di Manuela Merli
[Manuela Merli ha scritto La stanza in più nel corso (e un po’ dopo) la prima Bottega di narrazione (2011). Non ha (ancora) trovato un editore, ma nel frattempo si è autopubblicata. Invito i passanti a leggere questo estratto ed eventualmente a procurarsi il romanzo: che secondo me è imperfetto ma bello e interessante. gm]
«Dovrei assentarmi per un'oretta o poco più… devo fare un colloquio…» dissi a Morandotti quel lunedì mattina. Stavolta sarei comunque rientrata prima della fine della giornata lavorativa. Una sorta di break fuori orario.
Sguardo fisso al centro dell'attaccatura delle mie sopracciglia: doveva averlo imparato a qualche corso di aggiornamento sulla gestione dei rapporti interpersonali con i clienti, o di quelle giornate sul marketing di cui non ho mai capito granché.
«Un colloquio?» mi chiese lui. Dallo stupore che leggevo sul suo volto colsi il possibile fraintendimento.
«No no no» mi affrettai a precisare, rafforzando il concetto negando con gli indici di entrambe le mani. «Il colloquio lo tengo io, sono io il datore di lavoro».
16 gennaio 2014 alle 08:16
Se il romanzo è “imperfetto ma bello e interessante” e “non ha (ancora) trovato un editore”, perchè non lo si lavora ulteriormente per poi riproporlo?
16 gennaio 2014 alle 09:30
E proprio in queste ore Manuela ha messo al mondo la piccola Francesca. Benvenuta! Auguri!
16 gennaio 2014 alle 16:01
Io sono incapace di scrivere i dialoghi…
16 gennaio 2014 alle 16:03
Complimenti a Manuela e auguri di cuore alla piccola Francesca!
Riguardo al testo pubblicato qui, devo dire che condivido l’opinione di Cristina: perché aver fretta di pubblicare (anche se in autopubblicazione) un’opera imperfetta? Sulla storia che narra, non posso dir nulla, avendone letto solo poche pagine; noto di sfuggita che la narratrice sembra avere una certa spocchia nei confronti delle badanti e manifesta un’adesione supina a molti stereotipi riguardo a queste persone delle quali comunque abbiamo un gran bisogno: non sanno parlare l’italiano, portano inadeguate (“improbabili”) scarpe coi tacchi alti, alcune sono buone ma inette, altre rubano… non che non possa esser vero, tutto ciò, ma esistono anche badanti capaci, penso. Però non mi pronuncio su questo, perché potrebbe esserci un’evoluzione nell’io narrante, nel corso del romanzo, o magari perché l’autrice ci ha proprio voluto proporre una protagonista antipatica e un po’ xenofoba.
Faccio qualche osservazione sulla lingua, invece.
“doveva averlo imparato a qualche corso di aggiornamento sulla gestione dei rapporti interpersonali con i clienti, o di quelle giornate sul marketing di cui non ho mai capito granché.”
Che cosa regge “di quelle giornate sul marketing”? “doveva averlo imparato”, no. “corso di aggiornamento”, non credo. “gestione”, mi pare improbabile.
“«Bella questa» disse il capo distendendosi all’indietro sulla sedia di ecopelle a braccia incrociate sul maglione verde pisello.”
Chi è “a braccia incrociate”? la sedia di ecopelle? Il capo? Probabilmente lui, ma l’espressione è faticosa, non immediatamente decifrabile, specialmente se poi si aggiunge “sul maglione verde pisello”: “sulla sedia”, “sul maglione”… hmm…
“Quella donna le piaceva e non le importava se per tenersela io avrei dovuto sacrificare tutto il mio weekend.”
Questo è proprio sbagliato, no? “per tenersela”, “lei” avrebbe dovuto fare dei sacrifici, non “io”.
Ecco, mi fermo qui, ho notato altre cose analoghe, mi domando: perché non rivedere il testo? Perché non snellire certe frasi, correggere certi errori? Un romanzo è storia ma è soprattutto lingua, e a me pare che qui la lingua sia carente.
16 gennaio 2014 alle 23:16
“Quella donna le piaceva e non le importava se per tenersela io avrei dovuto sacrificare tutto il mio weekend.”
A me, la frase sembra corretta: la protagonista si sta riferendo a sua madre che, pur di tenersi la donna che le piace, è disposta a sacrificare i weekend “della figlia”.
17 gennaio 2014 alle 08:57
Il significato della frase si capisce, è chiaro, ma la formulazione è scorretta: se la grammatica italiana è ancora in vigore, il verbo all’infinito deve avere lo stesso soggetto del verbo reggente, e di conseguenza la particella pronominale “se” deve riferirsi a quel soggetto. Insomma, è corretto dire “non le importava se per tenersela avrebbe dovuto sacrificare il mio week end”, oppure “non le importava se per tenersela avrebbe dovuto costringermi a sacrificare il mio week end”. O ancora: non le importava che io sacrificassi il mio week end, pur di tenersela”. Una cosa è la libertà della scrittura, una cosa sono le regole grammaticali, almeno credo.