di Gilda Policastro
[Questo è il sesto articolo di una serie che spero lunga e interessante. Ringrazio Gilda per la disponibilità. Chi volesse proporsi, mi scriva mettendo nell’oggetto le parole “La formazione della scrittrice”. Lunedì prossimo interverrà Roberta Jarussi. gm]
Partirò da un piccolo fatto vero, alla maniera di uno dei poeti a me più cari, forse il più caro in assoluto. Ricevo una telefonata, una mattina qualunque, con una curiosa richiesta: «Ho una storia molto importante da raccontare e però mi serve l’aiuto di una sensibilità femminile. Vorrei scrivere, in pratica, un romanzo a quattro mani». L’aneddoto mi torna utile a dire subito come non scrivo io. A quattro mani, e con una sensibilità femminile. Nei miei romanzi ci sono delle donne, sì, ma non parlano in modo diverso dai personaggi di sesso maschile e, più precisamente, ci sono delle donne, nei miei romanzi, che non parlerebbero in modo diverso, io credo, se fossero uscite dalla penna di uno scrittore, cioè di un maschio. Inoltre non scrivo libri come fossero sceneggiature, ovvero partendo da un plot che poi sviluppo, bensì dietro l’impulso di veri e propri raptus, che possono prodursi o meno, e ripetersi o anche no. È sempre stato così? Sì, è sempre stato così.
Ho riempito quaderni, diari e computisterie di romanzi da quando facevo il liceo: ore ed ore chiusa in camera secondo i miei a sgobbare su Cicerone e sul Salinari-Ricci, mentre invece, prevalentemente e per tutto il pomeriggio, scrivevo. Il mio primo romanzo si chiamava Quadri d’autore, ed era effettivamente una carrellata di quadri i cui personaggi cercavano un autore che ne raccontasse la storia. Un misto sovraccarico e lezioso di tableau vivant e di Pirandello, che ora avrei il terrore di veder risorgere dagli armadi di famiglia. Poi venne La logica Fuzzy, serie di appunti su una specie di comunità in cui tutti parevano normali, salvo poi svelare dei tratti insospettabili (almeno, così mi pareva) di aberrazione patologica. A questo nucleo rimasi affezionata per anni, finché La logica fuzzy divenne Remi, il mio primo libro compiuto. Nel senso che si guadagnò, pur nella forma dattiloscritta in cui circolava, i suoi primi lettori, oltre a procurarmi i primi due (e unici, per fortuna) rifiuti editoriali.
Ma bisogna pur spiegare, prima di raccontare come e perché Remi divenne qualcos’altro e diede propriamente inizio al mio percorso di scrittrice (di scrittrice, cioè, pubblicamente riconosciuta, dunque con degli editori interessati a pubblicarmi, dei critici intenzionati a spendersi per i miei libri, un po’ di meno – per il momento – un pubblico disposto a spendere dei soldi per leggermi), come e perché, infine, ho iniziato a scrivere. Il primo impulso è stato nevrotico: quando ero insoddisfatta per qualcosa, o quando mi accadeva qualcosa di notevole o di bizzarro, ma soprattutto quando non riuscivo a parlarne compiutamente con i miei (che pure mi lasciavano molto spazio), prendevo i famosi quaderni e li riempivo. Per quella stessa insoddisfazione del mondo che mi portava a preferire (con un leopardismo molto scolastico e di maniera) i libri ai miei coetanei, le immersioni nei romanzi alle fuitine. Così scrivevo, moltissimo, e quando non scrivevo, leggevo. Oppure il contrario: a fasi alterne. Tuttora ci sono mesi e mesi in cui leggo e basta e altri in cui scrivo tanto, senza riuscire a leggere (se non per costrizione, ossia per lavoro). Scrivere per me voleva dire, come ripeto, soprattutto abbozzare o impostare trame di romanzi. Non mi aveva mai sfiorato l’idea di scrivere versi, perché quella la ritenevo un’attività troppo tecnica e (bizzarramente) poco ispirata. Tra l’altro mio padre, che era ingegnere, scriveva sonetti d’occasione per matrimoni e anniversari: mi pareva di non dovergli fare concorrenza. E per la stessa ragione per cui avevo smesso di suonare il piano, decisi di non cimentarmi con la metrica, ovverosia con la tecnica. Fin quando non lessi Sanguineti (il poeta cui mi riferivo) e capii che era anche violandola o piegandola ai propri scopi, l’aborrita metrica, che si potevano fare i versi, se non la poesia maiuscola, da consegnare alle antologie e alla memoria imperitura (soprattutto scolastica: Orazio, Pascoli, Carducci).
Quando Mario Desiati mi contattò per la prima volta lui lavorava in Mondadori e io gli ero nota (ironia della sorte) soprattutto come poetessa. «Ma non ce l’hai», mi chiese a un certo punto della nostra conversazione sulla poesia (e soprattutto sui poeti) «un romanzo?». Intanto notai che mi fissava le scarpe. Mi confessò molto tempo dopo che le aveva ammirate in quanto scarpe chiuse: detestava che si vedesse, delle donne, il piede nei sandali estivi. Non so se lo devo a quella scelta indovinata, ma Desiati nel volgere di poche settimane lesse Remi, si innamorò del modo «che hai tu di raccontare le pulsioni» e mi chiese se non fossi disposta a scrivere un altro libro (o a rivedere radicalmente quel primo esperimento fallito): la proposta era di seguirlo alla Fandango, dove stava per diventare direttore editoriale. Così nacque Il farmaco, il mio primo romanzo edito.
Nel frattempo però la mia vita era radicalmente cambiata, dal tempo dei quadernoni coi Quadri d’autore (ma anche da Remi). La letteratura non era più per me un’escrescenza nevrotica, né un’ambizione narcisistica: era invece diventata un’esigenza di condivisione di qualcosa che definivo (con me stessa o coi pochi amici con cui ne parlavo) un acquisto di conoscenza. Se di incremento si è trattato, col senno del poi mi pare piuttosto etico che teorico: non a un difetto di intelligenza del mondo, quindi, ma di esperienza emotiva, sentimentale si doveva il fallimento delle scritture giovanili (e i comprensibili rifiuti editoriali). Intanto avevo conosciuto la malattia di mia madre, la sua agonia velocissima, la sua morte. Nel Farmaco (e ancora prima nelle Stagioni) ne parlavo come solo si può parlare di una materia così vicina e cioè raffreddandola, facendone trama, personaggi, alterità: letteratura. Non c’è mai stato un momento della vita di quel libro in cui io abbia alluso alla mia vicenda, né con l’editore, durante la stesura dei capitoli, né con i lettori, durante le presentazioni o le interviste. Mai. L’ospedale era un luogo astratto, i medici delle figure odiose e letterarie (il protagonista si chiamava Bardamu – e come, sennò). Ma dietro ogni singolo episodio c’era in realtà qualcosa che avevo meditato nelle ore di attesa davanti agli studi medici, nelle conversazioni coi parenti degli altri pazienti, negli ascensori, nei corridoi dei tanti ospedali conosciuti: in tutti quei momenti, cioè, in cui la sospensione dell’urgenza drammatica degli eventi mi consentiva di trarne un qualche significato (per me e per gli altri). Ammesso che un significato vi fosse. Quando Il farmaco è uscito, si era ammalato mio padre. Il riproporsi beffardo della morte a così poca distanza mi lasciava un senso di sconfitta e di stupore. La sfortuna, le diagnosi tardive, cosa. Per molto tempo non ho più scritto, poi sono ripartita. Quando quella che Barthes chiama la tristezza (sostituendo e preferendo questo termine al più connotato lutto) si è attenuata, quando la letteratura è tornata a reclamare i suoi diritti sulla vita materiale che cominciava a premere da tutte le parti, coi debiti, le grane ereditarie e burocratiche e quella rinnovata insoddisfazione che non inibisce il quotidiano ma lo rende sempre più vacuo e perciò intollerabile. È tornata, sì, anche la nevrosi: la scrittura per stanchezza del mondo, se non come grido di dolore (così aveva scritto Aldo Nove nella prefazione alle Stagioni): che disperazione non ce n’è più o non ce n’è ancora, ma una sensazione di penoso galleggiamento post naufragio, o nella sua imminenza.
E adesso? Adesso cerco altri temi, forse nuovi editori, ma soprattutto molti e diversi lettori. Provo rabbia nel sentir definire scrittori quei personaggi annoiati dalla tivù o dal cinema, avidi di ogni tipo di visibilità disponibile. Provo rabbia nel vedere in libreria quelle pile, a volte veri e propri totem di libri che una volta aperti sono identici, mentre il mio o quelli di autori che ho particolarmente apprezzato negli ultimi anni bisogna andarseli a cercare con la lanterna, cioè perlomeno sapere già che esistano, per vederli sbucare dallo scaffale in cui sono stati sepolti prima ancora che qualcuno si fosse potuto accorgere della loro esistenza. Ma che t’importa, mi si dice, quella è un’altra strada, tu fai altre cose. Certe volte invece chiudo gli occhi e sogno di rispondere alle domande di Fabio Fazio, risatine incluse. Dopotutto il mio poeta d’elezione andò a Sanremo (anzi, voleva andarci come autore e fu solo opinionista, commentandone l’italiano impoverito dei testi e la stereotipia dei temi, se non ricordo male). Nei suoi versi diceva comunque di volere un assoluto anonimato: io sono caduta nell’inganno di credermi, perlomeno di tanto in tanto, Gilda Policastro.
17 febbraio 2014 alle 10:00
Di eccezionale impatto. Colpisce dritto al dunque: la scrittura. “Partirò da un piccolo fatto vero: io sono caduta nell’inganno di credermi, perlomeno di tanto in tanto, Gilda Policastro”. Alfa e omega del textus. Non saprei dire se consapevole o meno, ma il risultato è geniale.
17 febbraio 2014 alle 10:39
Quanti riferimenti! L’autrice si chiama Gilda, un mix di entusiasmo e di gioia di vivere, poi scopri che non sempre nomen è omen e cogli qua e là, nonostante i suoi riferimenti siano modernissimi, un’eco dell’ironia di Gozzano. Il resoconto della sua formazione di scrittrice tende alla “diminutio”, non lascia spazio neppure a un sospetto di narcisismo, ed è dolente. Che dire? Avrà una lettrice in più.
17 febbraio 2014 alle 13:01
Mi ritrovo in diverse affermazioni. Una per tutte, quello-spirito-estemporaneo direi [i]a pelle[/i] che dovrebbe comunque essere il precipuo requisito di uno scrittore (cit. “bensì dietro l’impulso di veri e propri raptus”); no?
17 febbraio 2014 alle 14:12
Gilda scrive”…Per quella stessa insoddisfazione del mondo che mi portava a preferire (con un leopardismo molto scolastico e di maniera) i libri ai miei coetanei”
Ho condiviso molto di questo post, a parte la frase qui sopra. Le mie coetanee, durante la mia adolescenza, erano in testa alla mia personale hit parade. De gustibus… Un saluto
17 febbraio 2014 alle 18:27
Anch’io sono comparso di fronte a Mario Desiati. Non mi ha notato. Avrò sbagliato le scarpe. (Scherzo, naturalmente).
17 febbraio 2014 alle 20:26
“Provo rabbia nel vedere in libreria quelle pile, a volte veri e propri totem di libri che una volta aperti sono identici”. Condivido questa faccenda dello “standard” tenuto da molti autori, è come se avessero tutti lo stesso editor… riguardo invece a Mario Desiati, anche a me non notò le scarpe e nemmeno i racconti che gli mandai.
17 febbraio 2014 alle 21:04
A conoscerla sembra una persona, una donna “normale”, sorride nuota pare interessata agli altri ed alle cose. Riesce naturale volerle bene oppure invece detestarla per il suo carattere. Mai immagineresti incontrandola da osservatore casuale che anni di studio e di lettura hanno trasformato la fragile fanciulla dilatandone la formidabile sapienza letteraria ed il genio fino a a tale dimensione.
Mi viene sempre da pensare che Sanguineti scoprendola ha dimostrato di avere “naso”.
18 febbraio 2014 alle 04:03
Una volta Tiziano Scarpa, in un messaggio privato, mi invitò a scrivere il libro che avrei voluto leggere. Mi faceva i complimenti, diceva che potevo farcela. Purtroppo non è così. Sarebbe bello. Ma non si scrive mai ciò che si vorrebbe leggere, si scrive solo ciò che si è capaci di scrivere. Mesi fa ho letto “Stoner” di John Williams, un libro che speravo da tanto tempo di leggere, un libro che non sarò mai capace di scrivere. Lì ho capito che io gioco in un altro campionato, e che per quanti sforzi faccia a quel livello non arriverò mai. “Stoner” ha venduto parecchio in tutto il mondo, anche da noi. All’inizio, quando uscì la prima volta nel ’65, non se lo filò nessuno. Poi, nel 2012, è esploso. Ecco, io so che il numero di copie vendute non indica la qualità di un libro, e neppure il suo contrario, però sono convinto che qualcosa indichi. Non so bene cosa. Si dice che i best seller danno alla gente quello che vuol sentirsi dire. In parte forse è vero, ma esiste pure il suo contraltare pseudo-positivo, il libro che piace ai critici perché gli dà quello che si aspettano: le scritture finto cattive, quelle che parlano solo di degrado e di sopraffazione, che descrivono il mondo sub specie campo rom, come se bastasse ritrarre un materasso abbandonato fra le sterpaglie per “cogliere la verità della vita”. E poi ci sono pure i libri di qualità che disattendono le aspettative del pubblico, eppure riescono a vendere bene lo stesso; forse perché il pubblico non è questa entità monolitica e ottusa che si ingiuria in ogni dove, ma è composto da tante persone diverse, a volte pigre e altre volte desiderose di essere stupite, oltre che avvinte.
Una volta nella vita mi piacerebbe sentire uno scrittore che non dà la colpa al pubblico perché il suo libro non ha venduto quanto desiderava. Quando uscì il mio romanzo speravo di vendere tre milioni di copie, e invece lo hanno comprato in tremila. Rileggendolo, ora penso che non meritassi di più.
18 febbraio 2014 alle 08:24
Pensa, Sergio: una comunicazione intima, forte, con tremila persone. E’ una cosa enorme.
Per il resto: pensa all’ambiguità della parola “comune”. Un conto è, a es., “parlare in lingua comune”, un altro conto è “parlare in una lingua comune”. Io sospetto che quelle stranissime opere che si diffondono tantissimo nello spazio e nel tempo, e insieme sono molto molto belle, siano “comuni” in tutte e due le accezioni. (Non è una spiegazione, questa: è solo un tentativo di un modo di dire la cosa).
18 febbraio 2014 alle 10:45
Quando mandai il mio primo manoscritto a Pasolini questi mi rispose dicendo: “Lei è un diplomato che scrive come avesse una licenza elementare, e solo quella. Ciò rende falso il suo essere letterario. Cerchi di tornare a una licenza elementare unica e vera!”. Apportai severe modifiche al manoscritto e lo inviai quindi a Fortini che si espresse così: “mmmhhh, una narrazione volontaristica e tutta ammicchi, tutta fregatine di mani. Di coetanei ne ha visti troppi volteggiare prima di posarsi: si dissolva quanto è composto.” Operai la dissoluzione richiesta, o almeno così mi parve, inserendo un quid d’afflato poetico debolmente strutturato e ritentai con Raboni che bonariamente replicò: “È un’esigenza che nasce, io credo, da un desiderio di emulazione. Se ci affidiamo all’orecchio, e solo all’orecchio, le sue storie ci sembrano dei veri e propri epigrammi.”, e concluse: “Che cosa, in effetti, può trattenere un essere umano da un gesto di solidarietà che, oltretutto, non costa nulla, visto che ciò che viene donato non ha più, per il donatore, alcuna utilità?”. Liquidato in questo modo ritenni che molto dovesse ancora essere fatto affinché il mio manoscritto potesse essere ritenuto affine a un’opera letteraria. Lo riposi in un cassetto, assieme a una confezione di sali igroscopici per preservarlo dall’umidità, e lo scordai per lungo tempo. Lo ripresi ch’è un paio d’anni. Rilettolo, decisi che c’era tutto il materiale per compilare almeno un capitolo d’una raccolta di monografie sulla de-formazione dello scrittore. Resto pazientemente in attesa della disponibilità di Giulio Mozzi (sperando non mi dica che non ne vuol sapere di un file JPG da scanner).
18 febbraio 2014 alle 11:55
Giorni fa ho visto quella bellissima parabola sul talento che è “A proposito di Davis”. Dovrebbero vederlo tutti quelli che hanno ambizioni artistiche. Le armonie della musica e le disarmonie della quotidianità. Il mondo là fuori che è freddo e non c’è neppure un cappotto per coprirsi. La determinazione che non basta a vincere la vita che rema contro. E l’incontro fuggevole col genio (Bob Dylan) che ristabilisce ogni proporzione e che si merita il successo, forse perché come dici tu sa parlare la lingua che tocca tutte le corde del pubblico.
18 febbraio 2014 alle 13:38
Inoltre non scrivo libri come fossero sceneggiature, ovvero partendo da un plot che poi sviluppo, bensì dietro l’impulso di veri e propri raptus, che possono prodursi o meno, e ripetersi o anche no.
Sono gli estrogeni. Gli scrittori, cioè, i maschi, ad esempio quel Cormac McCarthy dalla cui penna escono indimenticabili figure di donne, scrivono a partire da una Visione, non da un raptus.
All’inizio, quando uscì la prima volta nel ’65, non se lo filò nessuno. Poi, nel 2012, è esploso.
In compenso, Morte d’Urban di J F Powers, vincitore del National Book Award su Pale Fire (e altri romanzi, tutti notevoli) nel 63, non se lo filò nessuno, e continuano a filarselo in pochi, nonostante sia stato, come Stoner, ripubblicato negli anni 2000 nella collana Classics della New York Review of Books. Considerato che un gran numero di autori o opere che apprezzo sono oscuri (e spesso non tradotti, o tradotti nell’indifferenza generale) mi affascina il fenomeno per cui alcuni improvvisamente diventano mainstream mentre altri rimangono “di culto”. E’ come se passata una certa soglia di attivazione si raggiungesse un effetto valanga – o anche, come se a tutti bastasse accettare libri come Stoner come avatar del “Capolavoro Ingiustamente Dimenticato” invece di trasformarsi in cani da tartufi.
19 febbraio 2014 alle 10:07
Chiedo scusa a Gilda e agli altri per il fuori tema ma ho fatto un sobbalzo nel sentire un lettore esigente come Sergio Garufi spendere parole di lode per “Stoner” che a mio giudizio è niente più che una paraculata.
Ma deve essere un problema mio, perché molti altri miei conoscenti, di cui conosco i buoni gusti letterari, hanno trovato in quel romanzo cose che io non sono proprio riuscito a vedere.
19 febbraio 2014 alle 13:58
Stoner, certo: la parabola del contadino che diventa professore, scoprendo intanto che l’amore non è l’epifania magica della fanciulla apparsa all’improvviso a una cena di bolsi accademici, ma un’agonia lentissima del sentimento e che il tradimento con la studentessa può riservare ben altre gioie (salvo poi mollarla quando è di troppo intralcio alla carriera o comunque minaccia di creare scandalo). Stoner, che ha la figlia sola e bulimica, la quale partorisce a sua volta un figlio dopo una “sveltina”, si sposa senza amore, diventa vedova di guerra, e poi alcolizzata. Infine il cancro, e il titolo di emerito conferitogli dal nemico di sempre, quando ormai non nuoce più a nessuno. Si vede che ad attenersi al mero contenutismo, di fuffa ce n’è, eccome se ce n’è, anche nei cosiddetti capolavori (o nei libri di cui a un certo punto tutti parlano, poi più nessuno). Ma comunque, non c’era nessun momento del mio testo in cui stabilissi un’equivalenza tra libri per pochi e capolavori vs libri letti da tanti e immondizia. Anzi, i libri per pochi un tempo avevano mercato, li pubblicava Feltrinelli, per dire. Direi che sostenevo proprio il contrario, se dei libri difficili lamentavo la scarsa visibilità/diffusione (visto che è ben bizzarro aspettarsi che venda trecentomila copie un libro tirato in tremila: e quindi il primo a segnare il corso di un’opera, lo sappiamo bene, è l’editore non “il pubblico”). Quelli, cioè, non incasellabili, quelli che hanno un elemento di peculiarità rispetto ai romanzi di sola trama. I libri che abbiano uno stile, che siano scritti e non solo pensati dall’autore(+ editore) a tavolino. Quelli che non imbastiscono a tutti i costi un plot appealing (ancora l’editore: fai così e cosà), e che non muovono da un’aspirazione a fare lo scrittore, ma da una evidenza o un’urgenza esistenziale riconvertita in letteratura (questo intendevo per raptus: quando la necessità di dire prevale su considerazioni del tipo: avrà un editore, e poi lo leggeranno, e in quanti, e così via). Perciò dico che sogno di essere intervistata da Fazio: mi piacerebbe che il suo pubblico sapesse che ci sono altri libri, oltre a quelli che è più facile “far arrivare” (e non dico solo Gramellini, ma anche Piccolo e Walter Siti). O dalla Bignardi: e però il mio editore ha scelto di mandarci due libri “verità” che raccontavano il primo la vicenda di un uomo divenuto tetraplegico in seguito a un incidente di montagna e l’altro la storia di una giovane nata da due genitori tossicodipendenti a San Patrignano. La seconda intervista, in particolare, mi ha colpito per la totale assenza di un orizzonte letterario, per l’assoluta latitanza dal discorso di una dimensione “condivisa” (quello che chiamavo il significato per noi di un’esperienza). Ciò che contava era il piano scandalistico del vissuto borderline (“i drogati, Muccioli, davvero li legava e picchiava?”), e fa niente se la ragazza in questione sembrasse addirittura dislessica (e per niente emotiva, tra l’altro, anzi, molto a suo agio davanti alla telecamera, dunque non valeva l’afasia della prima volta): del libro in quanto libro (scritto come? Strutturato in che modo? Leggiamo una pagina? Niente di tutto questo), alla Bignardi (e all’autrice stessa, peraltro) poco importava. E al pubblico, mi sono chiesta, al pubblico importa se è un libro, un romanzo, come lo presentano, o la cronaca condita di piccante/pruriginoso da settimanale scandalistico? Allora, non dico trasferire le conferenze o le presentazioni paludate in tivù, e però ricominciare a parlare di libri non come fossero l’orpello di una faccia telegenica o di una storia strappacuore, ma considerando quello che sono sempre stati (strumento di conoscenza e di condivisione, di evasione e di stordimento, di rapimento estatico e di riflessione, di incanto e di arricchimento), questo sì, mi pare irrinunciabile. Chiudendo: quando chiudo un libro e sento di aver avuto accesso a un mondo diverso, sorprendente, che non mi ha lasciato indenne, allora sì, ho letto un capolavoro (Fame di Hamsun, di recente). Stoner, lettura da divano (magari con Sanremo in sottofondo) benone; capolavoro, direi proprio di no.
19 febbraio 2014 alle 16:21
[*Concludendo: quando chiudo un libro…]
19 febbraio 2014 alle 16:50
Ciao Federico. Ieri passeggiavo nelle stradine del Poble Nou, a Barcellona, dove nacque mia madre nel 1933. L’ho accompagnata perché voleva rivedere i luoghi della sua infanzia, e ascoltando le sue rievocazioni mi sono ricordato di un bellissimo libro ambientato in quegli anni a Barcellona, “Piazza del Diamante” della Rodoreda. Avrei potuto citare quello, al posto di Stoner, perché sono entrambi dei libri superlativi, che mi sarebbe piaciuto scrivere. In comune hanno una trama esile, con dei protagonisti apparentemente scialbi e ordinari, e un grande apprezzamento da parte sia del pubblico che della critica. Quest’ultimo è un tema sul quale mi interrogo da molto tempo. Finora non ho trovato delle risposte soddisfacenti. Una possibile forse è quella di Giulio sulla lingua comune, i vari livelli di lettura dei grandi libri, che riescono a parlare a persone molto diverse. Poi l’unanimismo non esiste. Ho amici a cui non è piaciuto “il viaggio al termine della notte” e lo liquidavano descrivendone il mero intreccio, come si potrebbe fare con qualunque libro (cos’è i Promessi Sposi? Due che si amano, ma c’è uno che si mette in mezzo e poi scoppia un’epidemia…). Comunque, ognuno la pensi come crede, però secondo me potrebbe essere utile, quando ti fa schifo qualcosa, dare almeno un’occhiata alla bibliografia critica, confrontarsi anche col parere di chi è più esperto. Su Stoner sono tanti e autorevoli i giudizi entusiastici (qui http://www.fazieditore.it/Recensioni.aspx?libro=1201 ce n’è un assaggio italiano), idem per la Rodoreda. In ogni caso non volevo convincere nessuno, era solo un esempio. Il punto che mi premeva sottolineare era un altro, e cioè che in generale non amo l’atteggiamento vittimistico e consolatorio di chi non vende e si rifugia nell’equivalenza fra bei libri per pochi e best seller immondizia. In quello che ha scritto qua sopra Gilda io ho letto proprio questo, e ricordo una sua frase su fb in cui, riferendosi a “il farmaco”, disse: “se avessi venduto molto mi sarei chiesto dove ho sbagliato”. Ecco, io no.
19 febbraio 2014 alle 17:30
Per quanto riguarda me, Sergio, magari i miei libri vendessero la metà di quello che ha venduto “Stoner”. Non mi chiederei certo dove ho sbagliato, anzi…
Non sono di quelli che pensano che tante copie vendute = spazzatura. Per dire: certi best seller di Ian McEwan a me sono piaciuti tantissimo. Ho apprezzato molto anche alcuni vendutissimi titoli di – orrore! – Baricco.
E’ che, davvero, mi stupiva che un libro così esile (sia per la scrittura che per la trama) potesse suscitare ammirazione in persone che so avere altri gusti letterari.
Ma, ribadisco (e non ero sarcastico prima): è probabilmente un problema mio. Capita che certi libri – che pure evidentemente devono avere un valore – non ci dicano nulla.
19 febbraio 2014 alle 17:46
La sig.ra Policastro ha senza dubbio un’attitudine ingegneristica alla scrittura poetica, l’auspicio è che col tempo lasci emergere la voce naturale, cioè la sua forma propria (precedente la tecnica e gli apparati dimostrativi). Saluti.
19 febbraio 2014 alle 17:51
Io da sempliciotto mi son fatto questa convinzione.
C’è un talento che ti porta alla bellezza, e c’è un talento che ti porta verso l’altro. Sono due abilità che fanno capo (nel capo) ad aree della mente o del cervello molto diverse. La bellezza può anche essere, in un certo senso, autonoma. L’altro ovviamente non può esserlo, o non sarebbe altro.
C’è chi non ha alcun talento per la bellezza; e fa opere brutte nella vita vissuta come in quella scritta – o disegnata o scolpita o ripresa da cameraman -; e ha però magari il talento che spinge incontro all’altro; riesce così ad entrare in comunione, nella vita vissuta come in quella scritta (o… etc), con tanti altri individui che condividono l’insensibilità al bello; vite felici. Le altre combinazioni sono facilmente intuibili, mi pare.
Questo è il mio pensiero – come dicono i semplici in tv, quando si devono dare arie culturali nella mischia.
19 febbraio 2014 alle 18:15
resto un po’ stupito, oh nulla di male, nel sentire Gilda Policastro e Federico Platania, da me letti e molto apprezzati, liquidare cobn una scrollata di spalle un libro come Stoner
come direbbe Woody Allen, mi dev’essere sfuggito un dettaglio!
oppure ha proprio ragione Sergio Garufi a dire, l’unanimismo non esiste.
del resto quel che penso di Stoner, pure io lo penso anche per Piazza del diamante
19 febbraio 2014 alle 19:13
@dm. Bello e brutto mi paiono due categorie squisitamente – e inevitabilmente – soggettive perchè, di fatto, prescindono da qualunque esperiena sensoriale oggettivamente misurabile (a differenza, invece, del caldo o del freddo, dell’umido o del secco…).
In quest’ottica la Bellezza – con la B maiuscola ( o idea platonica di bellezza o bellezza oggettiva o, in qualunque altro modo la si voglia chiamare) – non può che essere il bello ‘condiviso’ ( dai pochi, dai molti, dai più, da un’epoca….): per cui, l”altro’ conta. Eccome se conta. Conta sempre.
Tutto sta nel decidere chi sia l”altro’.
Per il resto, trovo poco gentile, affermare l’esistenza di un talento che riesca ‘a entrare in comunione con tanti altri individui che condividono l’insensibilità al bello’. Non perchè uno ami leggere Liala significa che non sia in grado di apprezzare Tolstoj (o viceversa).
19 febbraio 2014 alle 19:32
Stefania, il discorso non è a questo livello.
Io non ho detto che Liala è brutta. Inoltre, con la gentilezza è possibile fare un bel soufflé.
19 febbraio 2014 alle 21:53
penso che la Dr.ssa Gilda ha ragione quando dice di voler andare in televisione per portare qualcosa d’altro, qualcosa che non si trova nei supermercati e nelle vetrine delle librerie. Perchè a guardarle le vetrine delle librerie paiono tutte uguali. Come può difendersi un lettore da un simile attacco mediatico? Come può scegliere se trova solo quello? Le case editrici pubblicano libri e investono su certi titoli pensando che il lettore vuole soprattutto quel tipo di libri. Mi sembra un gatto che si mangia la coda. Io ti metto nel piatto solo polenta e cotechino perchè so che ne sei goloso, io mangio solo polenta e cotechino perchè trovo solo quello nel piatto e non ho idea della varietà di cibo che potrei trovare. Certo non parlo di lettori forti, o di letterati.
19 febbraio 2014 alle 22:40
Di Piazza del Diamante, che preferisco a Stoner, non mi pare di aver mai sentito parlare in blog italiani; il successo di pubblico ce l’ha sicuramente in Catalogna, ma qui? Il caso di Stoner è peculiare, fa pensare alla risonanza, una piccola vibrazione che azzecca la frequenza di oscillazione di un materiale e si propaga inarrestabile attraverso blocchi contigui di lettori, dagli Stati Uniti a tutti i paesi d’Europa. Uno su Mille ce la fa.
E’ facile nel sottolinearne gli aspetti, diciamo così, melodrammatici – ma è sbrigativo accomunarlo agli esempi di non-stile da leggersi “con Sanremo in sottofondo”. Non c’è dubbio che Stoner, certamente non un romanzo modernista, sia tuttavia scritto con grande attenzione allo stile, che è (in inglese) piano ma non sciatto, calibrato con attenzione e funzionale al tono del romanzo.
Spesso ho l’impressione leggendo la Policastro di un idea di letterarietà – di stile – abbastanza unidirezionale, quella, mi si perdoni la trita citazione, in base alla quale o sei Sanguineti o sei Liala.
C’è una casa editrice americana, Dalkey Archive, che, grazie anche a molteplici sovvenzioni, pubblica quasi solo letteratura avanguardistica, oulipiana, modernista o postmodernista, senza escludere traduzioni da paesi come Faer Oer, Georgia o Lituania. Tiene in circolazione diversi libri che stanno nel mio canone – ma anche tanti che, tutto sommato, lasciano il tempo che trovano. Mentre ci sono libri ottimi (almeno secondo me) che è difficile immaginare nel loro catalogo, perché non premono i tasti giusti.
I libri “difficili” avranno vita più difficile dei “semplici”, insomma – ma esiste pure il fenomeno che Garufi chiama dello pseudo-positivo, e di certe recensioni elogianti che alla fine convincono poco. Così uno decide a pelle, e quello che mi è rimasto dalle recensioni de Il Farmaco – ospedale degrado malattia sesso farmaco Pharmakon veleno, e aggiungiamo il vezzo di chiamare il medico Bardamu – sembra comporre un quadro a suo modo altrettanto poco promettente, nelle metafore e nelle strategie, di quello reso dal riassunto di Stoner.
Il problema del libro che è un ascia per il mare gelato dentro di noi – diciamolo con la frase di Kafka ormai buona per le t-shirt – è che si tratta di esperienza soggettiva che è molto facile ridicolizzare se non si condivide. Per molti La Strada è un capolavoro; per me è la versione per bambini scemi de Il Topo e suo Figlio.
http://www.adelphi.it/libro/9788845923296
Detto ciò, è verissimo che ormai esiste un gran numero di libri invisibili, pubblicati da case piccole o piccolissime, che a meno di particolari congiunzioni astrali non hanno neppure una fighting chance di arrivare ad un pubblico un pochino meno ristretto. Proprio oggi su Nazione Indiana Helena Janeczek parla di Jurij Andruchovych, i cui romanzi aveva cercato senza successo di far pubblicare in Italia; uno poi è stato pubblicato da Besa – ma come fa un potenziale pubblico a saperlo, o a farsi un opinione?
20 febbraio 2014 alle 00:44
solo una precisazione. piazza del diamante è considerato un classico della letteratura europea del dopoguerra. garcia marquez diceva che era il libro più importante del novecento spagnolo. è stato tradotto in più di venti lingue, ne hanno fatto un film e ha venduto milioni di copie.
20 febbraio 2014 alle 00:56
mi correggo. informandomi meglio ho scoperto che la piazza del diamante è stato tradotto in 31 lingue. in italia l’ha ripubblicato nel ’99 una piccola casa editrice romana, la nuova frontiera, con una tiratura iniziale di 2000 copie che nello stesso anno è arrivata a 40.000 (perché si parte sempre bassi), ed è stato votato come miglior libro dell’anno dagli ascoltatori di fahrenheit.
24 febbraio 2014 alle 13:15
Sono molto d’accordo col primo Garufi, nel senso di quello che scrive nel primo commento, particolarmente quando parla delle scritture elitarie. Certo, Céline e Pound sono più artisti di Simenon e Fante, contengono più forme, più contenuti e più emozionalità, ma Simenon e Fante sono comunque dei grandissimi artisti capaci di arrivare a più persone e il grado di emozionalità e arte che hanno espresso non sarà ai livelli dei primi due ma è pur sempre altissimo. E ha il pregio o sarebbe meglio dire la grazia di essere afferrato più facilmente.
Su Stoner, se posso dire, penso che sia un libro stilisticamente piatto, scritto in maniera un po’ elementare, c’è poco guizzo, poca lingua, ma si porta dentro alcune idee narrative e filosofiche che appartengono alla grande letteratura minore. In sostanza, c’è una furbizia non troppo calcolata (a mio avviso) che fa di Stoner un libro che aggrada tanto il grande pubblico quanto quello più sofisticato. E’ una storia “difficile” narrata in modo accessibile.
25 febbraio 2014 alle 17:15
@marco nell’ultimo periodo ho letto, oltre a Stoner, Hamsun, Simenon (I complici, Betty), Carrère, ho riletto La vita oscena di Aldo Nove, e sto cercando di finire DWF: non mi pare ci sia solo sperimentalismo, nella mia formazione e nelle mie predilezioni letterarie (poi: una cosa sono i libri da scrivania e un’altra quelli da comodino o da divano, cioè gli oggetti di studio non coincidono sempre o non soltanto con il proprio anelito privato e sacrosanto al godimento e all’evasione). Inoltre la mia sintetica e volutamente banalizzante sinossi di Stoner era di prima mano, cioè scaturiva dalla mia lettura personale, non dalle impressioni desunte dalle recensioni altrui: e perché dovrei fidarmi dei *critici*, se ci stiamo ripetendo perlomeno dal ’93 (anno di pubblicazione di Notizie dalla crisi di Cesare Segre) che non esistono più e che non hanno più spazio sui giornali e meno male che è così in modo che il lettore sia più libero e non condizionato da quei pesantoni indifferenti ai gusti della gente. Come se poi non si sapesse nulla di marketing editoriale, di strategie del consenso, di libri o autori attorno a cui ”si lavora”, come si dice in gergo, e libri pubblicati per tenere in piedi un catalogo. Il mio editore, ad esempio, sul citato Farmaco, mio primo romanzo, ha lavorato ottimamente e ne sono derivate interviste sui settimanali glamour come recensioni autorevoli sulle terze pagine. Questo non vuol dire che il libro fosse stato concepito per frotte di lettori (semmai il contrario), ma solo che legittimamente io e l’editore non volevamo rassegnarci a priori a una fruizione di nicchia. Sul secondo libro si è lavorato forse con meno zelo (dovuto anche al momento difficile dell’editoria e allo sfascio completo del giornalismo culturale, certamente). Il primo ha, come dice sempre il mio editore, nel complesso ”vendicchiato”, per il secondo non ho una stima attendibile, al momento, ma già la tiratura iniziale è stata inferiore a quella del primo. Come mai? Presto detto: le librerie non prenotano abbastanza, il mio, come tanti altri libri non commerciali, e così gli editori abbassano le tirature, gli anticipi per gli autori, e dimezzano il catalogo (sacrificando quali proposte, indovinate). Come si esce dalla prigionia della tiratura decisa dai venditori? Come si torna a investire sui libri, sui libri di qualità, oltre che su quelli dal potenziale commerciale, come si può evitare che un editore di chiara fama e tradizione ti dica (alla lettera): ”Le cose che fai sono belle, ma noi siamo una casa editrice pop”. Queste erano le mie domande: molto più pragmatiche della discussione vexata sui best o i worst seller, come li chiamava Manganelli, e su come e se e perché e quando e quanto i primi possano sposarsi alla qualità e i secondi alle vendite.
25 febbraio 2014 alle 17:56
Non conosco di persona Gilda Policastro, e il primo scambio avuto con lei, su facebook, è incidentale, burrascoso e limitato. Le ragioni dello scontro nascono dalla lettura della sua recensione di “Sono l’ultimo a scendere e altre storie” (Mondadori, 2009), di Giulio Mozzi, apparsa su Alias del Manifesto del 7 novembre 2009, il cui incipit “Subito una buona notizia, il libro di Mozzi non è un romanzo” e quanto scrive poco più avanti: “L’altra ottima notizia è che, pur essendo scritto in prima persona […] è in realtà un libro più vero del vero” mi danno molto da riflettere, o meglio, mi lasciano perplesso, avendo, io, il difetto di scrivere romanzi e non nutrendo, io, come si può ben vedere da questa nota, alcuna remora nei confronti dell’io, sia poetico che narrativo. Certo, non cado dalle nuvole, so bene come in ambito sperimentale, no, di neoavanguardia, no, di ricerca, insomma, in quell’ambito lì il romanzo, quanto meno nell’accezione corriva (perché poi un genere così ricco di possibilità debba essere inchiodato a una sua versione tutta causata dall’industria culturale rimane un mistero), il romanzo, dicevo, non sia ben visto; come è altresì vero che dire io, in una qualsivoglia forma di scritto, equivalga a commettere peccato mortale.
Sì, lo so, ma un conto è avere le proprie sacrosante opinioni, o regole (il galateo è il galateo), un conto è ossessivamente ricordarle approfittandosi di qualunque occasione; quale appunto, in questo caso, il recensire (mi sembra sia Massimo Onofri, in “Recensire. Istruzioni per l’uso”, Donzelli, 2009, a fare chiarezza su quali dovrebbero essere i confini di questa difficile arte). Ecco, su facebook m’interrogo pubblicamente, e in modo polemico, su questa contraddizione, e la risposta piccata della Policastro è che non può spiegare ogni volta le sue posizioni in materia. L’ignoranza circa il suo pensiero è mia, perciò finisce lì; si ha spesso altro di più importante a cui pensare.
Certo, ignoro che lei, allora, contrariamente a quanto quella recensione può lasciare intendere, sta scrivendo un romanzo (esce l’anno successivo, “Il farmaco”, Fandango, 2010). Così, appena posso, per vederci un po’ più chiaro lo leggo; lei è sempre più, come critico militante, un’addetta ai lavori, e questo non m’impedisce, in assenza di qualifiche adeguate (lei predilige interlocutori autorizzati), di comunicarle le mie impressioni di lettura. L’interlocuzione fra autore e lettore dovrebbe essere sempre possibile, benché abbia imparato, nel frattempo, come lei tenda a defilarsi dal confronto, almeno sui blog, se ritiene che l’altro non abbia sufficienti qualifiche. La Policastro, invece, mi ringrazia per quelle che le sembrano ben più che note di lettura, e mi esorta a pubblicarle. In quel periodo non ho già più rapporti di collaborazione col cartaceo e non ne ho aperti di nuovi col virtuale, per cui la lettera a lei rimane privata.
Al momento in cui scrivo questa nota, Gilda Policastro ha pubblicato un altro romanzo (“Sotto”, Fandango, 2013), e all’indomani della sua presentazione romana – alla quale non prendo parte perché alla stessa ora ascolto la lettura che Paolo Morelli fa del suo “Racconto del fiume Sangro” (Quodlibet, 2013) presso la libreria Fahrenheit – su facebook la Policastro, rispondendo a Stefano Gallerani in un lungo commentario a più voci afferma; “ ieri c’erano sì e no 30 persone. Che non sono nemmeno pochissime, ne convengo (quasi tutti amici, fan, parenti di Lidia Riviello, peraltro). E quanto alla stampa, finora Sotto non ha avuto nemmeno una recensione. Da cosa credi che dipenda?”. Ora, al di là del tema del discutere aperto dalla Policastro – incentrato sulla scarsa visibilità riservata ai libri che valgono e sul poco coraggio degli editori nel praticare una politica di restrizione di ciò che non vale e di appoggio maggiore a ciò che vale – e non ritenendo, quindi di decontestualizzare il discorso al punto di snaturarlo, ritengo sorprendente che la Policastro lamenti, a pochi giorni dall’uscita del libro, l’assenza di recensioni, tant’è che Stefano Gallerani le risponde lapalissianamente: “beh, innanzitutto è appena uscito, le recensioni arriveranno, ne sono sicuro, e anche altre presentazioni”. Non basta. Nel blog “Libri de-scritti”, in un’intervista pubblicata il 29 ottobre 2013 all’indomani della presentazione fiorentina di “Sotto”, alla domanda: “Come consideri questo nuovo romanzo rispetto al precedente?” la Policastro risponde: “Questo è un romanzo e non mi vergogno a dirlo tale. Quando ho esordito mi sono quasi difesa da questa definizione, denominandolo prosa perché venivo dalla poesia”. Benedetto candore; ma non ritiene sbagliato che la sua vergogna di allora (trattandosi di sentimento estremamente personale e intimo, mi azzardo appena a sospettarne la natura “ideologica”) anziché rimanere nell’ambito privato diventi strumento da usare nella tenzone critica? Non le sembra improprio che invece di farne utile occasione di autoanalisi, la vergogna si trasformi in pretesto per avversare chi non è preda delle sue stesse remore?
Questo per dire come sia facile perdere obiettività quando ci s’identifica troppo col personaggio di se stessi. È il rischio maggiore di molti militanti (critici o scrittori che siano) abituati a vivere in uno stato di guerra continua. La guerra, si sa, logora, e spesso neanche i vincitori ne escono bene, soprattutto quando finiscono per subentrare nello stesso odioso ruolo egemone contro cui si sono scagliati.
Questa lunga divagazione per sottolineare come ci si muova sempre, nel valutare le opere proprie e le altrui, su un terreno particolarmente scivoloso; tanto più infido quanto maggiori sono gli strumenti di analisi. Un acuto occhio critico, in sostanza, può spalancare universi di senso nel mistero di un testo, ma se anziché essere mosso da intenti virtuosi segue il demone di qualche cruccio privato, tutta la sua capacità di svelamento viene impiegata per oscurare, e colpire, a prescindere dalle buone ragioni per farlo. Dubitare insieme, argomentando e motivando, potrebbe essere un buon modo di procedere. Ma i raptus, tutti, anche i meno reprensibili, dovrebbero avere la pazienza di restare in disparte; non per cattiveria, ma solo per vedere se il tempo dà loro ragione. E, nel caso, scoprire come e perché ne ha trasformato profondamente le istanze. Parola di testimone.
25 febbraio 2014 alle 19:41
Ciriachi, a parte il puzzle confuso di citazioni sparse (e devono averle spiegato che non possono avere lo stesso valore i pezzi di critica e i commenti ridanciani con gli amici sul social) delle mie dichiarazioni pubbliche, sinceramente e senza polemica: qual è la domanda, come direbbero in tivù. No, perché davvero non capisco il quid. Mi pronunciavo contro il romanzo (cioè contro un certo tipo di romanzo, com’era dettagliato nei miei interventi più distesi, che lei ha avuto modo di ascoltare anche di persona, come no, avendo assistito ed essendosi anzi ben introdotto a qualche mia presentazione, mi pare proprio del Farmaco: ho una memoria concorrenziale alla sua), e poi ne ho scritti due, quindi? Ho forse scritto libri intitolati Marina Bellezza o La solitudine dei numeri primi? Ho forse scritto libri come trame di fiction o sceneggiature di drammoni sentimentali o di thriller, oppure smentito, nella sostanza del mio fare letterario, gli obiettivi polemici costanti della mia precedente militanza? Mi dica, per cortesia, dove e come la forma del contenuto, nella mia scrittura, ha abdicato allo stile, alla cura della struttura, della sintassi e della lingua, come tensione primaria (dello scrivere, non del ”raptus”). Quando dico che la vita ha provveduto mio malgrado a caricarmi di esperienza non voglio certo dire che ho aperto i miei cassetti sic et simpliciter e ho conferito d’arbitrio dignità letteraria ai miei segretucci privati. Né che ho preteso di avere un qualche talento letterario in forza della sola esperienza (peraltro molto dolorosa, quindi volentieri rinunciabile). Vede: quel mio rifiuto di risponderle puntualmente sulle presunte contraddizioni lo trovo tra l’altro attualissimo: Renzi non mi pare si sia mai posto il problema, in giorni in cui è diventato lo sport nazionale elencare le sue. Si vede che nella vita politica oggidiana si può cambiare idea: figurarsi nella letteratura, che è, alla fine, carta straccia.
25 febbraio 2014 alle 22:44
@ Policastro
provo a dirti alcune cose, perché mi stupisce saperti in cerca di molti e diversi lettori. Io ti ho lessi per caso in alcuni commenti ai post su NI, qua e su Lipperatura. Soprattutto su Lipperatura il tuo atteggiamento era tutto tranne quello di chi vuole farsi leggere, e anche adesso mi pare lo stesso. Poi Il Farmaco per curiosità lo comprai lo stesso, mentre La solitudine dei numeri primi l’ho preso in biblioteca (puoi considerarmi un tuo lettore), però non mi piace il tuo modo di giudicare gli altri libri. In questo in parte sei simile a DFW, sei una moralista. Però lui ci metteva anche un’autocritica. E già ti rispondi da sola quando parli di impegno minore per promuovere il tuo secondo romanzo. Per un discorso generale e di lungo periodo, se in Italia non aumentano i lettori, c’è poco da investire, tu venderai di più o di meno di altr*, ma la fetta rimarrà quella. Per un discorso più particolare io non sono esperto del settore, non so quanto ti sei data da fare per farti leggere, però dài per scontato che il tuo lavoro sia di qualità e che meriti di essere più letto di altri. E dài per scontato che con una tiratura maggiore venderesti di più, quando tu stessa dici che la tiratura la si fa anche in base alle prenotazioni delle librerie. Io ti apprezzo, ma non sono rimasto folgorato, penso che rileggerò Il Farmaco e il tuo secondo, ma non mi sono impegnato nel passaparola. Non ho sentito così forte il bisogno di condividerti con altr*, anche se non escludo che me ne verrà voglia.
25 febbraio 2014 alle 23:05
Gentile Policastro, non mi sembrava che la situazione fosse da domande e risposte. Apprezzo il “sinceramente” ma mi sembra che il “senza polemica” non sia fedele agli intenti, se non leggo male il “devono averle spiegato” e “anzi, ben introdotto a qualche mia presentazione” (di solito partecipo, non mi introduco). Le dico solo, per chiarire i tempi, che quando ho assistito alla presentazione de “Il farmaco”, alla libreria Koob – ovvero, quando ho avuto modo di saperne di più sul suo pensiero – l’incidente su facebook era vecchio di un anno, e l’incipit della sua recensione al libro di Mozzi autorizzava a volerne sapere di più senza ritrovarsi accusati, per questo, di non saperne abbastanza degli impliciti presenti nei suoi “non detto”, o nei suoi “detto altrimenti”. Ma mi sembra inutile girarci ancora intorno. Il quid del mio intervento, a riassumere, è il tono a una dimensione del suo bell’intervento sul tema “La formazione della scrittrice”, pieno di spunti stimolanti e di posizioni condivisibili ma, appunto, senza molto interesse per quella parte poco agiografica che quasi sempre sfugge al nostro racconto di noi, ma che gli altri possono cogliere. Pensavo che testimoniarla potesse avere un senso, ma lei l’ha presa male, dice che mischio i pezzi di critica coi commenti ridanciani, quando invece cito una sua recensione e una sua intervista, oltre a un commento su facebook direi molto più dolente che ridanciano, e su un tema che lei tocca nel suo intervento sul blog di Mozzi perché giustamente le sta a cuore.
Quanto alle contraddizioni (Renzi se lo poteva risparmiare), deve decidere: o nella recensione al libro di Mozzi lei non se la prendeva col genere romanzo, ma solo con quei derivati che inquinano l’ambiente (come afferma nella sua risposta al mio intervento), e allora non c’è contraddizione col fatto, poi, di scriverne; perché, appunto, lei non scrive “quei” romanzi, non si pasce di trame da sceneggiatura e di traduttese, ma (vergogna a parte) fa la cosa giusta, scrive i romanzi che vanno scritti. Su questo tema, “i romanzi che vanno scritti” mi fermo perché dubito di saperne abbastanza da dire la mia. Quando scrivo arranco in modo bipolare dietro il mito di un presente praticabile in cui mi fingo di abitare e da cui cerco di non cadere: né nel passato della semplice imitazione dei maestri, né in quel futuro di arroganza che sono i progetti.
Ci crede che quando dice “carta straccia” mi fa amare ancora di più i libri che amo?
26 febbraio 2014 alle 00:50
Vedete, Mauro B e Ciriachi (again): vi siete risposti da voi. Mi avete letta, ricordate dove e come ho espresso questo o quest’altro concetto quasi meglio di me, e questo vuol dire una cosa sola: che sono arrivata alla scrittura di romanzi non da verginella d’assalto, ma con una consapevolezza critica che negli scrittori italiani contemporanea non è proprio comunissima. Basta ascoltare una qualunque intervista (se non leggere un paio di pagine) dei più blasonati per averne conferma. Pochi hanno studiato (pochissimi editori, tra l’altro) e meno ancora hanno letto con la varietà e gli strumenti con cui ho l’ho potuto fare, grazie al fatto che ho avuto a che fare con letteratura in modo professionale (e con maestri d’eccellenza, tra parentesi). Da questo non si inferisce in automatico la qualità della mia scrittura, ovviamente, ma la mia capacità di distinguere letteratura facile e commerciale da letteratura di ricerca e di qualità, quella senz’altro. Perciò senza schermirmi con inutile falsa modestia, certamente mi giudico da sola, e so di scrivere libri che possono essere ritenuti volgarmente *belli* o *brutti*, ma sulla cui caratura letteraria non ci possono essere discussioni di sorta. E se volete avviarle qui, non sarà a colpi di *non mi sono sentito di consigliarlo agli amici*, perché non è su questo piano, la partita. A quali amici? Consigliare poi per cosa? Non è mica una compagnia telefonica, un libro, che la consigli: e tu, come ti ci sei trovato? A soccorrere la mia esibita mancanza di inutile e falsa modestia, giunge poi quella residuale comunità ermeneutica che i libri legge e giudica secondo parametri lungimiranti e che dunque pensa ai libri di uno scrittore come ai tasselli di un percorso (guardando perciò ai modelli, ai tracciati, ai libri che verranno) e non col pollice recto o verso dell’impressione estemporanea. La novità (e se novità non vi fossero, non avrei raccolto l’invito di Giulio Mozzi a misurarmi con l’autocoscienza critica) è che adesso non mi basta: voglio altri lettori, ne voglio di più. E perché no? Perché a guadagnare con la scrittura dev’essere chi la pratica in modo avventizio, omologato e sciatto? Perché deve poter accedere alle trasmissioni alzatiratura solo il caso umano? Voglio che mia zia che guarda Fazio sappia che esiste un mio libro, che non debba essere io a dirglielo e lei a cercarlo con accanimento da detective nelle sole e poche Feltrinelli del sud (nemmeno in tutte, e con due o tre copie per parte). Voglio che lo sappiano la mia vicina romana, accanita lettrice che del Farmaco seppe da una rivista di moda, e poi se lo lesse con passione, e lo addirittura consigliò alle sue amiche, sì, proprio come la tariffa conveniente di Vodafone. Voglio che lo sappiano le studentesse di giurisprudenza con cui condivido le chiacchiere post zumba e che per il compleanno vogliono l’iphone4, 5 o quanti ne sono (”penso di aver capito che mio padre me lo regala”, dice una, ”pensa se hai capito male e invece è un libro?”, fa eco l’altra, e ridono). Insomma, non ho cambiato idea da quando, come ricordava Garufi, pensavo che a vendere tante copie mi sarei sentita in difetto: però ho capito che sono certamente più in difetto quelli che comprano le belle copertine (e solo quelle) dei casi umani credendo si tratti di *romanzi*.
26 febbraio 2014 alle 00:51
Policastro, lo deve dimostrare quando scrive che la letteratura è carta straccia, che non è una cosa seria, non con delle frasi d’effetto in fondo ad un commentario dove si mette male. La sua scrittura è invece seriosissima, di una che pensa che la letteratura sia la cosa più sacra del mondo… Se lei pensasse davvero che la letteratura è carta straccia, non starebbe sempre a differenziarla (con la solita rabbia) in carta straccia di serie a, di serie b e serie c… o almeno lo farebbe con più ironia e autocritica.
26 febbraio 2014 alle 01:43
Policastro, non può dare risposte collettive. Mauro B. dice altro da quello che io le dico. Mi chiedeva quale fosse il quid del mio intervento, gliel’ho scritto ma lo ignora e m’infila (again) in una strategia comunicativa tesa a ribadire, soprattutto, le sue indiscutibili qualità. Si contenga. Nessuno le mette in discussione, quelle qualità. Al suo autoritratto per lo più apprezzabile, mi sembrava mancasse una dimensione autocritica. Ho provato a suggerirgliela ma non le è piaciuta. Le cose che le ho scritto circa “Il farmaco” (se ha dimenticato la mia nota di lettura, posso sempre inviargliene una copia), ovvero, le carezze a pelo, le accetta, il contropelo no. Mi rendo conto che non è cambiata da quel primo attrito su facebook. Lei scrive bene, ma fuori dal testo, se non la si compiace o non le si è maestri, è una pessima interlocutrice e ha scarsa dimestichezza con il rispetto.
26 febbraio 2014 alle 13:00
@ Policastro
Allora, capisco che non ci conosciamo e che non sono tenuto a scriverti, e che è comunque difficile spiegarsi, però almeno vorrei dirti che non ho voglia di polemizzare e che mi fa piacere scriverti, per vari motivi, anche perché ci sono delle cose che dici che mi paiono controverse. Di certo non voglio mettermi a giudicare i tuoi libri, né sul piano critico, né su quello di gusto personale. Se ti ho detto che non ho avuto voglia di condividerti ( non di consigliarti, io alle persone alle quali tengo presto o regalo dei libri che mi piacciono particolarmente o che penso possano piacere, non capisco perché mi tratti come un promoter ) è stato solo per darti un raffronto. Se ti interessa solo vendere di più d’accordo, ma se fai un discorso di ricezione, la partita è anche e soprattutto questa. A far sì che un libro piaccia e venda più di altri la qualità letteraria come la intendi tu conta molto meno di come la intendo io. E non perché viviamo in un brutto mondo, ma perché la ricerca, la consapevolezza e tutti gli strumenti di cui disponi tu non dànno sempre buoni frutti. Per cui pretendere più lettori in ragione della propria caratura letteraria non ha senso. Così come credere che esistano i romanzi veri e quelli no. Così come credere che esista la possibilità di separare il giudizio ermeneutico da quello estemporaneo.
26 febbraio 2014 alle 16:32
No, quale rabbia, sono invece pacatissima: ambisco solo a far ve(n)dere un po’ di più i miei libri: penso sia non un mio diritto, ma un preciso dovere: nei confronti della letteratura, mica del mio conto in banca. Quanto a quello, i libri si devono comprare ed esibire in libreria, non serve leggerli, è sufficiente, come dice sempre il mio editore ”nasarli”. E nasate pure, come avete sempre fatto: ma non sui blog, per favore, in libreria. Grazie. Quanto all’autocritica (ah, era quello il problema, Ciriachi? O guadagnarsi quei quattro cinque post di fila, che altrimenti, se non a carico mio, dove se li può conquistare, nell’orticello dei poetini?), no, non è più tempo di mea culpa: voglio andare da Fazio, punto. Perché Francesco Piccolo sì e io no? Il mio libro parla di università e di donne, può fare audience (Volete il personaggio? E abbiatelo, che mi costa).
26 febbraio 2014 alle 16:56
E’ talmente contorta su di sé che le sfugge molto, Policastro. Legga con attenzione, non c’è nulla che non sia alla sua portata. Non conosce, e proietta del suo… i posti nell’orticello dei poetini… è penoso, anche se fosse una burla. Militi ancora, Policastro; e, se possibile, lo faccia un po’ meglio. Così, è ancora troppo simile ai suoi nemici.
27 febbraio 2014 alle 09:23
Gilda, scrivi qui:
Mentre scrivi qui:
Fabio Ciriachi: la sensazione, a leggere tutta discussione d’un fiato, è che il problema non siano le opinioni che Gilda Policastro esprime; bensì la sua abitudine di esprimere opinioni. Il che mi sembra, per dirla con Gilda, “ben bizzarro”.
27 febbraio 2014 alle 10:36
A Giulio Mozzi: non so che dirle, in proposito. Non ho riletto la discussione e, per dirla con Mark Twain (“Ho seguito una dieta, e l’unica cosa che ho perso sono state due settimane”) mi sembra di aver perso tempo, La Policastro prima o poi venderà e andrà in televisione. C’è materiale per un lieto fine.
Naturalmente la ringrazio per l’ospitalità.
27 febbraio 2014 alle 19:28
la diminutio è un’arte (se non una necessità vitale) che quando viene male diventa falsa modestia, e riesce molto male nell’intento di nascondere un narcisismo a tratti irrespirabile.
28 febbraio 2014 alle 16:47
@Giulio Mozzi, oggetto della prima affermazione è la filiera della produzione e della distribuzione, nel secondo caso il focus è sull’investimento direi culturale che l’editore dovrebbe poter sostenere a prescindere dal prenotato. In altre parole: se il mio libro ha una tiratura di 3 mila copie, nella migliore delle ipotesi potrebbe avere una ristampa e venderne il doppio, ma mai arrivare a decuplicare l’investimento di partenza. Se però quest’ultimo prescindesse dal prenotato, cioè se l’editore decidesse di investire sin da subito con una scommessa sul valore, anziché attraverso una mera previsione di vendita, si potrebbe stampare direttamente un numero di copie più alto (perché un libro si veda in libreria ne servono e direi ne bastano 8/10 mila, il che significa 8-10 copie per libreria, ovvero una pila piccola) e confidare in una circolazione/ movimento d’opinione che conduca più lettori (rispetto agli acquirenti previsti dalle librerie sulla iniziale scheda commerciale) a richiedere il libro e dunque più librerie a prenotarlo, al di là del pattuito. Forse non mi sono capita (sic!), ma non ci vedo nessuna bizzarria.
28 febbraio 2014 alle 18:07
Non sono una poetessa, non sono una scrittrice, non sono una studiosa di critica letteraria ma solo un’umile professoressa di italiano che nella sua vita avrà letto a malapena tre o quattro migliaia di libri; sono perfettamente consapevole della mia pochezza intellettuale e dell’inadeguatezza dei miei strumenti di giudizio; inoltre non ho letto nulla di Gilda Policastro, se non questo articolo in cui parla della sua vocazione: e tuttavia devo confessare che leggere che “sulla caratura letteraria” delle opere della suddetta “non ci possono essere discussioni di sorta”… be’, mi lascia veramente di stucco.
28 febbraio 2014 alle 23:57
Gilda: una ristampa si fa (e si distribuisce, se si ha una buona distribuzione – il che per Fandango è) in poche ore. Quindi non ha senso immobilizzare liquidità stampando (e tenendo nel magazzino del distributore: altro costo) molte più copie di quante siano state prenotate.
Ovvio che, se a es. è previsto un passaggio dell’autrice o autore da Fazio, ha senso avere una scorta più consistente.
Dissennato sarebbe lasciare le librerie prive di copie di un titolo che “si muove”. Ma allora la cosa da farsi non è stampare copie al buio, bensì controllare giornalmente i movimenti di magazzino (e tutti i grandi distributori danno all’editore la possibilità di controllare in qualsiasi momento i movimenti di magazzino).
1 marzo 2014 alle 02:19
Vi rifiutate però di registrare che quando parlo di investimento dell’editore parlo, evidentemente, di un atteggiamento ottimistico e propositivo, fondato sulla stima del valore e non, ripeto, della mera previsione di vendita (che si effettua, ribadiamolo, sulla base di una scheda dell’editore di poche righe spesso scritte male) e cui si accompagni una politica dell’autore, cioè una cura maggiore del suo progetto di scrittura complessivo, non solo del singolo libro, e poi, in relazione alla singola uscita, invece, un’accurata campagna di lancio che preveda la famosa ospitata da Fazio ma anche tante presentazioni (il peggiore degli incubi per gli editori che le considerano assolutamente in perdita e sì e no te ne finanziano 3-4) e un miglior contatto coi critici (tampinarli=effetto contrario; abbandonarli alle loro facoltà di discernimento=recensiscono solo i primi tre gruppi editoriali e qualche outsider random). Insomma, la costruzione del consenso, del movimento d’opinione, del tam tam. Non le invento mica io le regole del marketing. Ma agli editori ormai piace ricordare solo quella che fa derivare l’investimento dalla previsione di vendita: vivaddio (e anche viva Schiffrin), ce ne sono tante altre, riesumiamole.
1 marzo 2014 alle 08:40
No, Gilda. non mi rifuto di registrare eccetera.
Stampare più o meno copie è un fatto pratico. Se telefonando al mattino posso avere tremila copie in distribuzione al pomeriggio, perché mai dovrei stampare tante copie anticipate? Perché mai, in un comparto industriale nel quale la scarsità di liquidità è oggi acutissima (ed è sempre stata presente, peraltro) un editore dovrebbe immobilizzare dei soldi anche solo mezz’ora prima del momento oppotuno?
Sarebbe sciocco.
Faccio notare che un editore, di solito, non può telefonare a Fazio e dirgli: “Fazio, si metta sull’attenti, prepari un’ospitata per questa qui”. Esiste una cricca (che una volta si sarebbe detta forse radical-chic o qualcosa del genere), composta da un numero assai ridotto di persone: se non ne fai parte, non c’è speranza.
Le cosiddette “presentazioni” sono in assoluto il più costoso e dispersivo strumento di promozione: a meno che l’autore o autrice non sia già bello famoso.
Il peso (nelle vendite) dei critici letterari è molto, molto modesto; spesso irrilevante.
Invece (tu parli come se le “regole del marketing” fossero a tutti ben note, Gilda: ma ho il sospetto che non siano ben note a te) un editore che voglia investire per portare al massimo risultato di vendita possibile un’opera che gli importa in primis per il suo valore – potrebbe fare queste cose:
– tentar di descrivere le caratteristiche che potrebbe avere il lettore che amerà l’opera; e tener presente tale (ipotetica) descrizione durante tutto il lavoro sotto descritto (aggiornandola e aggiustandola, anche). Questo è utile anche, a es., per la scelta della copertina.
– cominciare il lavoro con i mezzi d’informazione tradizionali con largo anticipo (qualche mese). Far circolare copie dell’opera: oggi che molti “mediatori” (giornalisti, critici, conduttori ecc.) gradiscono assai ricevere dei file ePub piuttosto che un pacco di carta, la cosa è anche economicissima.
– ne sono rimasti pochi, ma i mensili e i settimanali illustrati sono veicoli di promozione potenti: con loro il lavoro va fatto con particolare cura.
– il passa parola oggi avviene molto via rete. Bisogna individuare un certo numero di “lettori autorevoli” (singoli o gruppi), ossia seguiti da molti, e far conoscere loro l’opera con adeguato anticipo sulla data d’uscita. Con queste persone è più facile, rispetto ai professionisti della carta stampata, costruire anche delle vere e proprie “alleanze”, fondate sul riconoscimento della bellezza dell’opera.
– non è importante che escano innumerevoli articoli, segnalazioni eccetera; è importante che ne escano un po’ tutti insieme. Diciassette recensioni sparpagliate in tre mesi non producono nulla; quattro recensioni apparse lo stesso giorno producono molto (se non altro, perché se ne accorgono i librai).
– i librai vanno tenuti informati. Bisogna far sapere loro che il libro viene letto, recensito, commentato, eccetera. Bisogna far sapere loro che in rete non si parla d’altro. Il tutto con adeguate documentazioni. Il libraio dev’essere spinto a riposizionare l’opera: dallo scaffale al banco ecc.
– le librerie di catena sono l’osso più duro, per due ragioni: a) spesso le prenotazioni non vengono fatte dal direttore della singola libreria, ma centralmente; b) conoscono i numeri della movimentazione dell’opera anche meglio dell’editore (l’editore sa quante copie escono dai magazzini del distributore, la libreria di catena sa quante singole persone hanno acquistato copie dell’opera). In sostanza, le librerie di catena vendono bene solo ciò che si vende già. L’editore, o un suo dignitoso emissario, devono tentare (con anticipo rispetto alla pubblicazione) un contatto con alcune di queste librerie, le più cospicue; devono far leggere l’opera al direttore, ai lavoratori; devono creare una motivazione speciale a esporre l’opera.
– nelle librerie di catena gli spazi espositivi migliori sono in gran parte disponibili a pagamento; e sono in gran parte venduti centralmente. Qui è difficilissimo passare.
– poiché ormai gli agenti (quelli che fanno fare le prenotazioni ai librai) sono una specie in via d’estinzione (oggi la maggior parte delle prenotazioni si fa spedendo un modulo da compilare, senza nessun lavoro persuasivo sul libraio), è importante che nel momento stesso della prenotazione si attivi l’editore. Qui c’è un vantaggio per quei marchi editoriali che i librai identificano con una persona fisica (non necessariamente marchi piccoli: a es., molti librai identificano ormai la narrativa di Bompiani con Elisabetta Sgarbi).
– non è tanto importante il lavoro con i “critici” affinché recensiscano l’opera, quanto il lavoro perché l’autrice o autore sia ammessa all’interno della Repubbica delle lettere, ovvero sia riconosciuta come “autrice” o “autore”. Anche qui bisogna lavorare d’anticipo: si tratta di far conoscere la persona e l’opera, per tempo, ad altri autori o autrici, più o meno “sintonici”, e comunque influenti. Se si ha fortuna si può trovare un “mentore” che si prenda l’onere di ricordare, in diverse occasioni, l’esistenza dell’opera; o che sia disponibile a “dare in uso” un giudizio positivo (a me successe, a es., con Fellini: che scrisse due frasi di elogio e autorizzò l’editore a usarle).
– le presentazioni sono dispersive e spesso inutili, mentre sono importanti i festival: anche quelli piccoli. L’organizzazione di un festival avviene con molto anticipo (io, a es., ho preso ancora nel novembre scorso impegni per giugno e settembre 2014) e quindi, di nuovo, bisogna prendersi per tempo.
– le televisioni locali servono a poco e sono onerose e tristissime; servono a molto le radio, anche quelle piccole.
Eccetera. Rispetto a questo lavoro, come ho già detto, lo stampare più copie di quelle prenotate è un’attività inutile alla promozione e dannosa per la cassa dell’editore.
Avrai notato, Gilda, come ho insisto sul “prendersi per tempo”. Questo è importantissimo. Oggi il lavoro di promozione di un’opera viene spesso cominciato e finito (o abbandonato) in due settimane. Questo sì è un grande errore di marketing.
C’è poi un altro aspetto, ed è il tipo di alleanza che si crea tra l’editore e l’autrice o autore. Conosco autori che hanno rifiutato le comparsate televisive (ma hanno accettato le presenze serie in televisione: a orari marginali ecc., ma serie) e, nel contempo, si sono lanciati a fare dozzine e dozzine di incontri in libreria.
“Ma come, Mozzi: le presentazioni non erano dispersive e inutili?”.
Sì. Ma da un certo numero in poi, se l’autore o autrice ha la personalità adatta, lo stile di comunicazione adatto, eccetera, possono effettivamente mettere in moto un volano (un passaparola) davvero efficace. Però, se l’editore è medio o piccolo, non gli si può chiedere di “finanziare” questi incontri. L’autrice o autore può spiegare, di volta in volta, agli invitanti (librerie, gruppi di lettura, biblioteche ecc.) che viaggiare ha dei costi e che questo costi possono essere almeno condivisi; che viaggiare significa perdere giorni di lavoro (e quindi giorni di ferie o di reddito): e ci si può intendere. Bisogna però appunto che la persona abbia personalità e stile adatti; e che sia adatta l’opera.
Faccio un esempio sciocco: se Tizio scrive un bel romanzo nel quale, tra le altre cose, si racconta la storia del piccolo Giuseppe, scolaro delle medie, che riuscì a liberarsi dai bulletti della scuola: è chiaro che – visto che oggi c’è una specie di paranoia del bullismo scolastico – Tizio potrà facilmente avere tanti incontri diffusi nel territorio: e magari in ogni incontro venderà bene, farà circolare il nome, eccetera. Ma Tizio deve sapere che le madri e (più raramente) i padri che si troverà davanti saranno lì perché interessa loro un contenuto, e non perché abbiano interesse per la bellezza dell’opera (della quale poi magari si renderanno ben conto: ma qui parlo della motivazione al recarsi all’incontro). Se Tizio è disponibile a situazioni come queste, si può cercare di crearle; se non è disponibile, stop.
E potrei continuare (sempre più noiosamente) per un pezzo, Gilda. Ciò che mi sembra “ben bizzarro” è pretendere che un editore, anziché usare i soldi che ha in cassa per la promozione dell’opera, li impegni per stamparne più copie di quante al momento ne sono necessarie.
1 marzo 2014 alle 14:18
Questa è una lezione di “tattica” da imparare – per chi scrive romanzi -.
Scrittori, sì voi che scrivete romanzi,
imparate e mettete in pratica.
Giulio, questo (consiglio) è il quid che caratterizza un buon professionista: avere una visione a 360°.
1 marzo 2014 alle 15:34
Ti ringrazio molto, Giulio, e seriamente, per aver dettagliato sin nei passaggi minuti quel che intendevo per ”politica dell’autore” e per ”strategia del consenso”. Continua a sfuggirmi il mio non sequitur, ma va bene, non voglio protrarre questa discussione all’infinito. Continuo a pensare che il primo e miglior investimento sia quello che parte dal numero di copie esistenti: perché tutto quel lavoro che dettagli, Giulio, si fa con le copie fisiche, reali, dei libri, che si mandano alle librerie, ai critici, alle radio, ai giornali grandi e piccoli e non è vero che tutti si accontentano del pdf: i critici (io per prima), per la maggior parte, gradiscono ancora la copia “vera”, la carta. Quanto a quegli autori cui ti riferisci, i quali avrebbero rifiutato le ospitate televisive non di qualità in favore di altre marginali e più consone, ora ne conosci un’altra: quando uscì il Farmaco mi chiamarono (ovvero chiamarono il mio ufficio stampa) per un’ospitata da Gad Lerner, una da Santoro e altre ancora che non ricordo. Perché mi chiamavano così tanto? Perché a causa dell’intervista su Io donna, ovviamente riscritta e rivista a uso e consumo delle lettrici di un femminile, epurandone accuratamente tutti i riferimenti ritenuti troppo eruditi e introducendovi ex nihilo il piagnisteo generazionale, si era prodotto l’equivoco del ”libro sul precariato” ed era questa e solo questa, la ragione per cui venivo invitata: ”Vieni a parlarci della tua condizione?”, e la mia risposta era (e sarebbe tutt’ora, intendiamoci) un deciso e irremovibile “No, grazie”. Questo perché mi sembra che oltre al rifiuto di registrare il dato fondamentale del mio discorso (si può investire sulla qualità prescindendo dalla mera computisteria o in qualche modo aggirandola?), si sia dato eccessivo peso alla boutade su Fazio: non voglio andarci a far finta di scrivere libri-verità in cui mi lagno di come sono e come vorrei essere, o della mia vita disgraziata o degli sporchi segretucci di famiglia. Voglio andarci come quella che scrive i libri di Gilda Policastro, e che, soprattutto, non ha venduto l’anima al magazziniere del suo editore.
1 marzo 2014 alle 15:45
Vedi, Gilda: per una seria politica di omaggi un centinaio di copie può bastare. Non serve stamparne migliaia in più (rispetto al prenotato).
“Non è vero che tutti si accontentano del pdf”, scrivi; e sono d’accordo. Ho scritto che oggi “molti ‘mediatori’ (giornalisti, critici, conduttori ecc.) gradiscono assai ricevere dei file ePub piuttosto che un pacco di carta”. “Molti” è diverso da “tutti”, “gradire assai” è diverso da “accontentarsi”, “pdf” (= pacco di carta, per di più da stamparsi a carico del destinatario) è diverso da “ePub” (che si può leggere, oltre che nel pc, con il lettore digitale o nel telefono o nell’iPad).
1 marzo 2014 alle 17:01
Comunque vogliono il libro, il libro di carta da tenere e sfogliare con tutta la mano e non da *scrollare* col solo indice: chi non ha vent’anni può disporre di tutte le tecnologie dernier cri, ma il libro di carta rimane un feticcio intramontabile, proprio come il giornale. E i critici dei giornali che contano hanno sessant’anni o settanta, non venti. Manco hanno il pc, di che parliamo? Poi: un centinaio di copie non bastano manco per la short list dei primi invii d’emergenza: so di cosa parlo. Le mie copie sono finite da dicembre (il libro è uscito il 23 settembre): se ne chiedo qualcuna per quello o quell’altro critico che me ne ha fatto espressa richiesta (ma il libro dovrebbe circolare tra tutti i critici di tutte le testate, soprattutto di quelli che non conosco, per avere possibilità concrete di arrivare ai lettori) devo aspettare settimane se non mesi e non è detto che riesca. Senza contare che incontro più critici/addetti ai lavori che non l’hanno mai ricevuto che il contrario. A te, ad esempio, è arrivato? Indovino? No.
1 marzo 2014 alle 18:58
Signora, mi permetto: se lei vuole andare a spasso col mercato, deve fare in modo che il mercato abbia bisogno di lei e ci trovi un guadagno. Bellezza del testo e caratura letteraria non sono monete correnti in Italia e non lo sono in Occidente (resistono in Est Europa, America Latina ed Estremo Oriente). Lei è un insider e lo sa molto meglio di me, conosce anche le vie traverse di uomini (casi umani, ribelli e cialtroni a vario titolo, personaggi mediatici dai grandi numeri) e donne (oggettistica sentimental / sessuale, arrabbiate irredimibili, casi umani disperatissimi) per fare mercato di se stessi. Se lei avesse fatto le comparsate in TV come caso umano del precariato ed una buona recita, avrebbe forse scavato la nicchia dalla quale partire per mettere in circolo i suoi discorsi migliori e più rappresentativi (un po’ alla Michela Murgia?). Saluti ed in bocca al lupo.
1 marzo 2014 alle 21:05
Visto che di teatrino si tratta, in bocca al pupo!
1 marzo 2014 alle 23:08
Gilda, a me il libro non è arrivato (l’ho comperato).
Ma è noto a tutti (nel magico mondo dell’editoria) che io non scrivo quasi mai recensioni (prova a cercarne in “vibrisse”: quante ne trovi?). Quindi la scelta di non mandarmelo è ragionevole: si risparmia una copia omaggio, e si presume (giustamente) di venderne una.
Scrivi.
Si vede che tu frequenti un mondo diverso dal mio. (Io, comunque, ho lavorato alla promozione di un certo numero di opere letterarie. Tu – credo – no. Se dài un valore alla mia esperienza, stammi a sentire). (E, come ho già scritto: nella mia esperienza, gli articoli dei “critici” sono irrilevanti rispetto alle vendite. O almeno molto meno rilevanti rispetto a un trafiletto su Vanity fair o a una segnalazione in rete dei Wu Ming. ).
1 marzo 2014 alle 23:09
Spero sia chiaro, Gilda, che io condivido in pieno lo spirito del tuo discorso. Dissento su alcuni aspetti tecnico-pratici.
1 marzo 2014 alle 23:37
sul peso delle recensioni qui http://lavienbeige.wordpress.com/2011/12/17/quanto-conta-la-critica/ racconto come una recensione entusiastica di claudio magris a tutta pagina sul corriere fece vendere 80 copie di un libro.
1 marzo 2014 alle 23:38
Giulio, io non frequento nessuno (come si desume tra l’altro dal giorno&ora in cui rispondo), se non i fidanzati (uno per volta) e gli amici di lunghissimo corso (non letterati di professione): so e ho le prove perché ho intervistato spesso professionisti del settore. Ad esempio Franco Cordelli, critico di punta del Corsera e poi de La Lettura (per la narrativa straniera), che si picca di non avere nemmeno la mail e di scrivere le recensioni a penna. Però al di là delle tecnologie più o meno dirimenti, ti ringrazio perché certamente ho appreso un sacco di cose, da questa discussione. E non solo sul piano materiale, in merito alla mai troppo esplicata filiera produttiva, ma soprattutto sul piano ideale: cioè se Fazio mi chiama, al prossimo libro, mi sa che quella sera ho da fare.
2 marzo 2014 alle 06:43
E indubbiamente Claudio Magris è più influente di Franco Cordelli.
2 marzo 2014 alle 10:38
ciao giulio. anch’io ho scarsa fiducia nella promozione classica di un libro (presentazioni in libreria, recensioni della critica ufficiale ecc.). un caso interessante fu quello di open, l’autobiografia di agassi. con una tiratura iniziale di 5000 copie (quanto il mio romanzetto), e dopo due entusiastiche recensioni di piperno sul corriere e di baricco su repubblica, a fine 2011 (cioè 7 mesi dopo l’uscita) si era attestato sulle 15.000 copie, che per un libro del genere (confrontato per es a quello di nadal) era più che soddisfacente. nel secondo anno di vita (2012), quando la curva delle vendite avrebbe dovuto scendere fino a sparire, vendette più di 100.000 copie, scalzando dal primo posto in classifica per qualche settimana addirittura le famigerate 50 sfumature. a einaudi stile libero si stentava a crederlo. non c’erano stati passaggi televisivi né altre recensioni di peso. poi, uno studio sulle vendite del libro rintracciò il motivo di quel boom, addebitabile ad una serie di tweet di celebrities non letterarie (jovanotti e valentino rossi, con più di un milione di followers ciascuno). al di là del mezzo (twitter), io attribuisco una grande importanza al fatto che quegli endorsement non provenivano da lettori professionisti (né erano scritti con uno stile paludato), apparendo così agli occhi del lettore comune come del tutto disinteressati (il che la dice lunga su quanto sia screditata la categoria).
2 marzo 2014 alle 17:43
@ Garufi
Secondo me alla fine del tuo commento fai un’ipotesi “ben bizzarra”. Il lettore comune non esiste, e ammesso che si possa dire o sapere se la categoria dei critici o dei lettori professionisti sia più o meno screditata rispetto a prima, la cosa non si lega con il caso che citi. Jovanotti, Valentino Rossi o Fabio Volo sono personaggi entrati nella vita dei loro ammiratori, che ne saranno più o meno influenzati. Per cui si stabilisce una sorta di legame. Se un libro è piaciuto a Jovanotti, e per di più è il libro di un personaggio famoso, l’ammiratore di Jovanotti sarà invogliato a leggerlo, perché è come se glielo consigliasse un amico, che essendo poi Jovanotti ha quel fascino in più. In questo caso stile e disinteresse nel promuovere non sembrano entrarci. Passiamo poi a Baricco e Piperno. Piperno rispetto a Baricco non se lo fila quasi nessuno e c’è un ovvio motivo, ovvero che Baricco sa affascinare le persone, sa tenere una conferenza su un qualsiasi argomento e farti passare del tempo in maniera piacevole. Quando scrive di un libro è efficace. In poche parole è fico. Ma più di tutto Baricco riesce a stabilire una relazione ( e visto che sono stati citati, il blog Giap dei Wu Ming è uno spazio vivo e stupendo ), la lettura è familiare. Per questo è così influente, così come lo stesso può capitare con dei blogger molto seguiti. In tutto questo la critica ufficiale non può entrarci perché questo meccanismo le è estraneo per definizione. O un critico riesce ad entrare in contatto con i lettori oppure non si capisce per quale motivo uno dovrebbe comprare un libro perché te lo dice un critico.
2 marzo 2014 alle 19:39
La costruzione del consenso passa, difatti, attraverso due canali: il pubblico e la critica, come a Sanremo. L’uno e l’altro indispensabili, se parliamo di letteratura. Stasera concorre all’Oscar Paolo Sorrentino: il film ha fatto storcere il naso ai critici highbrow, che però se lo sono comunque visto, così come il pubblico-massa (che poi massa non è più, evidentemente), e lo hanno volentieri recensito. Ecco: perché nella narrativa italiana non può darsi l’equivalente di Sorrentino, un regista preparato, coi mezzi, che fa del cinema autoriale e che però viene pure visto dalle famiglie? Perché la letteratura dev’essere questo baubau inaccessibile per i più ai quali si gabella per ”libro” la confezione delle memorie di un tennista? Quello è fuori circuito, è come gli Harmony, non conta. Ma perché Francesco Pecoraro, che ha di recente pubblicato, per communis opinio critica un capolavoro, non può andarci lui, visto che io declinerò, da Fazio? Chi deve segnalare alle masse che esiste un libro-libro (non il memoriale del tennista scritto da un altro) su cui vale la pena investire dei denari perché merita di essere letto, perché parla di questo e quest’altro, e perché è scritto nel tal o tal altro modo? Pecoraro mi pare l’avessero respinto tutti gli editori a cui aveva proposto il libro prima di PaG: ora che si grida al capolavoro, quegli editori che l’avevano respinto si mangiano un po’ le mani, o continuano a baloccarsi coi registri dei fondi di magazzino? Io rivendico che dell’esistenza di certi libri si sappia, in una par condicio delle possibilità di accedere a scaffali più in vista, novità, vetrine, Fazio. Poi chiaro, scelga chi può e chi non può scegliere, compri almeno quello giusto. Che Agassi non ha certo bisogno del sacrificio di noi contribuenti.
2 marzo 2014 alle 20:22
@mauro
io citavo uno studio commissionato dall’editore, con tanto di grafici e dati settimanali, circa i dati di vendita di un libro, proprio per cercare di sganciarmi dall’impressionismo. per “impressionismo” intendo lo sparare sentenze tipo open fa schifo, stoner è una merda ecc, che a me personalmente non appassionano per la loro indimostrabilità. “piperno rispetto a baricco non se lo fila quasi nessuno” invece è confutabile. in quel grafico infatti si vede come le vendite di open, partito con 400 copie vendute a settimana, balzarono a 700 a settimana per due mesi dopo la recensione sul corriere di piperno (1 agosto 2011), poi scesero un po’ e risalirono alla stessa quota con la recensione di baricco (13 novembre 2011). ergo piperno se lo filano quanto baricco. stesso discorso per i consigli di jovanotti, o per il fatto che l’autore (sebbene con l’ausilio di un ghost writer) sia una celebrità. jovanotti ne ha consigliati diversi su twitter, anzi ora scherzava sul fatto che gli arrivano per posta un sacco di libri da parte degli editori, come fosse un critico. a volte anche libri di rockstar, e però non hanno riscosso lo stesso successo di open, ergo quella combinazione non è di per sé sufficiente a spiegare il fenomeno. insomma, se i gusti non si discutono, i dati di vendita si possono però analizzare e cercare di capire. e se un autore tiene davvero a che il proprio libro venda un po’, forse dovrebbe cominciare a non disprezzare il lettore comune (che esiste eccome, non solo nelle statistiche), se non altro perché verrà ripagato con la stessa moneta.
2 marzo 2014 alle 20:33
Sorrentino non so se venga visto dalle famiglie, certo è riuscito a emergere, passo dopo passo però, e perché oltre al talento autoriale ha una forza che molti altri talenti non hanno. Inoltre sa essere pop. La letteratura non ha la stessa forza del cinema che ne ha ancora meno della musica. Per le persone non è così importante. Questo ha delle ragioni storiche e delle ragioni naturali. Comunque non è tutto così brutto. Io non sono nemmeno diplomato, non ho una famiglia colta alle spalle, eppure Pecoraro lo leggo. Comunque il fatto che consideri Open di Agassi come un Harmony o una gabella piuttosto che un libro-libro la dice lunga. Ci hai un’impostazione tardo ottocentesca niente male. Poi hai un modo curioso di disprezzare i lettori che cerchi. I libri raccontano storie, in classifica ci stanno anche King, Camilleri, Ammaniti, Wu Ming e gente varia che le sa raccontare
2 marzo 2014 alle 20:46
@ Garufi
d’accordo.
3 marzo 2014 alle 02:06
Sì.
Il regista Paolo Sorrentino non ha solo il talento autoriale che lo contraddistingue. Ha il raro talento di chi riesce a entusiasmare il prossimo a colpi di superficialità. E’ una merce rara e non bisogna sprecarla. Ne nascono uno su un milione di talenti per la superficialità. E’ giusto che non vada sprecato. Speriamo che La grande bellezza sia sufficiente per l’oscar, dobbiamo sperarlo tutti. C’è grande attesa. Ed è giusto anche che un film turistico, ben fatto e ben organizzato come La grande bellezza abbia gli onori che merita. Il turismo per noi italiani, in tempo di crisi, equivale alla salvezza.
Fa niente se la bellezza è così grande che non ti sposta di un millimetro. D’altra parte, chi crede di spostarsi davvero in un viaggio organizzato è un illuso. Si vedono cose. Si conoscono persone. C’è allegria. C’è una regia organizzata e puntuale. Magari con ambizioni da grand tour, con qualche mania di grandezza, ma niente che si possa rimproverare davvero. Si passa del tempo. C’è entusiasmo, l’entusiasmo è importante. Non c’è grande bellezza, senza un grande entusiasmo, perché la bellezza è grande solo per gli entusiasti. Beati gli entusiasti, che restano dove sono senza pretesa di spostamento e godono dell’entusiasmo.
6 marzo 2014 alle 14:19
Cara Gilda,
mi permetto di intervenire in questo spazio per esprimere un parere di lettore sul tuo lavoro.
Le tue poesie non mi piacciono; le trovo….direi……prive di verità. I tuoi romanzi ancora di meno. Manca in ogni loro parte la vita (come direbbe Cortazar).
Tu al contrario mi incuriosisci molto; ti ho visto varie volte in biblioteca…..magari un giorno mi presento.
non ti offendere; è solo opinione che non vuole essere verità assoluta
Matteo
6 marzo 2014 alle 14:22
dimenticavo….il libro di Agassi è veramente un bel libro
6 marzo 2014 alle 15:12
@dm: bisognerebbe copiare il tuo ultimo commento su questo articolo in minima&moralia.
6 marzo 2014 alle 15:12
Matteo,
1. “Come direbbe Cortàzar”: ma Cortàzar non l’ha detto, ovvero non hai mai espressa nessuna opinione sul lavoro di Gilda Policastro. Quindi l’argomento di autorevolezza è usato in maniera capziosa.
2. “Le tue poesie non mi piacciono; le trovo… direi… prive di verità”. E poi: “[la mia] è solo opinione che non vuole essere verità assoluta”. Ovvero: ciò che per l’opinione sarebbe sbagliato (voler essere verità) è ciò che si chiede invece alle poesie. O sbaglio? O la parola “verità”, in queste due frasi peraltro vicinissime, è usata in due sensi completamente diversi?
3. “Manca loro in ogni parte la vita”. Come se un’opera letteraria potesse essere viva nello stesso modo in cui è viva Gilda Policastro (che ti “incuriosisce”).
Ovvero, Matteo: ho come la sensazione che il tuo tentativo di dire cose che abbiano l’aria di essere importanti (nomini la la verità e la vita: manca la via…) naufraghi un po’ nella vaghezza.
Questo per invitarti a provare a dire le stesse cose in modo un po’ più definito.
6 marzo 2014 alle 15:32
Caro Giulio (mi permetto di darti del tu),
hai ragione su tutto; non fosse altro che il mio è solo un giudizio da lettore (…..e che fatica leggerla tutta); lettore che non ha nemmeno la voglia di provare a dire cose importanti.
Vogliamo fare filologia maschilista: archiviata la poesia rimane la mente e il corpo.
6 marzo 2014 alle 17:42
”Ben bizzarro” quel che dice, @matteo: caso mai mi si imputa il contrario, riguardo alla poesia, un eccesso di verità confessional. E poi quanto all’ultimo romanzo, il gioco sociale più praticato tra i suoi venticinque lettori era l’identificazione di questo e quel personaggio con il suo ”palinsensto biografico”. Il corpo è tutto, diceva, prima di lei, Giacomino: lo sostengo pervicacemente anch’io. Ed è la verità del corpo quella che cerco, prima di tutto (nella scrittura e direi nelle esperienze di vita: dunque le sarà inutile presentarsi alla prossima occasione: io non l’ho mai notata, cioè a parte i libri e le persone che già conosco, non mi capita di notare mai nessuno, in biblioteca). La verità del corpo che patisce sin dalla nascita, si piega, incanutisce, deperisce, che si ammala più o meno precocemente, che crepa tra accidenti e mortificazioni che non ha scelto (o invece sì, groddeckianamente): non credo di saper raccontare altro. E può dirmi che lo racconto bene o male, dalla sua postazione protetta (lei sa chi sono io, non il contrario: la solita storia), ma i giudizi del *lettore* non sono insindacabili: il lettore può essere distratto, inesperto, inadatto, disinteressato, pregiudiziale, incolto e via così.
6 marzo 2014 alle 19:59
”Ben bizzarro” certamente.
Il mio giudizio è assolutamente sindacabile; non ho nulla da dire.
Come, sia chiaro, non è insindacabile chi le imputa il contrario [riguardo alla poesia]. Non leggo nessuna verità confessionale in lei.
Perché non dovrei presentarmi se capitasse l’occasione; non vorrà mica educatamente concedere un saluto solamente a chi rema a favore.
Ultima cosa; non dia dell’inesperto e distratto e poco colto a chi si è preso la briga di leggere i suoi libri; adesso siamo 25 lettori e non è poco.
Poi lo saprà meglio di me ”il garbo è tutto”.
7 marzo 2014 alle 00:31
RobySan, grazie per la segnalazione. Sai, l’articolo di Masneri, o quel che è, mi ha fatto un’impressione piuttosto strana. La sintassi sghemba, gli anacoluti, i bisbigli cronachistici, il dire-non-dire del mondo mi fanno un po’ girare la testa. E’ lo stesso giramento di testa che, se mi ricordo bene, avvertivo durante la visione de La grande bellezza. Ovviamente non sto paragonando il pezzo, molto abborracciato, al film, molto barocco anzi barocchesco. Però dev’esserci qualcosa, in un certo modo di affrontare le cose, che mi restituisce un certo nulla.
Ma sono problemi miei.
7 marzo 2014 alle 11:46
Si chiama fuffa, dm! Ben lustrata (eppoi chiudo, ché son fuori tema).
7 marzo 2014 alle 17:35
Carissimo Giulio,
sicuramente non ti interesserà e anche tu come la signora Gilda ti barufferai;
ho letto le tue poesie tra ieri ed oggi. Troppo poco per esprimere un parere definitivo.
Ma pensando alla rinfusa mi viene da ridere: vi siete proclamati poeti e vi riunite in circoli autopromozionali. Siete simili ai tipi di Nuovi Argomenti e Minimum……adesso ho capito.
apprezzo comunque chi abbia qualcosa da dire; sapevi cosa disse croce su certi poeti suoi contemporanei?
7 marzo 2014 alle 17:59
e poi, e sarà l’ultimo post di spontanea volontà, ho letto tantissimi articoli tuoi e della signora Policastro e veramente non capisco nulla di quello che scrivete. Mi chiedo se la mia sia veramente mancanza di cultura o la vostra mancanza di chiarezza….Non eri tu a dire di dire le cose in modo diverso?
8 marzo 2014 alle 08:04
Matteo, allora:
– cominci con un “sicuramente non ti interesserà”: presumi quindi di sapere che cosa mi interessa e che cosa non mi interessa. Ma come fai a saperlo? Hai forse una macchinetta che ti svela i miei pensieri? O si tratta, più banalmente, di un tuo pregiudizio?
– sostieni che io mi sarei “proclamato poeta”. Ma dove? Ma quando? Suvvia. Perfino Wikipedia evita accuratamente di chiamare “poesie” certi miei scritti, preferendo la più materialistica definizione di “opere in versi”. E se dài un’occhiata alla nota che, su richiesta dell’editore, ho compilata per il libretto Dall’archivio (la trovi qui), potrai notare come dei testi che esso contiene io parli come di “pezzi”.
– se poi qualcun altro sostiene che io sia un “poeta”, allora il problema è di quel qualcun altro. Einaudi ha pubblicato un mio libro in versi: ma l’ha messo in una collana di prosa, e questa scelta non sarà priva di significato. I curatori della collana “I domani” dell’editore Aragno, invece, mi hanno chiesto un libro per una collana che è proprio di poesia: evidentemente la loro opinione è diversa da quella di Einaudi.
– quanto ai “circoli autopromozionali”: al di là del fatto che non vedo come possa essere considerato riprovevole il ritrovarsi e frequentarsi tra persone che hanno interessi in comune, sapresti dire quali circoli io frequento?
– non so cosa disse Croce su “certi poeti” suoi contemporanei: magari se mi dici di quali poeti si tratta posso ricordare. Ma di Croce ho letto soprattuto i libri e le raccolte dedicati alla letteratura (e alla cultura) del Cinque-Seicento.
– mi domandi: “Non eri tu a dire di dire le cose in modo diverso?”. Ah, beh, certo. “Diverso” non significa “più facile”. Io cerco la chiarezza, ma talvolta è davvero difficile raggiungerla. Ad esempio, la frase “Non eri tu a dire di dire le cose in modo diverso?” è ambigua: può voler dire (al netto della domanda retorica) tanto che io avrei sostenuto di essere uno che dice le cose in modo diverso, quanto che io avrei invitato a dire le cose in modo diverso.
– a volte, se non si capisce ciò che si legge, il problema non è di cultura o di istruzione: può esserci un deficit intellettivo, una mancanza di attenzione, un eccesso di pregiudizio eccetera.
8 marzo 2014 alle 14:33
Caro Giulio,
forse non ricordi che dirsi ‘scrittori in vers’i è forse anche migliore di definirsi ”poeta”.
Per quel che riguarda i circoli autopromozionali è una tendenza diffusa e credo che tu lo sappia benissimo. Non conta più il valore letterario oggettivo ma quello soggettivo di un gruppo.
Ho letto un tuo romanzo e non posso non dirti che ho per quello solo giudizi positivi, ma la poesia è altra cosa.
8 marzo 2014 alle 14:33
scusa matteo se ho risposto per te
8 marzo 2014 alle 15:45
Alvaro, è impossibile che tu abbia letto un mio romanzo. Non ho mai pubblicato romanzi.
Quanto al “credo che tu lo sappia benissimo”: è un vecchio trucco. Si parla di qualcosa di cui non si ha nemmeno un’idea, e si fa finta che sia qualcosa che tutti sanno.
Suvvia.
8 marzo 2014 alle 18:18
Scusate, io dico che espressioni del tipo “credo che tu lo sappia benissimo” oppure “sicuramente non ti interesserà” appartengono a una formazione retorica mal digerita e peggio applicata.
Invece, asserti del genere “ma la poesia è altra cosa” fanno parte di quel che soleva definirsi “benaltrismo”: abbiamo “ben altri” pensieri, si tratta di “ben altra” cosa ecc. Ma altra cosa quale? Fatta come? Detta come? Volete fare un esempio (o due, meglio se comparativi) che chiarisca il pensiero che intendete esprimere?
Quanto al “capire ciò che taluni scrivono” aggiungerò che alle volte è sufficiente consultare un vocabolario, un’enciclopedia, una grammatica, un testo di storia della letteratura (magari un po’ più recente di quello del De Sanctis, senza nulla volergli togliere) e soprattutto rifarsi alla fonte delle citazioni nel testo. Chi scriva un testo letterario, o con pretesa di esserlo, oppure un testo di analisi e critica deve necessariamente partire dal presupposto che il lettore capirà. Specie in luoghi come questo. E’ questa cosa, precisamente questa, il rispetto del lettore. E tu, lettore più o meno attento, più o meno accanito, più o meno critico; bada bene: il diritto di non capire NON CE L’HAI! Hai il diritto di esprimere tutto il disappunto, il disaccordo, lo schifo, il ribrezzo e la riprovazione (magari motivandoli). Ma il diritto di non capire: NO! Quello è un diritto che non sta nella carta di questa repubblica.
E tra l’altro, eppoi chiudo, affermare “non capisco nulla di quello che scrivete” e quindi chiedersi se “è una mia mancanza culturale” è un modo retorico per dire “scrivete paroloni inutili” che potrebbe essere agevolmente visto come tale pure da mio figlio dodicenne. Tanto per dire quanto logoro e rabberciato sia.
8 marzo 2014 alle 22:56
Roby, Roby: sai benissimo anche tu che quelle espressioni sono ben altro che formazione retorica mal digerita. D’altra parte, come tutti sanno, non capisco mai nulla di ciò che scrivi: ma sarà una mia mancanza ginnica.
9 marzo 2014 alle 14:42
e cosa sarebbero se non retorica mal digerita? chiama per nome le cose se hanno un nome e non nasconderti
9 marzo 2014 alle 17:11
Giuseppa! Antonia!
9 marzo 2014 alle 17:23
troppa saccenza
9 marzo 2014 alle 17:32
Alvaro (o Matteo, a scelta: visto che scrivete contemporaneamente dallo stesso pc): a che vi serve, fare ‘ste cose? :
10 marzo 2014 alle 11:20
che furbo che sei!!!!!!! ma non era molto difficile visto che è normale che tu lo sapessi.
Comunque ci tenevamo ad avere due voci individuali.
10 marzo 2014 alle 21:49
La domanda era: a che vi serve, fare ‘ste cose?
28 marzo 2014 alle 17:56
Caro Giulio,
eccomi qui. Mi dici cosa pensi dei ”Mondi” di Mazzoni?
29 marzo 2014 alle 12:09
Non l’ho letto. Ma che c’entra?
1 aprile 2014 alle 09:49
Solo per sapere un tuo giudizio. E di officina poesia di Nuovi Argomenti?
se ci sono altri spazi dove posso scriverti e scambiare giudizi fammi sapere dove.
1 aprile 2014 alle 10:47
Basta guardare, qui in vibrisse, la pagina dei contatti.
1 aprile 2014 alle 17:43
ti ho scritto una mail dall’indirizzo manugiacometti…..
3 novembre 2015 alle 06:02
[…] ha pubblicato presso Fandango Il Farmaco (2010) e Sotto (2013). In vibrisse si può leggere il suo intervento nella serie La formazione della scrittrice. […]