[Questo è il quinto articolo di una serie che spero lunga e interessante. Per ragioni pratiche ho cominciato invitando a scrivere delle scrittrici amiche. Ringrazio Federica per la disponibilità. Chi volesse proporsi, mi scriva mettendo nell’oggetto le parole “La formazione della scrittrice”. Lunedì prossimo interverrà Gilda Policastro. gm]
Il padre di mio nonno aveva una conceria e comprava cavalli. Quando mio nonno era adolescente, suo padre morì di setticemia e la famiglia perse tutto. Mio nonno, terzogenito, aveva quattro fratelli e cinque sorelle. La madre e le sorelle si misero a ricamare. Lui se ne andò in Argentina a 16 anni, a guadagnare per tutti. Poi tornò.
Quand’ero piccola, ogni estate partivamo da Verona per passare le vacanze dai nonni materni in Irpinia.
Ogni giorno, a pranzo, mio nonno raccontava dell’Argentina e aggiungeva pezzi nuovi alla sua storia sudamericana: di quella volta in cui la padrona di casa si accorse che lui si vergognava di prendere il cibo dal piatto centrale comune però, di quella volta in cui gli rubarono i soldi e allora, di quella volta in cui gli venne il tifo e. Mia nonna, piccola e gagliarda, portava e toglieva piatti, spostava posate, levava la tovaglia, passava la scopa, ci faceva alzare i piedi e lavava per terra, apriva la finestra per fare asciugare il pavimento, e mio nonno era ancora seduto a capotavola a sviscerare dettagli mai sentiti, a rovesciare i prima e i dopo, a invertire le cause con gli effetti.
Ogni giorno di ogni estate imparavo che una storia non è mai una storia se non è raccontata, che una storia non è mai una storia sola, che una storia non è mai realmente accaduta, non è mai realmente falsa, non è mai una sequenza. Al massimo, può essere veramente vera; ma per essere veramente vera bisogna che non sia mai la stessa storia anche quando racconta gli stessi fatti, perché la sua vera verità cambia a seconda del momento in cui prende la forma di una storia.
Ho sempre pensato che avrei pubblicato un libro, da quando avevo otto anni.
Le storie sono l’unica cosa che mi interessa.
Scrivo da sempre. L’inchiostro delle mie parole mi ha sempre dato da mangiare, perlopiù per via di giornalismo.
Io tenevo un diario. Ma quando i miei si separarono mio padre portò tutti i miei diari dal suo avvocato perché ci trovasse dentro qualcosa che potesse far del male a mia madre. A quattordici anni capii che le parole sono armi che ti si possono rivoltare contro. Smisi di scrivere.
Ricominciai solo quando trovai il modo di proteggermi dalla profanazione attraverso il giornalismo, scrivendo le storie degli altri. Non correvo rischi, e – anzi – proteggevo il «senso» degli altri prestando loro la mia penna, dando loro la mia voce.
Ero idealista, ma non ho niente contro l’idealismo, perché mi ha consentito di non spogliare nessuno con le mie parole.
Ero sorretta da quest’idea di moralità della scrittura che non saprei dire se fosse un limite o una risorsa. Sta di fatto che mi davo il permesso di raccontare solo storie di altri, storie non finzionali.
La repubblica delle lettere io non so che cosa sia, e non so se ne faccio parte. Non ho pubblicato con grandi case editrici, né ho pubblicato molto.
Il mio percorso è strambo, come me. Non posso citare scrittori o editor che abbiano intrecciato le loro strade alla mia. Nessuno il cui nome – letto da chi passa per di qua – possa indirettamente certificare l’impressione che io sia «arrivata». E infatti non lo sono.
Però sono partita. Alla prima fermata ho incontrato Giulio Mozzi, a cui spedii il manoscritto di Due colonne taglio basso (che secondo me è una bella storia con dialoghi belli e personaggi belli) senza nemmeno sapere chi fosse, solo perché un amico ferroviere mi aveva dato il suo nome. Giulio lo lesse, gli piacque, mi telefonò, e persuase la casa editrice Sironi a pubblicare quella storia.
L’avevo scritta in tre settimane, ma avevo impiegato un anno a rimetterla a posto, a verificare la tabella dei tempi, dei prima e dei dopo; a scrutinare i tipi di linguaggio dei personaggi, perché non sembrassero parlare tutti con la stessa voce.
La cosa più ridicola di quel libro sono i ringraziamenti. Mi fanno vergognare.
Poi ho incontrato Carlo Cannella di Senza Patria. Sempre con lo zampino di Giulio, ho incontrato Christian Raimo, che avendo visto il mio blog mi chiese di scrivere per la minimum fax un saggio sul giornalismo e le sue parole ideologiche, le sue parole-coperta. Ora quel saggio che fino al 2011 mi era rimasto in gola, Il paese dei buoni e dei cattivi, è alla Biblioteca del Congresso a Washington; a Stanford, alla Columbia… È un pensiero bellissimo che una cosa uscita da questo pc abbia attraversato l’oceano.
Ho incontrato la gioia di vivere di Francesca Melandri, il calore di Catherine Dunne e la carta vetrata di John Lynch; ho incontrato molti altri italiani, alcuni supponenti e antipatici, altri bravissimi e gentili (mò nun me magnate a mmorzi); altri ancora mostri sacri come Dacia Maraini. Ho incontrato molti irlandesi (alcuni di loro enormemente bravi), perché da dieci anni vado e vengo da qui a là, passando spesso per l’Irish Writers’ Centre di Dublino, e già tre volte – una volta sola con un mio reading, però – per la Listowel Writers’ Week.
A tutti coloro che ho incontrato io devo qualcosa, ma non ho mai trovato un «papà» oppure una «mamma»: solo zii e zie, temo. Nessuno mi ha mai smontato e rimontato una storia, e ogni tanto mi domando perché.
Non ho un agente, non sono un nome, non sono un personaggio.
Però credo di essere lo stesso una scrittrice, perché nuovi romanzi e nuovi racconti sono parte del mio lavoro, anche se si trovano ancora su questo hard disk, nessuno me li ha ancora pagati e continuo a fare «mela-esse»; anche se sono mezzi in inglese e mezzi in italiano; anche se sto combattendo con una sceneggiatura senza avere mai imparato a sceneggiare; anche se sto scrivendo una storia comica sul giornalismo che finisce malissimo.
Credo lo stesso di essere una scrittrice, anche perché c’è chi crede che io lo sia, e nessuno può darsi un’identità da solo.
Lo credono, per dire, al Tyrone Guthrie Centre irlandese – parte del network mondiale di «art residencies» ResArtis – dove mi hanno ammesso a un periodo di «residency». Sarò là quest’estate.
Lo crede, per dire, anche mio figlio, che ogni tanto – quand’era più piccolo – mi chiedeva «ma tu sei famosina?».
Mi fa sempre impressione leggere tutte queste lamentazioni sul fatto che la gente che scrive è troppa. A me sembra che ci sia spazio per tutti: famosini, famosoni e non-famosi; bravi, bravini e incapaci.
La fama dipende da un tale numero di fattori…
Ogni foglio su cui si scrive è un piano che parte dall’uno e arriva al numero enne. È relazione, e la bella parola non esiste: c’è solo la parola che ti suona dentro e quella che no. Cosa ci puoi fare se non piace a centomila persone? Il numero non misura la qualità, né quando è piccolo né quando è enorme; e qualunque numero superiore a uno crea una relazione che può cambiare la vita di enne esseri umani.
Ma sulla «formazione della scrittrice» c’è un’altra cosa che voglio dire.
Che fra il giornalismo e i romanzi a me è sempre sembrato che ci sia un legame forte.
Però mi spiego.
Non mi piace il giornalismo romanzato; né il reportage romanzesco. E non riesco ad attribuire valore positivo al romanzo che mescola finzione e giornalismo-verità, attribuendo pensieri verosimili e intenzioni credibili a persone vere ed esistenti.
Ma il giornalismo è pieno di storie e di relazioni; i giornali sono microcosmi folli, endogamici e iperattivi.
Osservarli e raccontarli come soggetti di finzione è meraviglioso. È raccontare le storie di una colonia speciale di bipedi. Sono bipedi che per professione raccontano storie al mondo, costruiscono universi paralleli, eppure sono convinti che quella che si costringono collettivamente a raccontare sia l’unica verità tollerabile, o possibile.
Ecco. Poche cose sono appassionanti come scrivere storie su quella speciale follia che ci sembra normale finché non la guardiamo da vicino, dentro un’enorme pupilla dilatata in cui si riflette un minuscolo Giardino delle Delizie di Hieronymus Bosch.
Tag: Carlo Cannella, Catherine Dunne, Christian Raimo, Dacia Maraini, Francesca Melandri, Hieronymus Bosch, John Lynch
10 febbraio 2014 alle 11:14
Un’altra bella-bellissima pagina. “La formazione della scrittrice” sta diventando sempre più simile a quei calendari dell’Avvento dove si apre una finestrella per ogni giorno che precede il Natale e appaiono figurine umane o animali… In questo calendario della scrittrice, le finestre si aprono sulle magiche stanze, ognuna “tutta per sé”, dove tante figurine di “ragazze” sono intente a scrivere… E’ bello carpirne le intenzioni. E’ bello fare nostra la loro scrittura.
10 febbraio 2014 alle 12:28
Ancora una volta parole che risuonano… “Nessuno può darsi un’identità da solo”… e questo è il dolore più grande. Grazie anche a te, Federica.
10 febbraio 2014 alle 12:32
Per quel che ho letto di lei in questi anni, ritengo Federica Sgaggio una persona davvero ammirevole. Non che il mio giudizio conti qualcosa, tuttavia spero che il ricevere un apprezzamento sincero per il proprio lavoro e impegno possa essere, comunque, benaccetto. In bocca al lupo per tutto.
10 febbraio 2014 alle 12:50
grazie
10 febbraio 2014 alle 13:05
Altroché: l’apprezzamento per il proprio impegno è molto ben accetto. È un enorme motivo di gratitudine e di gioia.
10 febbraio 2014 alle 14:20
Bellissimo testo Federica! Grazie
10 febbraio 2014 alle 16:07
Non mi hai incontrato. Sono venuto a cercarti. Bel testo.
10 febbraio 2014 alle 18:26
Bel testo, si.
10 febbraio 2014 alle 20:12
Il tuo nonno mi ricorda il protagonista di “Big fish”. Nel finale del film, si dice: “A furia di raccontare le sue storie, un uomo diventa quelle storie. Esse continuano a vivere dopo di lui, e così quell’uomo diventa immortale.”
11 febbraio 2014 alle 00:36
È vero, Antonio: un uomo è immortale nelle sue storie. Mio nonno, nei miei ricordi, è sempre seduto su quella sedia, con quella luce di agosto, e muove i piedi sotto il tavolo strusciando un pochino le pantofole di pelle a terra; e parla, e dice, e aggiunge. E io sono lì a far finta i non ascoltare. E i miei zii e le mie zie a far finta di non ricordare. E tutti a voler sentire di più. E mia nonna a ridersela sotto i baffi.
Poi me lo ricordo quando tornava dalle passeggiate di caccia insieme ai suoi cani. Non ammazzava nessuno, ma i cani avevano bisogno di muoversi. Stivaloni ai piedi, cappello in testa, giacchino senza maniche. Lo sentivo di notte quando si preparava per andare via quando ancora c’era buio.
E me lo ricordo quando andava a comperare i canarini, quel tipo speciale che gli interessava. Era appassionato di uccelli. Ne aveva tantissimi. Mio padre lo aiutava, lo accompagnava negli allevamenti. Si volevano bene. Mio padre stava bene, là. Era sereno come non riusciva mai a essere quando eravamo dentro la nostra vita normale.
Mia madre badava a mio fratello e godeva dell’aria di casa, delle chiacchiere con la madre, le sorelle, i fratelli, le cugine.
Grazie, Carlo.
Quello che scrivi è una correzione gentile delle mie parole, e mi onora.
E grazie a Sandro e a Felice, anche.
A me questo pezzo qui non piaceva tanto; mi sembrava freddo. Mi dava fastidio l’accenno al Tyrone Guthrie Centre: a rileggerlo mi dava l’impressione di una vanteria. Però, in effetti, ha un suo senso. È troppo difficile vedersi – e resistere nella percezione di essere – in un’identità che non ti viene riconosciuta da altri che da te. E quel centro ha rafforzato un’identità che. per motivi a me noti solo in parte, fatico a riconoscere a me stessa.
Buonanotte da Castleconnell, County Limerick, Repubblica d’Irlanda.
Un silenzio incredibile.
Odore di mucche.
Lo Shannon smisurato che dalla finestra del piano di sopra vedo lucido nel sole diurno.
Vado a letto. Domani ho lezione, e fare la studentessa in un’altra lingua e in un ‘altro’ tempo è stancante, lo ammetto.