di Silvia Montemurro
[Questo è il quarto articolo di una serie che spero lunga e interessante. Per ragioni pratiche ho cominciato invitando a scrivere delle scrittrici amiche. Ringrazio Silvia per la disponibilità. Chi volesse proporsi, mi scriva mettendo nell’oggetto le parole “La formazione della scrittrice”. gm]
Se c’è una cosa che mi è stata subito chiara, fin da quando ho preso in mano una penna, è che nella vita avrei potuto fare tante cose ma nulla mi avrebbe procurato la stessa soddisfazione che mi dava scrivere una storia. Ho sempre scritto, da che mi ricordi, e ho sempre letto montagne di libri, alcuni di nascosto, quelli me li sono goduti ancora di più. Da piccola c’era questa voce, dentro la testa, che romanzava ogni singolo momento della vita, sia che fossi a scuola, sia che stessi mangiando, sia che qualcuno mi stesse parlando. “Ho un libro dentro la testa”, mi vantavo con l’amica del cuore “e qualsiasi frase tu mi dica verrà registrata lì”. Iniziai a tenere un diario alle elementari, e non smisi fino alla fine delle superiori. Li ho buttati quasi tutti, forse proprio per l’orrore di dovermi confrontare con un’esistenza “registrata”, dove gli eventi importanti venivano selezionati solo da me, e inevitabilmente storpiati, ingigantiti, modificati fino all’assurdo.
Ciò che mi capitava non era poi così interessante, e ben presto mi sono ritrovata a scrivere storie che avrei voluto mi accadessero. Il parere di parenti e amici non mi sembrava per niente affidabile, così iniziai a mandare i miei racconti ai concorsi letterari, alla ricerca di conferme che non tardarono ad arrivare. Durante gli anni delle superiori mi accontentai, se così si può dire, di quelle piccole vittorie dei premi letterari e andavo dicendo che “da grande”avrei fatto la scrittrice. Scelsi una facoltà, legge, che credevo potesse stimolarmi, terrorizzata all’idea di iscrivermi a Lettere e fare la fine della mia professoressa, che mi pareva tutt’altro che felice. Feci il mio primo grande errore, quello di valutare un percorso sulla base di un esempio sbagliato.
L’università mi annoiava terribilmente e iniziai a seguire, in parallelo, corsi di teatro, scrittura creativa, sceneggiatura. Quando venni selezionata per il corso Rai Fiction di perfezionamento per sceneggiatori, a Roma, decisi che non potevo più prendermi in giro e modificai la mia laurea da magistrale a triennale, rivalutando la possibilità che quella mia passione per la scrittura potesse diventare più di una semplice passione. Non ho mai creduto, e non riesco a crederlo tutt’ora, che si possa campare solo di scrittura. I tempi che ho passato “solo a scrivere”, sono stati i più difficili, tesa com’ero a dover giustificare agli altri: “Non è che non sto facendo niente della mia vita. Sto scrivendo”.
E di romanzi ne ho scritti tanti, nel frattempo, ritagliando il tempo libero dove potevo, senza avere la minima idea di quale fosse il panorama editoriale. Ai primi tentativi di invio del manoscritto mi sono ritrovata la classica offerta a pagamento. Errore mio, non avevo mandato alle persone giuste. A proposito di persone giuste, mi sentivo spesso sola, di quella solitudine che può provare chi scrive e non riesce a spiegare il perché di questo suo bisogno che non si spegne mai. E sì che di scrittori ce ne sono in giro tanti! Fu in quel periodo, contattando la stessa agente sbagliata, che conobbi un’altra aspirante scrittrice, Francesca Ramacciotti, che è stata, in questi anni, confidente, amica, compagna di scritture e letture. Un incontro che rivoluzionò il mio modo di approccio alla narrazione è stato quello con Giulio Mozzi. Stavo ascoltando un’intervista della scrittrice Elisabetta Bucciarelli, che lo nominava come famoso e brillante talent scout. Non avevo la minima idea di come contattare quest’uomo e allora lo aggiunsi semplicemente su Facebook. Avrei voluto scrivergli, ma mi pareva da stupidi mandargli un messaggio privato su Facebook e chiedergli se potevo inviare un mio manoscritto. Poi sulla sua bacheca è apparsa la notizia di un nuovo progetto, la Bottega di Narrazione. C’era una selezione da passare. Mi ci sono fiondata, mandandogli il progetto che in quel momento mi stava più a cuore, quello che mi ossessionava. Un riassunto e il primo capitolo. Del resto, avevo scritto solo quello. Venni selezionata e partecipai agli incontri, dove il romanzo prese vita. Grazie ai consigli degli altri Bottegai e alle domande profonde di Giulio iniziai a capire quanto contasse interrogarsi sul senso della storia che uno vuole scrivere, sul significato profondo che si porta dietro. In quei mesi ebbi anche la fortuna di partecipare a un progetto di realizzazione di un fotoromanzo d’autore, con Giulio Mozzi e il fotografo Marco Signorini. Quei giorni furono magici, per me: potevo stare al fianco di due grandi artisti, partecipare alla formazione di una storia, vederla materializzarsi davanti a noi. Guardavo il mondo attraverso gli occhi di uno scrittore e di un fotografo che sapevano da che punto osservarlo.
Intanto si avvicinava il gran giorno: insieme agli altri Bottegai, avrei finalmente avuto modo di conoscere gli editori e soprattutto presentare la mia opera, di cui avevo terminato la prima stesura. Non sono mai stata brava a parlare di quello che scrivo, così mi parve di aver solo balbettato e di aver sprecato un’occasione. Gli editori non la pensarono allo stesso modo e qualcuno mi chiese in lettura il manoscritto. Gianmichele Lisai, della Newton Compton, in particolare, fu il più veloce a leggere. Dopo la giornata d’incontro con gli editori sono stata colta dalla fretta tipica di chi non ha ancora raggiunto una certa maturità e ho preso la prima occasione che mi si presentava davanti, il primo barlume di contratto, se vogliamo essere più precisi. Ho firmato con l’ansia di chi ha paura di non essere all’altezza, senza ascoltare i consigli di chi mi diceva “Aspetta e prendi tempo, non sei sola e non hai solo quest’occasione”. Ho commesso l’errore di non credere in me stessa e in ciò che avevo scritto, e, di nuovo, ho pensato che la via più breve fosse quella giusta. Se c’è una cosa che la scrittura insegna è l’importanza dell’attesa e del modo in cui impieghi il tuo tempo mentre aspetti. Puoi attendere in maniera costruttiva, guardandoti intorno a caccia di una nuova storia, ascoltandoti dentro per captare i segnali della tua voce di autrice, oppure puoi fare come ho fatto io: logorarti aspettando che il tuo libro esca, scalpitando e immaginando cose che sono ben lontane dal significato di una pubblicazione oggi.
L’editing con Alessandra Penna è stato un lavoro intenso, fatto di continui scambi di letture e pareri. Ci sono scrittori che non sopportano chi tocca una singola virgola del loro testo. Io ero grata per tutta quell’attenzione e per l’importanza che veniva data a ogni singola parola. L’inferno avrà i tuoi occhi è uscito, per la Newton Compton, nel marzo 2013, dopo poco più di un anno dalla firma del contratto. “Sarà un sogno”, aveva promesso la mia editor. Non è andata esattamente così. Per giorni ho evitato di entrare in una qualsiasi libreria. Guardavo il libro dalle foto di Facebook che amici e sconosciuti mi postavano sulla bacheca. Non lo sentivo più mio. Non potevo essere lì, accanto a ciascun lettore, a spiegare cosa era vero e cosa invece mi ero inventata di sana pianta. Ero totalmente impreparata ad affrontare quello che successe dopo. Non mi ero resa conto, fino al momento della pubblicazione, di quanto fosse potente e pericolosa la scrittura. Fino a quel momento l’avevo vista come un’ancora di salvezza. Iniziai a scorgere dell’altro.
Quando scrivi e dai in pasto ciò che hai scritto a un editore, puoi ferire una persona. Puoi ferire anche te stesso, se il romanzo che non è un giallo esce come un giallo e se vieni lanciata come “una voce nuova e intensa”, quando tu sei ancora lì a chiederti se la possiedi davvero, una voce. Quando scrivi una storia tratta da un fatto reale, un fatto accaduto a pochi passi da casa tua, non puoi sperare di continuare a girare per strada liberamente senza essere osservata e additata, senza che ti arrivino alle orecchie insulti e frecciatine, senza che qualcuno non si identifichi in un personaggio e non si apposti dietro l’angolo per chiederti: “Perché l’hai scritto? Perché hai scritto di me?”, senza che magari tu l’abbia fatto davvero. Per la prima volta, la scrittura mi è apparsa fonte di un’enorme responsabilità. I messaggi che mi arrivavano dal resto dell’Italia erano quasi richieste di aiuto. Alla mia storia si sono accodate altre storie, una più intensa dell’altra, alla mia voce hanno fatto eco un’infinità di altre voci, che volevano semplicemente dire: Ti ho letto. Ti capisco. Sono come te. Ti sento.
Queste voci ripagano da tutta la sofferenza dell’attesa, da tutte le porte chiuse in faccia che inevitabilmente un’aspirante autrice riceve e continua a ricevere, anche dopo la pubblicazione.
Sono ancora all’inizio del mio percorso di autrice e, fortunatamente, ho ancora tanto da imparare. Ogni volta che scrivo una storia ci sono, di sottofondo, degli accordi ricorrenti: temi di cui non posso fare a meno, argomenti che inevitabilmente vengono sfiorati e che si impossessano della narrazione. Credo sia questa la strada da seguire. Al di là di quello che è il mercato editoriale oggi, credo sia importante perseguire le proprie ossessioni, o lasciarvisi trasportare, senza preoccuparsi troppo di definire un genere, un target, una collocazione. Per quello esistono gli agenti e gli editori.
Una volta, a una cena, ci si interrogava su cosa voglia dire essere uno scrittore oggi. Allora credevo semplicemente che bastasse pubblicare libri e campare di scrittura. Non la penso più così. Credo che uno scrittore sia qualcuno che riesce a renderti la sua visione di mondo, qualcuno che ti faccia scorgere l’assurdità di un gesto semplice e la stravaganza di tutto ciò che ci circonda, non perché voglia stupirti, ma perché ci è nato con quella diversità addosso e se la porta dietro dappertutto, in ogni momento della propria vita.
Se c’è una cosa che ho capito da poco è che potrò ribellarmi ogni giorno alle storie che ho in testa, a questo romanzo continuo che scrivo da dentro, per cercare di essere come gli altri, per sentirmi più normale, ma se sono davvero un’autrice, prima o poi quella voce chiederà di uscire fuori.
La fotografia è di Marco Signorini.
Tag: Francesca Ramacciotti, Gianmichele Lisai, Marco Signorini, Silvia Montemurro
3 febbraio 2014 alle 09:46
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3 febbraio 2014 alle 10:43
Tremo… Sono io… Devo conoscerla.
3 febbraio 2014 alle 11:55
Mi piace gustare l’attesa di questo appuntamento del lunedì con le scrittrici… in ognuna di loro trovo un pezzetto di me, e mi sento anch’io meno sola…
3 febbraio 2014 alle 14:13
Mi riconosco in molte delle cose che dici di te, ma soprattutto nell’insicurezza, nella mancanza di coraggio di chi sente forte l’esigenza di narrare una storia e la paura di non saperla tradurre nelle parole giuste, la paura di ferire altre persone e se stessa, la paura di non essere all’altezza, la paura che ti fa dire a te stessa, ma dai, son tutte sciocchezze, la paura del confronto, la paura…
3 febbraio 2014 alle 17:56
L’eco del testo può essere tremenda quando si vive in un piccolo paese di provincia. E qualche volta il patatrak etico non risiede nel testo ma nella forma della convivenza in determinati luoghi. Ci vuole il doppio del coraggio insomma, a scrivere fuori dall’indistinto cittadino, anzi il triplo (e, immagino, bisogna essere trini: nel testo, nel paese e nel mondo, mentre si scrive…)
C’è una cosa che torna e non mi convince in queste narrazioni della Formazione della scrittrice. In realtà, credo che sia una caratteristica della maggioranza delle narrazioni (che difficilmente si possono distinguere da delle autolegittimazioni e anche legittimamente) degli autori di prosa in quanto autori. Ed è il termine d’inizio.
Tutti o quasi gli scrittori hanno cominciato a scrivere dall’istante in cui hanno cominciato a scrivere, era insomma nel loro destino ed era impresso tatuato (o stigmatizzato) già nella loro volontà quand’erano in fasce. Lo scrittore è scrittore nato, se no che scrittore è? Questo è uno stereotipo che ricorre moltissimo e che, mi pare, trova una conferma nell’idea di “talento” che emerge dalle narrazioni varie ed eventuali attorno ai libri.
Questa necessità di apparire come biologicamente scrittori diciamo, come se la scrittura non solo fosse la cosa più importante nella vita (questo è comprensibile) ma da sempre, come se la vita fosse appunto scritta e importante in quanto tale mi sgomenta. Mi sgomenta perché esclude la bellezza del diventare, che è una forma di speranza, e che accomuna tutti, lettori autori, tutti i viventi.
In fattispecie
Evidentemente questo inizio non possiamo prenderlo alla lettera, c’è dell’esagerazione nel dire subito, fin da quando, sempre e via dicendo. Un’esagerazione letteraria e legittima (o che legittima, è quasi lo stesso). Ma forse non è necessaria. Almeno dal mio punto di vista.
3 febbraio 2014 alle 18:06
La fretta di cogliere l’attimo è accettabile se capita a chi la vita ce l’ha tutta davanti, a chi ha scoperto il piacere della scrittura abbastanza presto da poter pensare di farne una professione, ancorchè non la principale o non subito. Condivido molto del sentire di Silvia Montemurro, ma non ho la sua età. Non più almeno, e la fretta è diventata una compulsione con il passare di altro tempo, che tuttavia mi sono messa a disposizione, assolutamente contraria a pubblicare a pagamento. Non so se sia sostanziale, fondamentale per un’educazione da scrittore frequentare dei corsi. Qualche volta accade che chi non li frequenta sfondi comunque, ma è tutto così relativo e , comunque, anche questo richiede così tanto tempo!
Rifletto amaramente che chi decide se i nostri testi piaceranno, se hanno stoffia, profondità, se la ‘voce’ è chiara e sale limpida, non sempre è così obiettivo, ma deve moderare le sua ovvia preferenza, anche oggettiva, con le esigenze di mercato. Invidio, certamente, l’occasione, che da una parte ha permesso a Silvia di buttarsi nella mischia, di mettersi alla prova, e dall’altra le ha offerto una finestra sul modo editoriale. Gli strappi per le inevitabili amputazioni del romanzo originario, gli stravolgimenti, le sostituzioni sono passaggi verso la crescita, ma ciò non evita che facciano male. Non so se essere scrittori significhi veramente essere nati diversi, con una diversa sensibilità, o semplicemente trovare pace nell’espressione della propria visione di mondo, che proprio attraverso le parole scritte si chiarisce e si apre a una comprensione più profonda, facendoti pensare che, forse, uno scrittore non scrive per te, ma scrive prima di tutto per sè. Tanti auguri, Silvia, perchè per quanto importante l’avventura, è sempre il viaggio la parte più intensa.
3 febbraio 2014 alle 19:59
Perché doveva leggere i libri di nascosto?
4 febbraio 2014 alle 04:57
… grazie a voi che avete speso il vostro tempo. @gianmarco: un esempio fra tutti. Hai presente Porci con le ali? Ecco. Mia mamma non credeva che quella lettura fosse proprio da brave bambine. Più nascondeva i libri più mi divertivo a scovarli e leggerli. Per il resto… non credo che la scrittura sia per forza qualcosa di innato, ma evidentemente per me e le altre quattro autrici è stato così. Almeno in questo scritto, non c’è finzione e nessuna intenzione di legittimare qualcosa.
4 febbraio 2014 alle 12:08
l’idea di questa serie è molto interessante, ma forse sarebbe più opportuno che il padrone di casa non ospitasse testimonianze di sue scoperte (tipo questa e quella della tomassini), oppure che censuri i brani elogiativi che lo riguardano (“famoso e brillante talent scout”).
4 febbraio 2014 alle 12:09
censurasse
4 febbraio 2014 alle 12:47
Silvia, si prende in mano la penna la prima volta, mediamente, intorno ai cinque, sei anni. S’incomincia a leggere più o meno alla stessa età. Ho seri dubbi che qualcuno, a quell’età, possa aver chiaro che nella vita potrà fare tante cose ma nulla gli procurerà la stessa soddisfazione che dà scrivere una storia. E ho seri dubbi che, in età prescolare, si possano leggere montagne di libri (anche se, quanto al leggere, c’è un “da che mi ricordi”; il problema può essere il ricordo).
A me pare che ci sia lo zampino dell’iperbole.
Non credo che sia male raccontarsi in questo modo. Ho posto la questione dell’utilità, o della necessità.
Del resto, ad esempio Wikipedia:
Ecco, credo che, qui come altrove, ci sia da parte degli scrittori una forte esigenza di “dare credibilità al messaggio”.
Vorrei avere più chiaro il “concetto che si vuole esprimere”
C’entra questo con il ruolo dello scrittore, della scrittura ai giorni nostri? C’entra, lateralmente, con l’idea corrente di marketing in campo editoriale e culturale in genere? C’entra con la nozione condivisa di creatività…? C’entra con il luogo comune sulla vita d’artista…?
Non sono domande insinuanti. Sono solo domande sul mondo.
(di L’inferno avrà i tuoi occhi ho potuto leggere solo l’incipit, e mi è parso bello, tanta fortuna…)
4 febbraio 2014 alle 15:24
Sergio, nel testo in piccolo, in capo all’articolo, è scritto: “Per ragioni pratiche ho cominciato invitando a scrivere delle scrittrici amiche”. Con queste persone l’amicizia è cominciata sempre nel lavoro comune su un testo, ed è fondata sulla stima.
Negli articoli le persone scrivono quello che gli pare.
La serie sarà comunque (spero) lunga, e alla lunga la cosa non si noterà più (spero).
Certo, sarei felice se alcune scrittrici che non sono “amiche” si degnassero di rispondere (almeno che mi dicessero di no, ecco).
4 febbraio 2014 alle 17:32
contento tu…
5 febbraio 2014 alle 09:25
Anch’io avevo inviato il mio romanzo a Giulio Mozzi, ma lui lo ha ritenuto, forse a ragione, ingenuo. Fine della storia. Che delusione! Ora continuo a scrivere ma con poca convinzione, e questo non va affatto bene. Inoltre ritengo che mi manca la cultura, la conoscenza per produrre qualcosa di valido e mi aggiro sempre sui soliti temi che poi riguardano la mia vita molto…”normale”! Che fare? Lasciare perdere???
5 febbraio 2014 alle 12:33
@paolamuzzolini. Almeno il tuo ha ricevuto un giudizio!
5 febbraio 2014 alle 13:42
Ma che bella storia, brava!
10 febbraio 2014 alle 14:18
Ciao, non so se azzardo a considerarmi una scrittrice. Di fatto scrivo da che ero piccina, sono giornalista e redattrice on line e ho pubblicato racconti sul blog di Nottetempo e su Unoove.
Il fatto è che in questa storia ci ho trovato molte affinità con la mia: i diari compilati e poi bruciati, la scelta di una facoltà (legge) per scappare da esempi sbagliati, la paura di ammettere che solo leggendo e scrivendo mi sento viva.
23 luglio 2015 alle 16:06
Molto simpatica e alla fine delicata. Complimenti.
30 luglio 2015 alle 06:23
[…] Silvia Montemurro ha pubblicato L’inferno avrà i tuoi occhi, Newton Compton 2013; il suo secondo romanzo uscirà presso Sperling & Kupfer nel gennaio 2016 […]