei l’autobiografismo come un limite, mai come una risorsa. cavolo. c’è un mondo, fuori.
ma visto che chi sa scrivere sa ‘poi’ trasformare il tutto, allora mi vien da chiedere: a te che scrivi, pensi esista un argomento, se non un trama almeno una frangia, un qualcosa su cui avresti voglia di scrivere che non ha a che fare con te, o il tuo mondo E’ il mondo?
manuciao
24 febbraio 2014 alle 14:19
Io adoro i “lieto fine”. Scrivo solo storie con un lieto fine. Leggo solo racconti e guardo solo film che finiscono bene. Guardo solo le partite in cui il Milan vince. Mi faccio raccontare da mia moglie il telegiornale, ma “solo le cose belle”. Se il meteo dice che pioverà, non ci credo.
In bocca al lupo per il riempimento dei vuoti.
24 febbraio 2014 alle 14:51
E’ un racconto iceberg.
24 febbraio 2014 alle 15:53
Ha ragione lei.
Roberta, tu sei un cazzotto alla bocca dello stomaco”!
Complimenti.
24 febbraio 2014 alle 17:45
Anche il lieto fine arriva come un cazzotto nello stomaco, alle volte. Ma non ho niente contro i bei finali, e contro chi ce li ha, li cerca, ne gode. Raccontavo come è per me.
Iceberg, non so.
E poi. Poi tifo Roma.
25 febbraio 2014 alle 07:26
Mi mette in soggezione commentare le varie puntate de “la formazione della scrittrice” perché finora le ho trovate tutte talmente vere e interessanti da temere di eccedere nei complimenti. Il commento di Manu (ciaoManu!) mi innesca una domanda: perché l’autobiografia dovrebbe essere un limite? A me lettore piace immensamente conoscere la vita di chi scrive, e non per curiosità morbosa, questo non c’entra. Mi piace perché scrivere di sé significa raccontare ciò che, se proprio non si conosce bene, io credo si vorrebbe almeno indagare a fondo. Le pagine che ogni settimana letteralmente bevo ne sono la prova. A me lettrice interessano profondamente le storie di vita vera ben raccontate, leggere crea profonda intimità con chi scrive.
25 febbraio 2014 alle 11:55
ciao morena 🙂 mi sta bene avvertire l’odore dell’autore, ma oso pretendere Conoscenza. intendevo un po’ questo. che leggere è faticoso. comporta impegnare del tempo. se ne ricordino gli scrittori, chi pensi di esserlo, chi voglia diventarlo.
25 febbraio 2014 alle 14:33
Se tifa Roma non è molto abituata agli happy end, per cui la capisco.
Vedrò di leggere i suoi racconti.
Leggere è faticoso, ma è faticoso come è faticoso pedalare su per il Mortirolo per chi ama andare in bicicletta (non per me, che odio correre, pedalare, ecc.). Lo scrittore pertanto si deve anche ricordare, quando progetta la strada, che chi ama andare in bici ama soprattutto le salite. Tanti – troppi – “scrittori” progettano solo sterminate pianure e chi s’è visto s’è visto.
Chiedo scusa per la metafora.
28 febbraio 2014 alle 15:05
Sono un po’ più giovane della sig.ra Jarussi e anch’io sono cresciuto a Foggia per poi andare via e tornarci ogni tanto, per periodi più o meno lunghi. Ora sto a Torino. Non posso che condividere la stima per Michele Trecca, vero faro della letteratura provinciale e regionale anche grazie all’avamposto-libreria Ubik che ormai gestisce da qualche anno nel centro cittadino. Qui il loro blog, al quale Trecca partecipa attivamente con recensioni ed incursioni: http://ubikfoggia.blogspot.it/ . Se siete pugliesi e fate narrativa, potete senz’altro contare sulla sua esperienza. Alla sig.ra Jarussi non posso che augurare un libro fortunato, che è poi quel che serve per emergere a livello nazionale. Saluti. Giuseppe
5 luglio 2014 alle 01:11
[…] https://vibrisse.wordpress.com/2014/02/24/la-formazione-della-scrittrice-7-roberta-pilar-jarussi/ […]