di Marco Rovelli
[Dal blog di Rovelli in Micromega, vedi].
Valter Binaghi se ne è andato guardando in alto, verso il cielo. “Lo spirito si libera”, mi ha scritto nella mail che ho ricevuto da lui un paio di settimane fa. Non ha nascosto la morte che veniva, ma l’ha guardata in faccia. E ha voluto consegnare ad alcuni suoi contatti quella che lui stesso ha definito “un’eredità”: uno scritto assai articolato (Valter insegnava filosofia) cui ha lavorato negli ultimi mesi della sua vita sulla “conoscenza simbolica”, ovvero sul valore di conoscenza di simboli, metafore e analogie, “laddove i concetti risultano indisponibili o inadeguati”. Ed era così che Valter praticava la letteratura: “come costruzione di simboli, forme articolate in cui si allude come si può all’indefinibilità del mondo”. Valter ha scritto nove romanzi, da L’ultimo gioco del ‘99 a Melissa, la donna che cambió la storia, dello scorso anno. Il romanzo del ‘99 veniva dopo venti anni di silenzio: Binaghi infatti negli anni settanta era stato attivo nella “controcultura” dell’epoca, redattore di Re Nudo, pubblicando per Arcana libri su Pink Floyd, Lou Reed e il punk. Dopo aver traversato – anche e soprattutto esistenzialmente – i territori estremi, territori dell’eccesso, se ne era distaccato radicalmente, con una vera e propria metanoia, una rivoluzione interiore che culminó in una conversione al cattolicesimo, in cui trovó la sua “prima radice”.
Quel silenzio ventennale fu il suo lavacro: ricordo che una sera mi diceva da quanto si sentisse lontano da alcuni reduci degli anni settanta che non avevano mai smesso di parlare, dall’altezza dei loro fallimenti. Lui, invece, era diventato un altro. Di questo ne scrisse a quattro mani col suo grande amico Giulio Mozzi – a cui è dedicato anche il testo sulla conoscenza simbolica – in un libro che si intitolava Dieci buoni motivi per essere cattolici, pubblicato nel 2011. L’anno prima, intanto, era tornato a scrivere, dopo trent’anni, un bel saggio su un musicista: l’amato Johnny Cash (e come potremo da oggi ascoltare “Hurt” senza pensare a lui?). Del resto Valter non aveva mai smesso di suonare, con la sua band Robinia Caravan (l’ultimo concerto, definito da lui stesso proprio così, lo ha fatto circa un mese fa) e presentava sempre i suoi romanzi con reading musicali.
Valter si definì una volta un “cattolico col bazooka”. In questa veste lo conobbi in rete, sul blog di Nazione Indiana che frequentava assiduamente, e con frequenza avemmo dissensi e litigi. Ma proprio grazie a quei litigi ci conoscemmo e ci rispettammo: imparammo a comprendere, nelle nostre differenze anche incomponibili, che ci accomunava un grande amore per la vita, e una voglia inesausta di scoprire l’ignoto. In questo amore per la vita era radicato il suo bazooka. Aveva scritto, qualche giorno fa, ancora una volta in rete: “Ora sono come un nomade forzato, un cavaliere senza causa e senza patria, cerco un albero a cui appendere le armi e il mantello, un’ombra che mi ospiti una volta per tutte, che somigli alle vaste ali del perdono di Dio.”
Tag: Marco Rovelli, Valter Binaghi
14 luglio 2013 alle 09:10
Grazie Marco! Grazie Giulio!
15 luglio 2013 alle 12:30
[…] Di tutte le parole spese con estrema attenzione e cura, come quelle che su Micro Mega ha scritto Marco Rovelli, o di slancio e autentica insofferenza di Franz Krauspenhaar, due testimonianze, da giorni, […]