Non fate troppi pettegolezzi

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di Demetrio Paolin

[esce oggi nelle librerie un mio piccolo saggio dal titolo Non fate troppi pettegolezzi (LiberAria). Il libro è una sorta di escursione nei testi di quattro autori a me molto cari (Salgari, Pavese, Levi e Lucentini) e nella città dove loro hanno vissuto (Torino). Oggi alla Feltrinelli di Torino, piazza CLN, alle 18 lo presenterò insieme a Alessandro Perissinotto. Di seguito l’incipit del capitolo su Primo Levi. dp]

copertinaSono a Berlino. Nelle stanze del Museo Ebraico non c’è nessuno. Sono sceso nel piano interrato, tutto è nero e bianco. Cammino per un corridoio detto “dell’Olocausto”. Sono vestito leggero, una camicia e un paio di pantaloni. Arrivo alla fine di questo lungo camminamento e trovo una porta. Spingo il maniglione rosso e sono ai piedi di una torre. È buia e fredda. Il pavimento è di terra battuta. Non c’è luce se non da una fessura posta in alto: indovino il cielo grigio carico di neve. La porta dietro di me si chiude, fa un tonfo che riecheggia per l’altezza, che pare infinita, della torre. Il freddo mi assale di colpo, mi aggredisce come i cani di una muta; la paura diventa qualcosa di concreto e antico; è come se il mio corpo ricordasse. Non è una memoria recente, bensì qualcosa che è inscritto nella mia carne, nelle cellule del mio corpo, è qualcosa di primitivo. È la paura assoluta, quella che provarono i miei antenati nel buio della caverna; è quella che provò Adamo dopo che ebbe mangiato la mela. La paura viene dal freddo e il freddo viene dal male, che ci fa sentire nudi.

Così mi cingo il ventre con le braccia, a coprirmi e provare a difendere le mie viscere. Arretro, cercando di trovare un angolo riparato che mi preservi dal gelo che sta avendo la meglio sulle mie ossa e mentre cammino sento delle urla provenire dal pavimento. Ci sono piccole facce sparse per terra e quando le pesto gridano, è uno stridio fastidioso e acuto, una gazzarra di rondini. Ho gli occhi chiusi perché non voglio vedere, ma inciampo e cado e finisco con il muso per terra. Gli occhi mi si spalancano su queste facce che in realtà sono tuorli d’uovo pietrificati, che contengono già l’ombra del pulcino, una forma mostruosa che pare umana. E allora urlo, e nell’urlo il sogno svanisce.

Sono a Torino e sono sveglio. Mi alzo e mi vesto, è una mattina primaverile, fresca ma soleggiata. Prendo la bici e percorro corso Giovanni Agnelli, mi lascio alle spalle lo Stadio Olimpico e il parco di piazza d’Armi, attraverso corso Galileo e corro lungo corso Re Umberto. Passo l’ospedale Mauriziano e poco dopo arrivo alla casa di Primo Levi.

L’ippocastano è ancora lì. Tutte le volte che ci passo penso alla lirica scritta da Levi per l’albero che ogni giorno vedeva davanti al suo portone e che stava lì ad aspettarlo, quando lo scrittore usciva per andare a lavorare o quando rincasava dopo otto ore di fabbrica. Ci sono volte, quando la notte si popola di incubi o di cattivi presagi, che con la bici vengo fin qui e mi appoggio a quell’ippocastano e guardo il portone. È una cosa che non vorrei, ma infine mi trovo a pensare a Levi e alla sua morte; e mi torna alla mente un uovo.

Quando penso a Primo Levi che decide di gettarsi dalla rampa delle scale – nelle mie immaginazioni non c’è mai o non è mai chiaro il motivo del gesto – la mia fantasia visualizza un uovo che scivola dalle mani distratte di una cuoca e incoccia in terra. Se uno ci pensa è una immagine innocua, casalinga, per nulla tragica; è una immaginazione che toglie quell’aura romantica al suicidio: uccidersi è come un uovo che sguscia dalle mani e si frantuma a terra. Così doveva essere il corpo di Levi quando lo trovarono quella mattina di aprile, un uovo fracassato con l’albume e il tuorlo sparsi sul marmo.

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11 Risposte to “Non fate troppi pettegolezzi”

  1. RobySan Says:

    Il libro è una sorta di escursione nei testi di quattro autori a me molto cari (Salgari, Pavese, Levi e Lucentini) e nella città dove loro hanno vissuto (Torino)

    …e dove si son suicidati. Ora, l’invito a non fare troppi pettegolezzi (che, come si sa, si trova nel “biglietto d’addio” di Pavese) ti pone un macigno sulle spalle: è evidente che, data la scelta del titolo, il pensiero del suicidio aleggerà sul lettore (anche se non ve ne fosse menzione in tutto il libro). Ma presumo che questo stesse nelle tue intenzioni.

    Oggi alla Feltrinelli di Torino, piazza CLN, alle 18 lo presenterò

    Capperi! e non ce lo potevi dire prima? (E’ che i quattro sono cari pure a me).

  2. RobySan Says:

    P.S.: rileggo e vedo che posso aver dato adito a equivoci: con l’affermazione “il pensiero del suicidio aleggerà sul lettore”, non intendo dire che il lettore penserà al (proprio) suicidio ma che vi penserà (o potrà pensarvi) come a un denominatore comune, a una sorta di esito necessario delle vite dei quattro (e in qualche modo come segno implicito e rintracciabile nel loro scrivere).

  3. dm Says:

    Il tag di Emilio Salgari non è scritto correttamente (lo faccio notare perché potrebbe essere utile a rintracciare il post).

    RobySan, secondo me il P.S. non è così utile.

  4. demetrio Says:

    Ciao. L’idea è di provare a raccontare l’opera di questi scrittori partendo dai loro testi senza dimenticare che sono vissuti e hanno trovato la morte a Torino. A me interessava e interessa tutt’ora raccontare un percorso umano e letterario. L’invito a non fare pettegolezzi significa che la loro morte e il loro suicidio sono parte di una piu interessante esistenza e sono molto meno interessanti delle loro opere. Insomma alla fine vorrei che chiuso il libro uno non pensasse a loro come 4 grandi scrittori suicidi, ma come 4 grandi scrittori.

    d.

  5. dm Says:

    (Comunque quest’incipit è bello. Una bellezza che le viscere sanno…)

  6. RobySan Says:

    @dm: che t’aggio a di’? Fa’ come non l’avessi letto!

    @D. Paolin: un libro non è un articolo di giornale, nel quale è ordinario trovare uno scollamento – o addirittura un’antitesi, come già sostenne un piccolo ebreo tedesco del quale mi sfugge il nome – tra titolo e testo. Il titolo d’un libro o di un racconto “marca”. Ha potere connotativo. E’ lì apposta per averlo. Lo avrebbe pure se, per titolo, uno scrivesse “Senza titolo”. Farà quindi, preterinzionalmente, i suoi effetti.

  7. Giulio Mozzi Says:

    Grazie, Daniele, ho corretto il tag.

  8. demetrio Says:

    Proprio perchè il libro non è un articolo di giornale il titolo ha una sua “ragione” narrativa che credo se si avrà la pazienza di leggere fino in fondo il saggio sarà chiara.

  9. flaviovillani Says:

    L’ha ribloggato su Flavio Villani.

  10. Morena Silingardi Says:

    Seguo Demetrio Paolin perché ho apprezzato tanto la sua nota pubblicata su “Il male naturale” di Giulio Mozzi, avevo anche pensato di scrivergli per un confronto. Un’ottima occasione mi viene offerta da questa sua pubblicazione: leggere “Non fate troppi pettegolezzi” potrà farci discutere di questo e quello.

  11. demetrio Says:

    Ciao Morena grazie e grazie a tutti quelli che hanno letto questo estratto.

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