Primo appunto provvisorio e notturno su Didattica e pedagogia della scrittura e della narrazione

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Modelli pedagogici a confronto

Modelli pedagogici a confronto

di giuliomozzi

Le tecniche si possono insegnare. Ma le tecniche, evidentemente, non sono tutto. Si potrebbe dire che le tecniche non sono niente.
La letteratura è ciò che è fatto dalla comunità letteraria. La letteratura è una produzione – e questo, al momento, non ci interessa – ed è un sistema di convenzioni. La comunità letteraria, che gode di un certo riconoscimento sociale, tiene in vita il sistema di convenzioni; e continuamente lo modifica.
La persona che si accosta alla letteratura deve addestrarsi al sistema di convenzioni. A questo serve, ad esempio, leggere. La lettura dei contemporanei addestra allo stato attuale del sistema di convenzioni; la lettura degli scrittori del passato – e già qui usciamo dall’addestramento puro e semplice – abitua a considerare il sistema di convenzioni come storico: condizione necessaria per concepire il pensiero e l’intenzione di modificarlo.

In una delle Operette morali Leopardi mette in scena un dialogo tra l’anziano poeta Parini e un giovinetto. Dice Parini: “Ma io voglio che tu abbi per indubitato che a conoscere perfettamente i pregi di un’opera perfetta o vicina alla perfezione, e capace veramente dell’immortalità, non basta essere assuefatto a scrivere, ma bisogna saperlo fare quasi così perfettamente come lo scrittore medesimo che hassi a giudicare”.

Abbiamo un bel circolo vizioso: chi voglia comporre opere letterarie deve investire nella lettura di altre opere letterarie, specie quelle “perfette o vicine alla perfezione”; ma alla lettura in profondità delle opere letterarie può arrivare solo chi già ne sappia comporre di “perfette o vicine alla perfezione”.
In realtà solo un eccesso di astrazione fa apparire questo come un circolo vizioso. Diremmo piuttosto che la formazione dello scrittore ha necessariamente carattere ricorsivo: dalla lettura alla composizione, dalla composizione alla lettura; senza perder tempo a investigare se sia nato prima l’uovo o la gallina.

L’addestramento alle tecniche, dunque, vale come procedura d’ingresso. Potremmo descrivere le tecniche come uso delle convenzioni: per imparare a scrivere un dialogo, ad esempio, bisogna comprendere che cosa è quella convenzione che viene chiamata, nelle opere letterarie, “dialogo”; e imparare a usarla correttamente (cioè secondo l’uso contemporaneo, o uno degli usi contemporanei più accreditati).

Il perfetto dominio delle tecniche è un traguardo non irrilevante. Si può immaginare, peraltro, che l’apprendimento e l’esercizio delle tecniche (nella lettura, nella scrittura), conduca – non secondo una regolare progressione, per salti intuitivi – la persona a comprendere ciò che, nelle opere letterarie, non è mera tecnica.
La spiegazione in classe di una bella pagina di Manzoni porta gli allievi, se tutto va bene, a un senso di meraviglia. Qualcosa del tipo: “Anvedi quanta roba che cià messo dentro! E come l’è combinata tutta per benino!”. Questo risultato non è poco; ma è un primo passo. Si tratta infatti, poi, di sospingere la classe dal senso di meraviglia – suscitato dal marchingegno tecnico perfettamente funzionante – alla percezione della profondità.
È così che ci si sposta, a volte insensibilmente, dalla didattica alla pedagogia.

Non esiste pedagogia senza una comunità. Per carità, ciascuno troverà il suo maestro. Ma la pedagogia ha lo scopo di condurre la persona all’interno della comunità letteraria. Non si tratta solo di imparare come si fa, ma anche di acquisire un habitus.
Per “comunità letteraria” non intendo, per dire, i salotti nei quali i giallisti milanesi tramano contro i giallisti bolognesi, o gli scantinati nei quali gli scrittori sotto i quaranta tramano contro i venerabili maestri più o meno decrepiti, eccetera. Sì, c’è anche questo; è talvolta squallido; è umano; volendo, è perfino divertente.
Una persona è dentro la comunità letteraria quando prende in mano i Promessi sposi o le Operette morali (o un qualunque romanzo di recente pubblicazione) con il preciso desiderio di incontrare qualcuno. Di vivere un’esperienza di umanità. E gli succede davvero.

L’insegnante di tecniche è un professionista. Sa che cosa insegna, non fatica a spiegare che cosa insegna (magari ha anche compilato dei manuali), e si fa pagare per ciò che insegna.
L’eventuale maestro – colui che guida la persona verso la comunità letteraria – non è un professionista. Non è necessariamente (spesso non è) un insegnante o uno che abbia fatto dell’insegnamento una parte rilevante della propria vita.
Mentre un buon insegnante di tecniche deve essere per forza un buon insegnante di tecniche, ovvero deve padroneggiare delle tecniche di insegnamento descrivibili, il maestro deve solo, per essere maestro della persona che lo ha scelto, essere sé stesso. Essere quindi anche, magari, se càpita, stronzo. O addirittura: inconsapevole di essere un maestro.

È piuttosto semplice distinguere tra gli insegnanti di tecniche e i maestri (oso dire: maestri di vita). Il guaio è che ci sono degli insegnanti di tecniche che, più o meno occasionalmente, diventano per qualcuno maestri di vita. E qui si fa un po’ di confusione: ma poca.

È evidente che il maestro di vita non va pagato. Solo con un certo sforzo riesco a concepire il pensiero (ma non certo l’intenzione) di pagare i miei maestri di vita: Stefano Dal Bianco, Laura Pugno, Guido Lorenzon, per citare i più antichi (e quindi, inevitabilmente, più importanti: mi hanno dato lo stampo). Certo: ci scambiamo delle cortesie, come avviene tra amici. Ma è tutt’altra cosa.

Per approfondire.

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36 Risposte to “Primo appunto provvisorio e notturno su Didattica e pedagogia della scrittura e della narrazione”

  1. Maria Luisa Mozzi Says:

    Non sempre le letture dei ragazzi a scuola suscitano meraviglia a causa della “percezione della profondità” e del “marchingegno tecnico perfettamente funzionante”.
    Quello che mi piacerebbe intuire più chiaramente è proprio che cosa abbiano di speciale certe pagine che innamorano (oltre a quello che hai detto tu, che però riguarda l’intelletto, non le emozioni) e che diventano esperienze di vita.

  2. Giulio Mozzi Says:

    In realtà (ho generato io l’equivoco) pensavo a una classe di adulti. Dove – secondo la mia esperienza – lo scoprire il perfetto funzionamento del marchingegno tecnico produce, appunto, la meraviglia. La percezion della profondità viene, e non sempre, dopo.
    Poi: per me, per me come lettore, si tratta di emozioni dell’intelletto, se è lecita una simile espressione. Vedi le bellezze del Paradiso di Dante.

  3. stefano brugnolo Says:

    Provo a dire qualcosa su quanto ha scritto Giulio, ma in forma sparsa e come per associazioni. Non certo per approvare o disapprovare quel che lui scrive, ma per reagire alla bravaccia a degli stimoli…
    Allora, voglio dire una prima cosa che ha carattere teorico ma che credo c’entra con quanto Giulio scrive. E’ la seguente (e mi scuserete il tono pomposo, e mi scuserà Giulio perché per lui è roba vecchia): sono convinto, razionalmente e profondamente convinto, starei per dire scientificamente convinto che la letteratura, la cosa che con qualche approssimazione chiamiamo letteratura non sia in primis una tecnica o un insieme di tecniche, ma sia un gioco linguistico a cui da sempre e per sempre giocano e giocheranno tutti gli uomini. E’ una dotazione della specie, insomma. Non si può non usare ‘letterariamente’ la lingua. E’ un po’ come quel personaggio di Molière che all’improvviso scopre che lui parla e scrive in prosa! E se ne meraviglia come di una dote che non sapeva di possedere. Questo vale anche per quel che riguarda le metafore e tutte quelle altre figure retoriche che caratterizzano il linguaggio letterario. Le usiamo tutti. Siamo tutti come Monsieur Jourdain: letterati senza saperlo. Scriveva Montaigne: «sento dire metonimia, metafora, allegoria, non pare forse che si allude a qualche parlata rara e peregrina? Sono formule che si adattano alle chiacchiere della vostra cameriera». Ecco sì, la letteratura è a disposizione di tutti; poi ce n’è di buona e di cattiva, ma è di tutti e per tutti. E’ letteralmente come l’aria, se non potessimo giocare con la lingua, se dovessimo adoperarla soltanto appropriatamente, funzionalmente, oggettivamente, letteralmente soffocheremmo, imploderemmo. La metafora è prima di tutto un modo di funzionare della mente, se non ce l’avessimo la specie perirebbe. Ma anche l’ossimoro lo è, ecc. Ma prendiamo per esempio, che ne so, l’analessi e la prolessi? Sono parolone inventate da quella macchina da etichette che è il grande Genette. Ma sono forse tecniche narrative? No, sono come le metafore di Montaigne, appartengono alla nostra dotazione ‘genetica’. Quando raccontiamo a volte saltiamo all’indietro e alle volte in avanti. Il vostro amico che ieri vi ha raccontato di una sua peripezia lo ha fatto, involontariamente ma lo ha fatto. Perché l’uomo è prima di tutto un animale narrante, deve narrare, non può non narrare. Perché insisto su questo punto? Perché questa idea mi ha sempre aiutato sia nel mio lavoro di professore universitario sia in quello di docente di scrittura. Ho sempre pensato che non insegnavo qualcosa di peregrino, di specialistico, ma insegnavo una materia ‘naturale’, insegnavo e insegno qualcosa che già tutti fanno. Questo intanto è riposante, mi fa sentire a posto con la coscienza. Dopo di che, lo so bene, esistono scrittori professionisti, che cioè si sono specializzati nell’uso di questo linguaggio naturale. Essi si distinguono dagli altri produttori e consumatori naturali di letteratura perché scrivono, pubblicano, leggono ecc. libri, saggi, pièces teatrali. Su questo sociologi come Bourdieu e altri hanno scritto perfino troppo. Verissimo. Però ecco, anche loro, anche quelli che hanno l’habitus di scrittore, fanno meglio, anche molto meglio, quello che fanno tutti gli altri. E finalmente dopo questo mio pippone, vengo al punto. La mia modesta filosofia di docente di scrittura è la seguente: dico subito alla classe che non so e non posso insegnare come si scrive. Non solo, aggiungo che non credo che si possa insegnare. Credo per esempio che si possa insegnare come si suona il pianoforte, oppure una lingua, oppure l’alfabeto, ecc. non credo che si possa insegnare a raccontare per iscritto. Uno cioè può e deve cominciare a fidarsi delle sua competenza naturale. Partire da lì. Però ecco credo invece che si possa insegnare come si legge un racconto. Mi spiego meglio. Credo che si possa insegnare come si legge un ‘proprio’ racconto. In altre parole ancora, io dico alla classe, per esempio, non so, scrivete un dialogo tra due tizi che si sono incontrati per caso sulla panchina di un parco. Dico di scriverlo e basta. Mica gli consiglio dei modi speciali per farlo. Tutti in quanto uomini si possono immaginare una situazione del genere, tutti possono voler e poter rappresentarla. Perché siamo tutti animali mimetici, e come diceva Aristotele, fare letteratura è essenzialmente imitare azioni umane. Dunque ecco: che lo facciano! Come gli viene. Ma questo appunto è solo il punto di partenza. Poi però lo leggiamo in classe. E cioè ognuno legge il suo. Così che ogni testo diventa il testo di tutti. E tutti lo leggono, o meglio lo ascoltano. E’ questa dimensione di piccola comunità motivata e concentrata che fa la differenza. E da lì comincia tutto. Perché appunto c’è sempre un salto tra la ‘cosa’ e il modo di rappresentarla. Tra la cosa e la ‘resa’ mimetica della cosa. Tra un dialogo ‘vero’ e un dialogo ‘rappresentato’. Quasi mai i testi ‘rendono’ convincentemente la situazione. E questo bisogna innanzitutto ‘sentirlo’ insieme. Bisogna saper e poter sentire che quel dialogo è fiacco, che non ha ritmo, ecc. Da niente si impara come dagli errori, che diventano subito gli errori di tutti. Bisogna insomma tirarsi su le maniche e cominciare a trovare le parole sia per dire quel che non va (e qui la funzione del docente come catalizzatore e organizzatore di sensazioni sparse è fondamentale), sia per proporre soluzioni alternative. Non vale dire che non, bisogna dire perché non va e come eventualmente potrebbe invece andare. E naturalmente mica ce ne solo una di convincente, ce n’è mille, o milioni di alternative possibili. E da lì ecco che si comincia a ragionare sui tanti modi e stili diversi di rendere l’effetto orale. Su quelle che Giulio chiama le convenzioni. Da lì riflessioni e spunti. Da lì le esemplificazioni. Non porto mai in classe un bel testo di letteratura. Perché? Perché non si impara nulla dai ‘bravi’, dai ‘grandi’, spiattellandoli così nudi e crudi alla classe. Ti viene solo da dire. Come sono bravi, loro! Ma se io sto lavorando sul dialogo e leggo o evoco testi di scrittori che hanno saputo far dialogare i loro personaggi, allora è tutta un’altra storia. Diventano dei fidi maestri sostituti, diventano compagni di strada, suggeritori, da copiare, da saccheggiare, a cui rubare. Scompare l’atteggiamento sacrale. Li si usa, li si sfrutta, li si rende utili quei sublimi… Ma insomma io non volevo proporvi il ‘mio’ metodo, che poi non è mio e non è neanche un vero e proprio metodo. Volevo appunto proporre una riflessione a margine sullo scritto di Giulio. In altre parole, io non credo che quando siamo in classe ci sia un docente una classe e, come terza, la letteratura dei letterati. La letteratura non può non essere che già lì, da sempre. Perché da sempre la pratichiamo tutti. Adesso però c’è da lavorarci sopra, da diventare consapevoli. Siamo tutti come dei tanti signori giordani, per intenderci. Caso mai, e scusatemi l’antichità e l’ovvietà del richiamo, il docente di scrittura deve essere un maieuta, alla Socrate, e aiutare a diventare consapevoli di possibilità che sono già a nostra disposizione. Solo che ci vuole attenzione, cura, amore. I ricordi più belli delle mie classi di scrittura sono quelli relativi alle discussioni su come togliere e mettere virgole per far funzionare di più il ritmo di un testo e cose così. Ma basta, era solo un piccolo contributo…

  4. Giulio Mozzi Says:

    Stefano, mi sono permesso di aggiungere qualche link al tuo interrvento.

  5. stefano Brugnolo Says:

    benissimo!

  6. Nadia Bertolani Says:

    Sì, attenzione, cura e amore. Alla fine, questo soprattutto importa. Grazie a Giulio Mozzi e grazie a Stefano Brugnolo. E naturalmente grazie a Leopardi, Calvino, Dickens, James, Woolf, Ariosto, Dante, Baudelaire, Broch, Bulgakov, Cechov, De Silva, e tanti altri che sarebbe lungo elencare, quei tanti che più che a scrivere mi hanno insegnato a leggere. Buon anno a tutti.

  7. dm Says:

    Allora, per quanto può valere una mia idea.

    Sotto agli articoli di Giulio sulla scrittura creativa pubblicati negli ultimi anni, ci sono parecchi commenti miei, critici e qualche volta aggressivi, il leitmotiv è ingenuo, abbastanza diffuso dai grandi scrittori (tipo Faulkner) e anche dai grandi falliti che dunque non hanno nome: non solo non è possibile insegnare a scrivere, ma è persino da sconsigliare vivamente se si ha a cuore il proprio nucleo originario, la propria diversità saliente. Il discorso si spiega facilmente, qui, dopo che Giulio, là su ha detto abbastanza sulle cosiddette “convenzioni”: quando un allievo entra in contatto con le “convenzioni”, attraverso un insegnante verso cui ha una fiducia quasi totale, ne resta comunque e inevitabilmente compromesso. Questo dicevo. Questo pensavo.

    Ho ascoltato una lezione di Giulio di recente di cui non si può dire nulla qui, anche volendo, perché nulla c’entrava la tecnica, nulla c’entrava ciò che si chiama teoria. Per non parlare della pratica, perché la pratica era assolutamente estranea alla lezione di Giulio e, insieme, la lezione di Giulio era estremamente pratica. In due parole, credo sia possibile trasmettere, attraverso la codifica della finzione, una indicazione di profondità. A cosa serve una indicazione di profondità? A situarsi. Se io capisco a quale livello di profondità è, per esempio, la scrittura per un insegnante, comincio ad imparare (o a riscoprire, in qualche caso) come accedere a questa profondità.
    Detto così è piuttosto oscuro. In realtà è molto semplice. Imparare a scrivere può anche, in certi casi, voler dire semplicemente esclusivamente apprendere la dimensione di profondità di ciascuna cosa. Come mettere assieme un alfabeto che parli della profondità delle cose. E’ questo.
    Non credo ci sia molto altro da imparare nella sostanza.

    Spero di non essere stato troppo chiaro né eccessivamente oscuro.

  8. enrico ernst Says:

    Cari Giulio e Stefano e altri commentatori. Non farò che ripetere alcune cose che sono emerse altrove. A Giulio: ci sono molti modi e molti allievi e molti luoghi dedicati alla scrittura creativa: toccare il tasto dell’ambizione: cioè invitare e insegnare a scrivere buona prosa, o buona poesia, per entrare nel mondo letterario, essere “come i grandi”, essere insomma “bravi”, o “quasi perfetti”, non è sempre una buona idea. Poiché, in certi casi (che Giulio ha chiamato altrove di “dopolavoro”) gli obiettivi sono altri: invitare per esempio i propri allievi in questo modo: “Indaga il tuo mondo immaginario, emotivo, la tua storia, scova le immagini che aleggiano nella multidimensionale stratificazione della tua mente”. Qualcosa che c’è e va scoperto (la “natura” di Brugnolo) ma anche ciò che c’è, ci sarà, solo perché “scovato” e in quanto scovato (insomma si potrebbe dire che: quella fiaba che, allievo, hai scritto, non c’era prima nel mondo dell’iperuranio, prima che la scrivessi, non è… “naturale”…). Ecco perché il testo che uso con più sorprendente forza non è un testo di “tecniche”: è il molto amato “Scrivere Zen” di Goldberg, e negli anni, ho anche fatto amicizia e usato il sorprendente “binomio fantastico” di Rodari (Grammatica della fantasia); uso anche con piacere gli elenchi di Giulio Mozzi, e altri esercizi/stimoli invento… sarei in sintonia con Stefano su questo: il primo movimento è avviare la scrittura/la voce. La fiducia in se stesso, spesso, sia per gli ambiziosi che per i non ambiziosi… poi si passa: alla enucleazione delle critiche, delle tecniche, delle teorie… dalla mia esperienza: questo livello deve avere sempre un versante pratico. Forse Munari diceva: “solo se faccio capisco” o qualcosa del genere. Più insegno più il senso di dare fiducia all’altro, all’allievo, prima di: criticarlo, instradarlo, condurlo… assume un’importanza dirimente… dare fiducia vuol dire: in principio la creazione in principio l’ascolto (arrivo da una lettura illuminante come poche: “Arte di ascoltare e mondi possibili” di Marianella Sclavi, che mi pare possa dire cose importanti a un insegnante di scrittura creativa).

  9. federica campi Says:

    Il mio è un punto di vista abbastanza marginale, ovvero è a margine che parlo di didattica della scrittura perché mi occupo, da che me ne occupo, di scrittura di bambini e di preadolescenti.
    La tassonomia di Giulio non lo so come potrebbe essere letta dentro questo margine qui, perché qui c’è sempre il pedagogista, il maestro, e l’insegnante di tecniche rimane (credo giustamente) un po’ in ombra.
    Posso provare a dire cosa sto facendo con gli studenti del primo anno di Scienze della Formazione primaria all’Università di Urbino, dentro un laboratorio che si chiama ‘laboratorio letterario’.
    Lasciando da parte le resistenze di questa etichetta (cosa si può fare dentro un laboratorio letterario, cioè se sia possibile fare letteratura in un laboratorio o se non si finisca poi a fare scrittura – che di certo non è di per sé letteratura – e lettura – che non sempre potrebbe essere lettura di opere letterarie), ecco cosa faccio.
    Parlo della creazione.
    Mostro un disegno di una bambina di quattro anni; in questo disegno ci sono sirene, fate, creature marine, creature volanti, una grande margherita in cielo. Ora, la bambina non voleva dire come sono fatte le fate, come è fatta una margherita volante, come sono fatte le sirene, ma semplicemente, dal momento che Emanuela, la bambina si chiama così, disegna le fate: quelle fate esistono; dal momento che disegna le sirene: quelle sirene esistono; dal momento che disegna una margherita in cielo: quella margherita in cielo esiste. Non potrò affermare il contrario, potrò solo disegnare a mia volta altre cose rispetto a sirene, fate, margherite, e disegnare queste altre cose a modo mio, e non avrò comunque contraddetto Emanuela, avrò posto vicino alla sua creazione la mia.
    Dunque costruisco un ponte tra il gesto della scrittura e il gesto del disegno parlando ai futuri maestri della necessità di saper osservare, accettare, abitare con rispetto il mondo immaginativo dei bambini: nei primi anni di scuola non si toccano i disegni dei bambini e non si toccano le parole dei bambini.
    Parlo della creatività come momento in cui le cose che sappiamo e che sappiamo di sapere interagiscono con le cose che non sappiamo di sapere o di avere, dentro, cose come l’inconscio, l’istinto, la memoria, ed ecco la creazione. Leggo il libro di Giobbe come lo legge Steiner nelle Grammatiche della creazione, per tracciare un perimetro, il perimetro di protezione, di consolidamento, di valorizzazione del gesto creativo (il bambino che copia è spesso, non sempre, ma spesso, un bambino che ha visto fallire questo proprio gesto, e che guarda il gesto del compagno, se fallisce o no, scegliendo di mettersi al sicuro attuando una strategia di difesa emotiva che fa quel che deve fare: lo salva da altri fallimenti).
    Poi apro una parentesi sulla letteratura per ragazzi: leggo da Pippi, Alice e La fabbrica di cioccolato, per due motivi:
    il primo è che si riconosca come la letteratura per ragazzi attui una sorta di critica implicita e permanente al mondo degli adulti (plurivocità presente nei testi, empatia, patto comunicativo con il lettore, etc. ) e riconosce il bambino senza mistificazioni o semplificazioni, e dunque si pone dalla parte del bambino (che è un bambino e non un homunculus);
    il secondo è che si riconosca come la letteratura per ragazzi possa svolgere un ruolo decisivo nella didattica della lettura e della scrittura a scuola.

    Da qui, si comincia a lavorare sull’espressione individuale come pensiero che si mette in pagina. Il mio è sempre un approccio personale alla scrittura, perché è fondamentale che gli adulti con cui lavoro seguano il movimento del proprio pensiero, e riconoscano come questo movimento diventa frase, periodo, testo, rendendosi consapevoli (anche) della fatica, della bellezza, della complessità di questo gesto e sappiano poi misurarsi con esso quando diventa dell’altro.
    Entra dunque in gioco la lettura, e con la lettura la letteratura, e si passa senza soluzione di continuità dal gesto della lettura al gesto della scrittura.
    Gli esercizi sono una sorta di palestra di espressione individuale scritta.
    Visto che cambio continuamente punti di atterraggio, l’elenco che segue è esemplificativo e forse un po’ confuso o confusionario, me ne scuso, non so essere diversa.
    Un brano di Wallace (da Una cosa divertente che non farò mai più) sul sorriso professionale e uno di Nori (da E noi?) sul sorriso di una commessa che dà senso a una giornata, da qui: pensieri sulla felicità, sia come somma sia come sottrazione, e scrittura della prima cosa che viene in mente, poi si rilegge, si vede se si è soddisfatti, si va avanti se non lo si è.
    Un brano dei Sommersi e dei salvati di Levi, di quando ha pensato di poter chiedere aiuto a Dio e una pagina di Safran Foer di Molto forte, incredibilmente vicino, dove la nonna di Oscar racconta l’ultima notte in Ucraina prima dello scoppio della guerra e della fuga in America: si incontra il verbo credere e su quello si scrive e si lavora.
    Una parte di Ode alle cose di Neruda e un brano del Diario di Jane Summers della Lessing per lavorare sulle cose – l’oggetto che magnifica la nostra umanità, l’accumulo di oggetti come segno di una umanità manomessa – si scrive della relazione con le cose (che sia aver buttato qualcosa, non poter buttare via un qualcosa, accumulare, collezionare, riciclare, etc.)
    Con le prime pagine della Fabbrica di Cioccolato, vediamo insieme qual è la ricchezza di Charlie, dove sta il suo essere speciale (speciali, sempre, i bambini di Dahl) e quando Charlie si affaccia alla finestra di camera sua e vede l’enorme fabbrica di cioccolato, metafora dei suoi desideri più profondi e veri, una vita migliore per il papà, la mamma e i quattro nonni che stanno tutti nello stesso letto, ci si ferma a pensare ai propri desideri, si scrive e si lavora sul desiderio.
    Con un ricordo di Natale di Capote, si scrive una lista delle cose che abbiamo fatto e facciamo e delle cose che non abbiamo mai fatto, ne viene un testo a effetto lista-personalità.
    Il momento in cui Gatsby è con Daisy, guarda la luce verde sul pontile, vicino a casa di lei, e capisce che l’elenco delle cose fatate è diminuito di uno; una pagina della Lucina di Moresco, l’incipit di Vedevo ogni più piccola cosa di Carver, un passaggio del diario di Cheever, Una specie di solitudine: si lavora e si scrive sulla luce, sulle forme con cui essa entra nella nostra vita, sui modi in cui essa ci ha parlato o ci parla, etc.
    Durante il lavoro di scrittura ripeto di non sparare con una pistola di legno, insomma di non perdere l’occasione di scendere in profondità e di essere sinceri.
    Leggo l’incipit di Rientrata di Amy Hempel, che mi rende facile spiegare come la scrittura diventa letteratura quando è vera e quando scende in profondità (non basta, mi si dirà, va bene, ma da lì di certo si inizia).
    Nel frattempo mantengo viva la costruzione del ponte tra scrittura individuale e scrittura altra, infantile, cioè continuo a lavorare sulla formazione del maestro: quando scrivo, esprimo me stesso e cerco o pongo in evidenza un senso: i bambini e i preadolescenti sono per propria natura esseri in formazione alla ricerca di un senso, la scrittura infantile scende in profondità ed è sincera, naturalmente.
    Leggo poi a voce alta i testi: in questa fase non ci sono correzioni, solo l’osservazione del gesto della scrittura come insieme di scelte (lessicali, sintattiche, di punteggiatura). Restituzione di queste scelte, discussioni su eventuali cambiamenti e relativi cambiamenti degli effetti espressivi ottenuti.
    Per approfondire il lavoro sulla lettura come capacità di osservazione e ascolto del testo, leggo a voce alta più volte un racconto fantastico di una bambina di otto anni e si cerca insieme di entrare nelle ragioni del fantastico, di come si realizza in quanto storia, di cosa succede nei livelli della lingua, dal lessico alla sintassi fino al testo nel suo complesso, come creazione di un senso.
    Ecco, in genere questo è l’orizzonte del mio lavoro sulla scoperta della propria voce, e i modi di saccheggio della letteratura mi sembrano vicini a quelli che racconta Stefano Brugnolo e anche l’importanza della lettura.
    Il laboratorio va avanti con esercizi di ricerca e creazione di una voce narrativa diversa dalla propria, con la costruzione di personaggi e situazioni.
    Solo nel lavoro sui testi si potrà parlare delle tecniche narrative, e anche questo dal punto di vista del metodo mi sembra buono, del metodo, dico, da usare a scuola: far venir fuori le teorie dai testi e non i testi dalle teorie.
    All’inizio dicevo che il tecnico se sta nell’ombra (a scuola) è bene; mi vien sempre da pensare a quel giorno che in una classe di terza elementare si stava lavorando all’invenzione di una storia, e la maestra tirò fuori una specie di ‘decalogo di Propp’ per la scrittura delle fiabe (che va ancora e non poco). E il prontuario girò tra i banchi e i bambini facevano la conta delle cose da mettere nella storia e perdevano il tempo e la propria, di storia. E penso sia come aver davanti la ricetta del riso allo zafferano, sono nella mia cucina, apro il mio frigo, guardo la mia dispensa e trovo due uova, un po’ di zucchero e il latte. Stop. Allora cosa farò? Guarderò di nuovo la lista degli ingrediente della ricetta per vedere se c’è il latte, magari, e partire da lì. Ma dopo, che cosa aggiungerò per andare avanti? E per finire, servendo in tavola quel che c’è scritto nella ricetta? Penso che non lo saprò mai, penso che quel che saprò, alla fine, è che non saprò mai cucinare quel dannato riso allo zafferano, che ci vuol troppa roba, che è troppo difficile per me.
    Questo non significa che l’insegnante di tecniche non parta dai testi o non affronti qualunque teoria senza passare dalla pratica, anzi. Di certo il bravo insegnante di tecniche lascia poco o niente all’astrazione; ma il pedagogo, il maestro, quando parte dal testo, ecco, non parte dal testo, solamente, ma parte da quel che ha l’allievo (che è anche, in parte, quel rendere consapevoli delle competenze che si hanno già, di cui scrive Brugnolo).
    C’è insomma una testualità diversa sulla quale il maestro lavora, una testualità che è un misto di parole dette (e non dette), di scritture, di pensiero riflessivo, e ancora di memoria, di ricordo e anche di quel tipo di visione che è propria del prudente, la visione di chi sa scegliere tra ciò che è importante e ciò che non lo è, e dunque può guidare nelle scelte l’allievo per il quale diventa naturalmente, oppure, qualche volta, suo malgrado, vero maestro – a seconda delle età e dei momenti e delle occasioni.

  10. dm Says:

    Chiedo scusa. Va bene l’oscurità. Ma sopra, nel commento delle 14:15 c’è un errore. Ho preso la brutta abitudine di non rileggere le cose scritte per un rapido consumo.
    Non “Insegnare a scrivere può”, ma “Imparare“, evidentemente.

    [Ho corretto. gm]

  11. enrico ernst Says:

    Piccolo pensiero. La profondità. Che è e non è “in fondo”; è piuttosto di lato. O meglio lì dove “potenzialmente” puoi guardare ma non guardi. Esempio. Usare il linguaggio figurato è “naturale”, “naturale” è usare metafore, similitudini, metonimie? Oh, direi dopo anni di insegnamento, che no, non lo è (intendo dire che non lo è per tutti, e forse non lo è per la stragrande maggioranza; e qui direi che mi discosto un poco dall’affermazione di Stefano: e non basta il riferimento alla obbligatorietà dell’uso delle catecresi, tipo “le gambe del tavolo”). Se io ti dico “cosa sono” metafore, similitudini ecc. e poi magari ti leggo un brano dove fitte sono le metafore, le metonimie, le similitudini… e poi ti dico (dopo che ti ho fatto descrivere liberamente la stanza in cui ti trovi): ora descrivila di nuovo infittendo, infarcendo il tuo testo descrittive di metonimie, similitudini, metafore, io non so (né mi interessa) se, usando il linguaggio figurato, tu accedi a una maggiore profondità, o a una maggiore bellezza/perfezione. Semplicemente ti mostro che “si può fare” anche quello, anche altro… amplio, arricchisco il tuo “punto di vista”, il bagaglio delle tue possibilità, se volete degli “strumenti”… per approfondire, dunque, piuttosto che “trivellare”, si amplia, e si allarga…

  12. enrico ernst Says:

    Grazie Federica: un commento/testo il tuo di grande pregio e interesse. Condivisibile. Utile. Grazie.

  13. federica campi Says:

    Grazie, grazie a te, Enrico.

  14. Beniamino Sidoti Says:

    Ciao! Io ho un approccio un po’ particolare alle tecniche: cerco di sfruttare le regole di composizione per vedere se possono diventare regole di gioco. Mi interessa provare, sperimentare, trovare giochi per fare scrittura, narrazione, poesia. In questo senso le tecniche mi sono preziose: non come istruzioni per l’uso, ma come regole codificare e da mettere alla prova del gioco…
    A cosa serve un gioco, in questo senso? La risposta, per me, dice anche a cosa serva una tecnica nella scrittura: il gioco funziona perché si assuma una serie di carichi cognitivi – ci fidiamo del gioco e siamo più liberi di andare in profondità dentro gli spazi di libertà che il gioco garantisce. Per scrivere in gruppo questo è molto utile, perché permette di tenere al centro ciò che stiamo facendo insieme: ma è utile anche, dopo, individualmente per chi ha scritto.
    Grazie della discussione, Giulio, molto interessante!

  15. Magda Guia Cervesato Says:

    Eh sì che capita, che il maestro di vita diventi insegnante di tecniche. O viceversa, e forse in questo caso la confusione corre rischi maggiori, come forse dai a intendere tu, Giulio. Ma chissà: anche qui siamo in un bel circolo vizioso.
    A parlare di teoria non son buona, ma da allieva di un certo corso di scrittura so che se accade, di essere sollevati da qualcuno per fili invisibili, di iniziare a volergli bene, di non poter distinguere più tra le due figure, quel rapporto può diventare metodo e strada di accesso. Il rapporto affettivo gioca un ruolo assai efficace nel rapporto conoscitivo.

    Certo le potenziali conseguenze della faccenda sono varie e non scontate.
    Ad esempio Ilario, ragazzo di mia conoscenza, mi scrive pochi mesi fa che alla morte del suo maestro di vita, incidentalmente anche professionista della letteratura, non riesce più a leggere. Nulla. Pare disperato questo amico, anche perché in convalescenza da una colica renale, e quindi con parecchio tempo libero, ma i libri gli si accumulano inevasi accanto al letto.
    Ho provato a immaginarmelo così:

    “Raggomitolato sul materasso, Ilario tende la mano destra verso un cassetto dell’antico comò in massello di castagno: si attacca alla grossa maniglia di ottone, tira con forza e afferra l’ultima fatica di un giornalista americano, imponente biografia del celebre DFW; scrittore che, appunto, basta la sigla. E nemmeno gli manca la parola, solo che dopo poche pagine e qualche scarabocchio – verde, mai una matita normale a tiro quando serve – Ilario lascia scivolare a terra il mattone e torna ad allungarsi sul letto.
    Il problema non è il libro, quel libro: il problema sono tutti i libri. In realtà, il problema non sono neppure tutti i libri, o tutte le canzoni: il problema è tutto. Tutto ciò che da quel mezzogiorno di mezza estate, il giorno della morte di Valerio, è leggibile, annusabile, ricordabile, guardabile, toccabile, ascoltabile. Da due settimane tutto gli suona e gli canta di lui; e la cosa peggiore non è quell’immobile stato di stupore, naturale di fronte alla morte altrui, chiamato lutto. Che poi solo un lutto senz’anima, pensa Ilario, può non far cantare tutto di sé.
    No, la cosa peggiore al momento è che Ilario non riesce a decidere se il suo stato di prostrazione sia una cosa ‘bella’, indizio dell’affetto perduto; o una cosa ‘brutta’, celebrazione dell’avvento di un futuro -il suo- senza più musica e parole. Mai più musica. Mai più parole. Sì, perché tutta l’arte che aveva creduto appartenere all’amico, un’arte solo sua e di nessun altro, d’ora innanzi Ilario non avrebbe voluto scoprirla anche in qualcun altro. In qualche grande artista magari, certo; ma tristemente non solo sua.
    No. Questo è un rischio che Ilario non è disposto a correre. Così, mentre ricaccia il cassetto nel suo stupido vano, inutile come la pancia di una vecchia sterile e
    pretenziosa, Ilario decide che non avrebbe più letto, annusato, ricordato, guardato, toccato, ascoltato nessuna cosa, perché qualsiasi cosa è già Valerio. Solo Valerio. E dunque a che scopo soddisfare uno di quei bisogni? A qualcuno potrà sembrare terribile, ma per Ilario non è una questione di scelta: sarebbe stato tempo perso dedicarsi a una qualsiasi musica o romanzo, perché nella filigrana di ogni melodia o racconto c’è sempre lui, Valerio. Anzi nemmeno in filigrana, lui c’è: in bianca sovraimpressione su sfondo multi-color, piuttosto! Lui il musicista, lui il professore, lui il narratore, lui l’uomo. O meglio, considerate stazza e levatura, lui l’omone.
    Valerio sta ovunque, tanto ovunque che quale individuo e artista -seppure eccelso- potrebbe lasciare un segno su quella pietra incastonata nei lombi di Ilario? Pietra che reca la linea di un sorriso storto; l’ideogramma di occhi carichi di palpebre come truccate pesante; la sagoma di una testa oscillante a sinistra. E poi a destra e ancora a sinistra fino a fermarsi, negli ultimi giorni di Valerio sulla nostra terra, per un centro che sapeva di rinuncia. Quella buona, di rinuncia. Quella che sa di tolleranza per l’incomprensione, propria e altrui. Di affetto, finalmente, per l’incompreso, sia esso altri o se stesso. Quella che sa di sollievo, infine: pescata dalla scatola di vermi dell’incomprensibile.
    E dunque, si chiede Ilario: a che scopo dedicarsi a qualcosa? A che scopo contemplare altre pietre miliari dell’arte se quella pietra dentro il suo rene è sì spina nel fianco, ma l’unica a coincidere esattamente con la sua lisca?
    Non gli aveva Valerio forse insegnato a trovare sinonimi? -“Solo che qui non si tratta di un sinonimo!”- è’ l’urlo che pare uscire dalla bocca di Ilario insieme a un conato verde di vomito diretto nella pancia del fottuto comò.
    Già. Perchè la sostituibilità di ‘spina’ con ‘lisca’ qui tende pericolosamente all’assoluto; e dunque, di grazia: ma quale sinonimo e sinonimo?!
    Ora questo, Ilario, avrebbe dovuto scoprirlo da sè..

  16. enrico ernst Says:

    Sul dipingere – e in modo tale che possa essere anche un “ponte” per riflessioni su una pedagogia della scrittura creativa – sto incontrando le idee di Arno Stern (“Il gioco del dipingere”, Edizioni Uroboros)… che amplificano alcune delle affermazione sul “rispetto del mondo del bambino” di Federica. “il bambino disponde del suo foglio senza dover temere nessuna intrusione… non deve rendere conto a nessuno di ciò che traccia – a patto che tenga bene in mano il pennello e se ne prenda cura”. E ancora, il tema della spontaneità e del peso del passato. “Guardo sempre con sorpresa la maniera in cui i nuovi si propongono di dipingere. Arrivano con un’idea, spesso con un’esperienza, e questo passato pesa molto; è schiacciante per la spontaneità” (Arno Stern, citato, p. 22). Molto spesso, nei miei laboratori, il tema è esattamente la ricerca della via per accedere a una nuova (rinnovata) spontaneità, oltre il gravame del passato e del “censore interno” (Goldberg). Credo che questa ricerca non debba essere avviata e preseguita attraverso il trauma del giudizio o della proposizione di modelli di eccellenza, ma con grande determinata dolcezza. Molto spesso, io “faccio specchio”, questo è il mio compito prioritario: dopo la lettura condivisa del testo di un allievo gli dico: “vedi cosa hai fatto?” Perché eleggo a stemma nobiliare un doppio volatile: Spontaneità (Libertà) e Consapevolezza.

  17. Carola Susani Says:

    Sono d’accordo sia con Stefano che con Giulio. Credo che narrare sia un’attività umana naturale e che ciascuno, anche i non lettori, possiedano istinto narrativo e capacità di giudicare le narrazioni (ritmo, capacità di muovere l’attenzione etc.). D’altra parte siamo immersi nelle storie anche al di là della lettura, attraverso cinema, serie televisive, cartoon, fumetti, giochi elettronici. Il rischio è che, talvolta, la nostra istintiva attitudine alle storie si irrigidisca in grammatiche stereotipe. Ecco, io credo che insegnare scrittura narrativa debba, forse prima di tutto, rompere la rigidità, ricordare la ricchezza di possibilità che il narratore si trova davanti. La comunità letteraria di cui parla Giulio è così risalente e così vasta, ha narrato in modi così diversi, che insieme a una grammatica temporanea ha depositato una libertà. Leggere serve a questo, a ricordarselo. Certo che si tratta di riconoscere e penetrare in una comunità che condivide delle retoriche (nel migliore dei sensi) ma scoprire la copia delle possibilità che queste retoriche offrono costringe all’assunzione di responsabilità. Cosa serve a me? si domanderà il narratore, come voglio narrare e perché. Il laboratorio di scrittura mi sembra costringa a un continuo esercizio della consapevolezza.

  18. enrico ernst Says:

    Gentile Carola… Se “narrare è un’attività umana naturale”, è pur vero che in molti casi, questa è “fuori corso”, impedita, sgonfiata. Proviamo a chiedere quanto le persone raccontino di sé, delle proprie avventure, delle proprie scoperte, nella vita quotidiana. Se qualcuno le ascolta, poi. Cioè se c’è, e dove e in che contesti, disponibilità all’ascolto. Perché se c’è il narratore dev’esserci pure il suo “pubblico” (l’ascoltante). E proprio perché, come dici, “siamo immersi nelle storie”, ci si potrebbe chiedere, sotto traccia: dovremmo raccontare anche la nostra, di storia? Inflazionare questo insistente mormorio, o basso continuo, con una ennesima storia? Personalmente raccolgo ovunque questo senso di mancanza: la percezione dell’assenza del momento e della condizione per cui il narratore (che siamo) si possa esprimere. Paura di raccontare, paura di venir giudicati, chiudere il racconto in fretta e furia, per “non essere importuni”, sentimenti di inferiorità rispetto alle “storie altrui” (sempre più colorate e avventurose). Uno spazio protetto dove la narrazione (e il suo necessario pendant: l’ascolto) abbia luogo, interesse, corso. Ecco un’altra “possibilità esistenziale” per un laboratorio di scrittura creativa. Aggiungerò per finire che tra il racconto orale e quello scritto, per esempio, e nel “salto di codice”, avviene qualcosa “di grosso”, mi pare… questo mi interessa come docente: che cosa, succede, nel “salto di codice”? Una risposta tra l’altro, che mi pare di caratura individuale…

  19. Valentina Says:

    Ringrazio Giulio per il post, soprattutto per aver descritto in modo semplice, chiaro e – per me – particolarmente condivisibile il doppio livello dell’habitus e della comunità letteraria che, mi sembra id poter dire, si strutturano a vicenda.
    Ringrazio Stefano Brugnolo perché in un unico intervento ha condensato – emozionandomi non poco – tutta una serie di cose che vado intuendo (e un po’ anche pensando) da tanto tempo.
    A tutti i commenti, a loro volta molto stimolanti, vorrei solo aggiungere un ingrediente che deriva dalla mia esperienza di “apprendente” in generale, e di corsi di scrittura in particolare. Per me l’avvicinamento alle “tecniche” (sistemi di convenzioni) ha avuto il valore di una ri-scoperta guidata, di un addestramento dello sguardo, di un far diventare più “esperto” ciò che in realtà esperto (nel senso di “avente esperienza”) già era, ma solo al livello di routine e di uso. Avvicinarmi alle tecniche ha voluto dire, insomma, fare prima di tutto archeologia dei testi in cui sono state usate, consapevolmente e più o meno bene, da altri. Riconoscerle, estrarle, e guardarle: smettere di averne paura (quest’ultimo passaggio, personalmente, vale per la prosa ma non ancora per la poesia). Come ogni forma di apprendimento è un processo circolare che presuppone di essere da sempre immersi in un hummus narrativo (fin da quando veniamo concepiti, se non da prima: prima sono gli altri a raccontarci immaginandoci), di cui abbiamo quindi una specie di pre-comprensione intuitiva (mi piace pensarla come una “risonanza”) e di sentire la spinta a riprodurlo, ad un tempo rendendolo proprio e realizzandolo in modo del tutto unico, oppure scegliendo di aderire in modo compatto alle convenzioni, in ogni caso acquisendo sempre più confidenza con le sue possibilità. Sul “come” e “perché” si senta quella spinta a riprodurlo, ricordo un’interessante discussione con Giulio in cui si cercava di capire quale percorso di vita ci porti a voler raccontare: per ora, a mio avviso, la domanda rimane aperta.

  20. flaviabg2013 Says:

    L’ha ribloggato su LiberaMenteFlaviae ha commentato:
    la formazione dello scrittore ha necessariamente carattere ricorsivo: dalla lettura alla composizione, dalla composizione alla lettura; senza perder tempo a investigare se sia nato prima l’uovo o la gallina. (Giulio Mozzi)

  21. enrico ernst Says:

    dell’intervento di Valentina… mi interessava questo: quand parliamo di “tecniche” ci intendiamo davvero? Intendiamo tutti la stessa cosa? Dovremmo confrontarci: un elenco di tecniche… Giulio tocca a te: un decalogo… e poi mi interessa anche, Valentina: perché “paura delle tecniche”? Grazie!

  22. Valentina Says:

    enrico ernst: così, in prima battuta, direi che sotto le tecniche per me cadono prima di tutto le regole di costruzione e funzionamento, quindi anche d’uso, di quei “giochi” che sono i generi testuali; poi la gestione degli strumenti retorici, dei piani linguistici, delle potenzialità espressive della lingua (da quelle del suono a quelle del significato, passando per – o arrivando a – la forma), delle strutture narrative. ma sicuramente la mia è una definizione incompleta.
    La “paura delle tecniche” è quella sensazione che un apprendista prova quando, dopo aver visto tante volte fare un gesto esperto a chi lo padroneggia bene e con sicurezza, e dopo aver fatto dei tentativi sotto la sua guida, si trova per la prima volta a “far da solo”: rendendosi conto che ha il “diritto” di provare, che potrebbe esserne capace, che però ha tra le mani qualcosa di molto potente e vivo e ne ha un po’ la responsabilità. non so se ho reso l’idea, per me significa più o meno questo.

  23. Giulio Mozzi Says:

    Le “tecniche” sono quelle cose che si presentano dicendo: “Si fa così…”.

  24. enrico ernst Says:

    Domanda dell’allievo: Come si fa un romanzo?
    Risposta (tecnica): si fa così: prima devi avere un’idea… se no…
    Domanda dell’allievo: e come si fa ad avere un’idea? Quale idea? Ci sono delle regole?
    Risposta/domanda: regole?

  25. carlo capone Says:

    Già, ma alla fine di tutto, come si fa un romanzo?

    ( vecchio detto napoletano recita: “Zitt chi sap o’ gioco”)

  26. enrico ernst Says:

    Secondo me tu, Carlo, lo sai, come si fa un romanzo. Dài. Sputa il rospo! (Sai cosa Valentina? Che quel “gesto esperto” di cui tu parli, mi sa che non può che avvenire in realtà in uno “spoglio dietro le quinte” dopo tanto, tantissimo allenamento, e sfiancamento, e lavorìo, e culo di piombo e… quasi impossibile quindi, per così dire, “mostrarlo”, in qualche modo… comunque interessantissimo e per me illuminante quel “diritto di provare” di cui parli: risuona!)

  27. Giulio Mozzi Says:

    Carlo:

    Plin, plin, romanzin..
    Con due tipi che si aman,
    un cattivo che li odia,
    bravi, peste e cardinali,
    un fratone di soccorso,
    cinquecento paginette
    sono pronte e già perfette!

    Vedi.

  28. Valentina Says:

    enrico ernst: d’accordissimo sul gesto esperto, ma era solo un esempio per rendere l’idea della “sensazione” di chi sta dalla parte dell’apprendente; tutto il resto funziona poco nel caso della scrittura.
    Giulio, qualche tempo fa ho ritirato fuori I Promessi Sposi e li ho messi nella pila dei “libri da leggere”: tanto sarà praticamente come leggerli per la prima volta.

  29. carlo capone Says:

    Giulio, condivido 🙂

    Ieri sera ho rivisto il Pinocchio di Benigni, al quale preferisco la versione televisiva di Comenicini.
    E insomma, ripensando a questa discussione, mentre seguivo mi è venuto in mente che Collodi scriveva sotto minaccia dei creditori, aveva sì e no una settimana di tempo per inventarsi un nuovo capitolo della storia, e ignorava, presumo, dove diavolo sarebbe andata a parare.
    Eppure ha scritto un capolavoro, come ha fatto? e, in subordine, chi gli ha insegnato l’arte del nerrare?
    Secondo me nessuno, quell’arte non si apprende, puoi seguire mille e una lezioni di pur valenti professori, ma se non l’hai nel sangue, voglio dire se non hai una specifica, e misteriosa, inclinazione all’intrattenimento intorno al fuoco del bivacco, quando ti ritroverai a scrivere non li seguirai. In sintesi, io sono per la concimazione dei terreni vulcanici, quelli desertici, da cui possa pur spuntare un cactus, non vanno bene per gli apprendimenti di retorica.

    Per molto tempo ho seguito con passione e costrutto una buona scuola di scrittura, apprendendo di incipit, punto di vista, dialogo, costruzione del personaggio, tecniche narrative, verosimiglianza, punteggiatura, precisione espositiva, narrazione in prima, seconda e terza persona, piani temporalie così via per pagine intere. Per lunghi e proficui anni ho ascoltato editor e affermati scrittori analizzare pagine di autori grandi o sconosciuti, ringraziando Domineiddio di rammentarne ancor oggi i discorsi. Ma soprattutto ho appreso dalle migliaia di cazzate scritte dagli allievi, quorum ego, convincendomi che un modo di imparare, se davvero ci tieni, sia anche di scorrere i fotogrammi del negativo e che non vi è nulla di più pervicace degli errori commmessi da chi è meglio si dedichi soltanto alla lettura ( e hai detto levati).

    Per questa ragione salutai con entusiasmo l’iniziativa della Bottega di scrittura, cui per essere ammessi occorre superare un filtro presumo a maglia piccola. Perchè i buoni insegnamenti valgono per quelli di sicuro talento, per i pochi che, ascoltandoli, esclamino “eureka” a se stessi, o addirittura ‘cavolo, allora è vero! e io che mi pensavo che era un’idea solo mia “.

    @ enrico ernst

    Ti sembrerà strano, ma se dovessi dire che dopo aver atteso a tanta scuola io abbia imparato come si scrive un romanzo ammetterei il falso. O meglio, una tale sapienza si acquisice distillando a posteriori ciò che la scuola di scrittura ti sommnistra, però.
    – più che da eventuali elogi, ho imparato dalle osservazioni fattemi quando ho dato in lettura qualche mio romanzaccio, perchè sono le scudisciate sulla carne viva che ti insegnano a non ripetere certi errori, e guarda, te le ricordi finchè campi.
    – a volte basta poco per apprendere un qualche segreto del mestiere.
    Dopo il corso spesso mi capitava di intrattenermi con una persona del cosiddetto ambiente editorial letterario. Bontà sua mi stimava, arrivò a dire che difficilmente si sbagliava, che sapeva ben riconoscere chi ha talento e chi no. Non so se con me ci avesse preso, e ai fini di questo discorso è irrilevante, ma ciò che conservo di lei è una sera in cui stemmo a lungo a discorrere in auto. Non ho mai capito perchè si decise, nè credo perseguisse secondi fini, ma insomma all’improvviso mi fa: ” tu lo sai come si scrive un romanzo, no? si fa così, così e così”. E andò avanti per una mezzoretta.

  30. Giulio Mozzi Says:

    Carlo, però un punto importante è questo. Tu scrivi:

    … quell’arte non si apprende, puoi seguire mille e una lezioni di pur valenti professori,…

    e questo vale per qualsiasi arte, ivi compresa la pallacanestro. Tu puoi entrare in una società sportiva di oratorio o di paese fin da piccolo, può piacerti il gioco, puoi fare tutti gli allenamenti coscienziosamente, eccetera eccetera, ma se non sei portato (fisicamente, ma anche mentalmente) resterai sempre un giocatore mediocre, o scarso: un giocatore della domenica, da oratorio o da paese, e così via.

    Tempo buttato, dunque? No. Ti sei divertito. Hai stretto amicizie. Hai fatto del bene al tuo corpo.

    Chi è portato, invece, farà un’altra strada. Diventerà un professionista, o addirittura uncampione. Ma se non ci fosse la frotta di giovani giocatori destinati a restare nell’ambito del divertimento, dello spasso e della buona salute, con chi potrebbe cominciare a giocare il futuro professionista o campione?

  31. carlo capone Says:

    Sacrosanto, Giulio.
    E devo ammettere, come a volte faccio, che la vita non è nè deve essere affermazione a tutti i costi, ma anche divertimento, gioia di stare insieme, passione per qualcosa che ci accomuna ad altri, e solo in fine confronto con chi riteniamo ci sia migliore.
    Io tutto questo in quella scuola l’ho trovato.

  32. Giulio Mozzi Says:

    Oh là, Carlo. Sono felice di sentirmelo dire.

  33. Lorenzo Zirulia Says:

    Leggendo ciò che hai scritto, Giulio, il mio primo pensiero è che quanto dici della letteratura, vale, in gran parte, anche per la scienza. Il che, ovviamente, non è sorprendente, e probabilmente un’osservazione neppure tanto originale da parte mia. Come lo scrittore, lo scienziato è contemporaneamente “produttore” e “consumatore” di scienza. Anche la formazione dello scienziato è ricorsiva, e l’apprendimento delle convenzioni è un aspetto fondamentale della formazione; e, per citare un ultimo esempio, scienza è ciò che è fatto dalla comunità scientifica.
    La scienza moderna si è inventata una modalità istituzionalizzata di formazione dello scienziato, che è il dottorato di ricerca, molto simile fra Paesi e discipline per la durata (3 o 4 anni) e i contenuti (lezioni e seminari mentre nel frattempo si scrive la propria tesi di dottorato, le prime conferenze, le prime esperienze con il mondo delle riviste scientifiche, e così via). Alcuni corsi di scrittura di creativa (penso alla Bottega di Narrazione) hanno una struttura simile (a parte la durata), ma con una grande differenza: lo scienziato in formazione è quasi sempre pagato, per lo più dallo Stato…

  34. Dario Voltolini Says:

    Ciao Giulio. Io ho tenuto vari corsi di scrittura negli anni passati, ma adesso mi sembra di non essere più capace di farlo. Cosa ne pensi? (intanto: buon Natale).
    Dario

  35. Giulio Mozzi Says:

    Eh, Dario: penso che non sono un indovino; e posso solo farti delle domande.
    Perché ti sembra di non essere più capace? (es.: ti proponevi degli obiettivi e ti pare di non averli raggiunti; la tua vita è cambiata e questa cosa nella tua nuova vita non ci sta; hai ormai una certà età e il fisico non tiene; ti sembra, a forza di far lezione, d’essere diventato ripetitivo; ecc.).
    E, esattamente, che cosa è che ti sembra di non essere più capace di fare? Non sei più capace di alzarti all’alba, lavarti in fretta, uscire nell’aria fredda, prendere il tram, correre alla scuola o a prendere il treno, eccetera? O non sei più capace di entrare nell’aula, vederti davanti sei otto dodici diciotto corpi e provare l’intenso desiderio di entrare in una relazione profonda con quei corpi lì? Oppure, ecc.

  36. enrico ernst Says:

    Penso che lo si possa attraversare: un senso di – non proprio razionalizzabile – di inaridimento… l’idea (ma solo l’idea, per fotuna, almeno per ora, almeno per quello che mi concerne) che – e non so se è il caso anche di Dario – che non si sappia più bene da dove iniziare, come affrontare il viaggio, se si sarà davvero utili, se si riuscirà ancora a costituire un tramite verso la scrittura letteraria… questo avviene “lontano” dai corsi/laboratori, a porte chiuse… per me, poi, invece, quando ho un gruppo di persone davanti, la voglia di comunicare, di comunicare la mia passione per le avventure dell’immaginazione, prevale… li guardo negli occhi… aspettano, aspettiamo… e non c’è più nemmeno una traccia di quella “nebbia”, siamo tutti impegnati in un gioco, e non c’è che giocarlo, trova da qualche parte nelle mie tasche alcune regole del gioco…

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