di giuliomozzi
Il 21 settembre del 2010 buttai giù questo inizio di autointervista (rimasto incompleto) sul tema, più o meno, della “formazione dello scrittore”. Su questo tema, nell’anno nuovo, spero che potrò proporre letture interessanti. Intanto vedrò di continuare, a puntate, questa autointervista. La fotografia qui sopra viene da qui. gm
[Aggiunta del 2014: ecco il testo completo dell’autointervista. Le promesse “letture interessanti” si sono concretizzate nelle due rubriche La formazione della scrittrice e La formazione dello scrittore. gm]
D. Allora, Mozzi, è pronto.
R. Sì, sono pronto.
D. Cominciamo?
R. Sì, cominciamo.
D. Lei, Mozzi, in che modo è entrato nel campo letterario?
R. Be’, sostanzialmente per caso.
D. Guardi, non ci credo nemmeno se mi paga.
R. Eppure è così.
D. Può essere più preciso? Mi può raccontare?
R. Certo. Si può cominciare dall’oratorio. Da ragazzo, diciamo tra i dieci e i diciotto anni, ho molto frequentato l’oratorio. Naturalmente si era formato tutto un giro di amicizie. Tra gli altri, questo oratorio era frequentato da Stefano Dal Bianco.
D. Il poeta?
R. Sì, quello che oggi è pubblicato nello Specchio di Mondadori, ossia la collana di poesia più ufficiale che ci sia in Italia.
D. E lei divenne amico di Dal Bianco?
R. Sì. Ma non, sia chiaro, per ragioni letterarie. Semplicemente con Stefano e con un paio di altri miei coetanei mi trovavo meglio. Si può dire, probabilmente, che avevamo in comune una serie di tratti socioculturali: buone famiglie, disponibilità delle famiglie a investire nello studio, livello culturale di partenza abbastanza alto, eccetera. Eravamo dei perfetti bravi ragazzi borghesi, credo. Forse la famiglia di uno era più ricca, quella dell’altro più colta, ma tutto sommato stavamo nella stessa fascia sociale.
D. La sua famiglia è ricca o colta?
R. Benestante, e molto colta. I miei genitori sono biologi. Ho zii e nonni medici, ingegneri, chimici, insegnanti, dirigenti di banca o d’azienda. Da parte di madre, credo che ci siano almeno quattro generazioni di laureati e – sottolineo – di laureate. Da parte di mio padre forse le generazioni sono solo un paio. Non credo che fossero molti, all’epoca, i miei coetanei con un retroterra simile.
D. Cosa intende per «benestante»?
R. Mio padre, dopo diversi anni di precariato universitario, diventò professore associato. Mia madre insegnò per tutta la vita alle scuole medie. Un paio di appartamenti di proprietà.
D. Lei però non si è laureato.
R. No.
D. Perché?
R. Per vanità. E proprio a causa di tanta ricchezza. Che cosa me ne viene a frequentare l’università, mi dicevo, se già sono capace di studiare da solo? Frequentai per qualche mese – in attesa della chiamata per la leva – e decisi che l’università non faceva per me. Decisione presuntuosa, anche perché quei pochi mesi di lezioni mi diedero indicazioni importanti. Cominciai a leggere Alberto Savinio e Francis Ponge, ad esempio, solo perché me ne parlarono a lezione: e sono autori rimasti importanti per me.
D. I suoi genitori approvarono la sua scelta?
R. No; e non avevano torto. La conseguenza più positiva di quella scelta è che oggi, a quarantasette anni, ho ventisette anni di contributi: perché, ovviamente, cominciai a lavorare subito dopo la maturità e il servizio civile.
D. Perché non avevano torto?
R. Perché oggi sarei meno ignorante. E forse avrei qualche relazione accademica.
D. Lei non ha relazioni accademiche?
R. Pochissime. Confesso che il mondo degli accademici rimane, per me, assai misterioso.
D. Torniamo a Stefano Dal Bianco.
R. Sì. Ci frequentammo per un po’. Poi, come succede, ci perdemmo di vista: pur abitando a pochi passi l’uno dall’altro. Successero delle cose nella vita di ciascuno di noi – non mi domandi cosa successe nella vita di Stefano, tanto intervisterà anche lui, no?
D. (ride) Penso di sì.
R. Appunto. Ci ritrovammo parecchi anni più tardi, se non sbaglio nel 1986. Stefano era tra gli organizzatori di una manifestazione che si chiamava, mi pare, Poetronike. Una cosa su poesia ed elettronica. Io andai a vedere alcune conferenze, alcune esibizioni: un po’ per curiosità autonoma, un po’ perché c’era di mezzo Stefano.
D. Come mai le interessava una simile manifestazione?
R. Ma, sa, come tutti, io leggevo, scrivevo delle poesie, pensavo che la poesia fosse importante…
D. Mi può raccontare come accadde che cominciò a pensare che la poesia sia importante?
R. Guardi, non saprei. I genitori mi hanno addestrato come lettore. A scuola ho incontrato buoni insegnanti.
D. Mi saprebbe raccontare un fatto specifico, un evento che si possa considerare iniziale di questo suo atteggiamento?
R. Sì. Non so se si tratta di un “primo evento”, ma forse lo è. Una sera, credo d’estate, eravamo a casa, dovevano esserci anche dei parenti ospiti. I grandi stavano a chiacchierare in salotto. Io avevo quattordici anni. Mi misi alla finestra. Guardai il prato alberato – pini marittimi, un paio di abeti – che c’è dietro la nostra casa di allora. A un certo punto presi carta e penna e mi misi a scrivere. Scrissi una specie di poemetto in versi liberi. Non ricordo che cosa ci fosse scritto dentro: sicuramente c’era un ragazzo, si parlava dei pinoli…
D. Fece leggere questo suo testo a qualcuno?
R. Ai genitori, appunto. Che ne furono molto colpiti, soprattutto perché doveva essere un pezzo molto malinconico. D’altra parte, a quattordici anni, che cosa può fare un ragazzino borghese se non esercitarsi nella malinconia?
D. A questo testo ne seguirono altri?
R. Presi l’abitudine di scrivere dei quaderni.
D. Li ha conservati?
R. No.
D. E cosa scrivera?
R. Di tutto. Non racconti. Pensieri, credo. Ma non so più che pensieri. Spesso cercavo di imitare lo stile dei libri che leggevo. Quando lessi Du côté de chez Swann, cominciai a fare delle frasi lunghissime…
D. A che età lo lesse?
R. A diciassette anni. In francese. Ma mi fermai lì. Non andai oltre nella Recherche.
D. Quindi non l’ha mai letta tutta?
R. L’ho letta al principio del 2006, tutta di fila, nella traduzione di Giovanni Raboni.
D. Quindi questi quaderni le servivano, diciamo così, per esercizio?
R. Guardi: io non saprei dire a che cosa mi servivano questi quaderni. So che ci scrivevo tanto. Non saprei dirle che cosa c’era dentro. Poi a diciotto anni mi misi a scrivere un saggio storico sulla disfatta di Caporetto.
D. Eh?
R. Giuro. A casa di mia nonna materna c’erano molti libri sulla Grande Guerra. Io, un po’ alla volta, li lessi tutti. E mi venne una curiosità ossessiva per questo evento: la disfatta di Caporetto. Un evento per molti versi inspiegabile, e comunque mitico. Tant’è che «una Caporetto» si dice per dire una disfatta, per antonomasia. Nel frattempo avevo preso un diploma di dattilografia.
D. Come mai?
R. Ma, ci era capitata in casa una venditrice di corsi porta a porta, e i genitori considerarono che non era una cattiva cosa. Così io e mio fratello maggiore lo frequentammo. Facevamo una lezione ogni quindici giorni e un’oretta di esercizio al giorno, a casa. Era un buon metodo. Così, avendo la macchina da scrivere, non mi restava che scrivere. Scrissi un saggio di un centinaio di pagine o poco più.
D. L’ha conservato?
R. No. Vede, io non conservo niente. A un certo punto, diedi via tutti i libri sulla Grande Guerra che avevo accumulato comperandoli nelle librerie dell’usato, o facendomeli regalare. Di colpo, via tutto. Un tot ne buttai via.
D. Ma non scriveva, all’epoca, anche dei racconti o delle poesie?
R. Credo di aver scritto un racconto, uno, e per gioco. Era una scemenza. A scrivere delle poesie cominciai, credo attorno al 1982. E, tanto per prevenire la sua domanda, quasi tutte le ho buttate via.
D. Quasi tutte.
R. Sì. Ecco, si può dire che dal 1984 circa ho cominciato a conservare qualcosa.
D. Chi leggeva queste sue poesie?
R. Nessuno. Con una sola eccezione. Scrissi un poemetto terribile, in qualche modo ispirato alle Pasque di Apollinaire, Cendrars e Zanzotto – un poemetto che doveva essere davvero orribile, credo – e lo feci leggere alla mia insegnante d’italiano delle superiori. Questo forse, appunto, nel 1984. Lei non sapeva che dirmi. Io mi vantai di averlo spedito a Calvino e di avere ricevuto un biglietto di apprezzamento.
D. Davvero?
R. No, non era vero.
D. E allora, perché lo disse?
R. Non ne ho idea. Per pura vanità. Non mi faccia dire che lo dissi perché già mi sentivo dentro un destino da scrittore. Non esiste. Mi fossi sentito dentro un destino da scrittore, quel poemetto ce l’avrei ancora da qualche parte. E invece no.
D. C’è stato un momento nel quale lei si è reso conto di avere dentro un destino da scrittore?
R. No. Mai.
D. Quindi tornò a incontrare Stefano Dal Bianco.
R. Sì. E Stefano mi raccontò che con alcuni amici suoi – Mario Benedetti, Fernando Marchiori – stavano per avviare una rivista di poesia, che doveva chiamarsi Scarto minimo. Quello che gli mancava, era un giornalista che ne assumesse la direzione responsabile. Sa, ogni cosa che si pubblica periodicamente su carta, in Italia, deve avere un giornalista che la firma. Io dissi: «Be’, se vuoi, io la tessera dell’ordine ce l’ho». E così finii col fare il direttore responsabile, ovviamente di paglia, di questa rivista. Quando Stefano Mario e Fernando si incontravano, discutevano, preparavano la rivista, eccetera, cercavo di esserci anch’io. Ma non mettevo bocca. Ascoltavo.
D. Ma questi suoi amici avevano già delle entrature nel campo letterario?
R. Eh sì. E non mi chieda come se le erano procurate. Credo che sia stata importante, per tutti, l’università. Ma credo che sia stata ancora più importante la determinazione. Loro – così mi sembrava – un destino dentro se lo sentivano. Quindi agivano di conseguenza.
D. Torniamo indietro. Com’è che lei nel frattempo era diventato giornalista?
R. Pubblicista, per la precisione. Tutto merito del corso di dattilografia. Terminato il servizio civile – in un collegio-orfanatrofio – mi misi in cerca di un lavoro. Guardavo gli annunci nel giornale. Facevo colloqui. Avendo un diploma di maturità classica, e non avendo la patente (ancora oggi non ce l’ho), non è che ci fossero tutte queste opportunità. Finché non mi telefonò mio zio Domenico. Domenico lavorava allora alla Federazione regionale dell’artigianato veneto. Mi disse che cercavano una persona per lavoro di segreteria. Si trattava di lavorare a Venezia. A me andava benissimo. Feci un colloquio. Un mese dopo mi chiamarono. Per mia fortuna, si trattava di fare la segreteria dell’ufficio stampa. All’inizio era gestito da una cooperativa di giornalisti. Io dovevo rispondere al telefono, mettere in bella copia i comunicati stampa (loro scrivevano a macchina e correggevano a mano, o addirittura scrivevano a mano), imbustarli, leccare i francobolli, spedire eccetera. Dopo qualche mese chiamai il capo della Frav e gli dissi: «Senta, qui ci sarebbero delle cose da fare, c’è la Fiera tale e l’iniziativa talaltra, ma i giornalisti qui non li vedo da due settimane». Ci fu un po’ di maretta. Il capo della Frav mi disse: «Be’, vedi un po’ cosa riesci a fare tu nel frattempo». Io provai a scrivere dei comunicati, imitando quello che avevo visto fare ai giornalisti. Gli indirizzi li avevo. Per pura fortuna, andò tutto molto bene. Poi il capo della Frav trovò un responsabile dell’ufficio stampa molto, molto bravo: Guido Lorenzon. Guido mi insegnò molte cose, mi fece scrivere molto (producevamo anche delle riviste, facevamo un’agenzia stampa quotidiana ecc.). Dopo qualche anno se ne andò. Per un anno l’ufficio fu retto da Germana Parolini, poi arrivò Maurizio Pescarolo: anche lui molto bravo, anche lui molto disponibile a insegnare. Durante questi anni divenni una specie di tecnico della scrittura, e imparai un po’ di comunicazione. Presi anche la tessera di pubblicista, appunto.
D. C’era una relazione, secondo lei, tra la sua scrittura di lavoro e la scrittura di questi quaderni, racconti, poesie?
R. Un solo racconto, le ricordo. E smisi di scrivere quaderni ai tempi di Caporetto. No, non c’erano relazioni. Se non il fatto che, da un certo momento in poi, per me scrivere non è stato un problema. Anche questa autointervista, la sto scrivendo tutta di fila: in quaranta minuti ho fatto sette pagine.
D. Attraverso la redazione di Scarto minimo lei cominciò a metter piede nel campo letterario?
R. Direi di no. Io stavo a guardare. In Scarto minimo non furono mai pubblicati miei testi: non era proprio il caso, erano proprio brutti. Furono pubblicati, invece, alcuni testi di Laura Pugno, che è una persona importantissima.
D. Mi dica di Laura Pugno.
R. È una specie di romanzo. Nel 1988, il 30 aprile, ero a Roma per un convegno della Confartigianato, alla quale la Frav aderiva. […]
21 dicembre 2013 alle 18:00
Refusi:
“E cosa scrivera?”
“comincia a fare delle frasi lunghissime…”
21 dicembre 2013 alle 19:00
E:
“Così, avendo la macchina da scrivere, non mi restava per scrivere”
“A scrivere delle poesie comincia, credo attorno al 1982”
21 dicembre 2013 alle 20:19
Il Re e’ fuso.
Molto interessante. Soprattutto la questione dell’apprendistato nella scrittura ‘tecnica’ (ufficio di segreteria).
21 dicembre 2013 alle 20:42
(GattoMur: confessione. Quattro, o cinque anni fa registrai in splinder un avatar dal nome Re Fuso – banalmente e quindi con un’immagine di re, – per poi andare in giro in rete a lasciar commenti, avvisando dei refusi nel modo più perentorio possibile. Forse ci avevo qualche problema. : – )
21 dicembre 2013 alle 20:56
Dai, dm, c’e’ chi fa di peggio. Il tuo, in fondo, era anche un servizio utile. D’altronde sono anch’io un appassionato di refusi, ti capisco. Comunque mi sembra che tu sia uscito da quel periodo che ora, retrospettivamente, dici essere stato problematico; ora vai alla grande coi commenti e scrivi cose molto intetessanti, mi sembra.
L’autointervista di Giulio: l’ho riletta, e’ davvero una lettura deliziosa. Mi ha ricordato qualcosa di simile di Glenn Gould.
21 dicembre 2013 alle 21:19
GattoMur: mi fa piacere l’interesse. Se reperisci quel “qualcosa di simile di Glenn Gould” forse è utile.
Quanto al dialogo di Giulio. Una cosa: se didattica ed estetica vanno di pari passo, c’è un doppio vantaggio e l’apprendimento risulta più facile.
(Il riferimento è alla lezione di cui non ho detto qui.)
21 dicembre 2013 alle 21:56
Un po’ fuori fuoco:
Giulio, dici, a proposito dell’opinione dei tuoi sul non frequentare l’università:
No; e non avevano torto.
Benedetto punto e virgola, perchè mi ossessioni? In tutta l’intervista, proprio lì dovevi stare? E perchè mai?
No e non avevano torto.
No, e non avevano torto.
No: e non avevano torto (come l’avrei fatta io).
No! E non avevano torto.
No… E non avevano torto.
No. E non avevano torto.
21 dicembre 2013 alle 22:37
Errori corretti. Grazie.
Andy: è questione di sentimenti…
22 dicembre 2013 alle 15:25
Anch’io in gioventù ho lavorato in un ufficio stampa. E pure di una Confartigianato. Comunicati stampa, un settimanale radiofonico e pure un telegiornale, trasmesso su Telenova. Mi licenziarono dopo tre mesi perché facevo l’antipatico con i capi. Il malmostoso. (questa mettetela pure nel capitolo “E chi se ne frega”).
22 dicembre 2013 alle 22:44
A proposito di scrittura tecnica e formazione dello scrittore: per i medici scrivere anamnesi per anni.
22 dicembre 2013 alle 22:45
Reblogged this on Flavio Villani and commented:
…propongo questo post di Giulio Mozzi perché inizio a sospettare che la scrittura tecnica abbia avuto un ruolo anche per me. C’è chi ha fatto delle anamnesi mediche un genere letterario vero e proprio.
22 dicembre 2013 alle 23:28
Ma, Giulio, ti ci vedresti in veste di accademico, tu?
23 dicembre 2013 alle 00:13
No, Cristina. Se ho un talento, non è quello.
10 luglio 2014 alle 18:22
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