Tre pezzi d’antiquariato, 1 (allegorie)

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scacchi platonici

Valter Binaghi, Platone a Siracusa

Per la terza volta Platone faceva quel viaggio: per la terza volta, in piedi sul ponte della nave, guardava allontanarsi le fertili coste italiche finché si riduceevano ad una striscia sottile, bruna, presto inghiottita dal vasto abbraccio del cieelo e del mare. Per la terza volta il suo cuore, prostrato dal volere degli Dei, salutava con rimpianto il filosofico sogno della Giusta Bellezza che redime la terra.
Il monotono cigolìo dello scafo intorpidiva i suoi pensieri, così Platone scese sotto coperta, per un buon sonno. E sognò.

Si trovava in un ‘isola, dalla natura rigogliosa, ma deserta di umane presenze.
Al centro dell’isola un ‘ampia radura, dove la mano del Dio aveva tracciato un meraviglioso disegno: una grande scacchiera di pietra levigata: i quadri bianchi e neri lucevano nel sole.
Lui, il filosofo, era il custode ed insieme il pastore di quell’ordine perfetto, che il Dio gli comandava di portare a compimento: le tre specie di abitanti dell’isola – conigli, cani e tartarughe – dovevano prendere posto nel vasto disegno e, svolgendo ognuno la sua parte nella danza, il quadro avrebbe brillato di una grande luce, riflesso della sempiterna festa degli astri, parola terrestre del Dio.
Cominciò presto, all’alba. Radunò prima tutte le tartarughe, scovandole dagli anfratti della scogliera, e le depose sugli scacchi dove esse continuarono a svollgere i loro teoremi sonnolenti.
Poi andò in cerca dei cani. Individuato il capo branco, lo domò con lo sguarrdo del padrone, e anche tutti gli altri lo seguirono.
Infine fu la volta dei conigli. Il filosofo trasse dalla bisaccia croste di pane e carote e tracciò coi cibi un sentiero che portava alla radura. Presto si videro spuntare lunghe orecchie tra i ciuffi d’erba e, uno dopo l’altro, tra balzi e pause esitanti, giunsero tutti lì, sul disegno.
Ma a quel punto il filosofo si accorse che le tartarughe si erano addormentaate, e non sembravano intenzionate a dare inizio alla danza. Provò a picchiare sul guscio, a sollevarle in aria.’ niente. Allora cominciò ad urlare: qualche capo grinzoso sbucò dalle dimore ossute ma, alle grida di Platone( furono soprattutto i cani a scuotersi, cominciando ad abbaiare. Un frastuono, una sarabanda imposssibile a sopportarsi. Il filosofo trasse dalla bisaccia un fischietto e soffiò forte: le bestie tacquero e si accucciarono ai suoi piedi. Solo che, guardando più in là verso i conigli, il malcapitato si rese conto che i tremuli animali, spaventati dal frastuono, avevano reagito nel modo più consono alla loro natura: avevano preso ad accoppiarsi velocemente, uscendo dai quadri designati. Qualche connubio aveva già prodotto il suo effetto, e i conigli crescevano di numero a vista d’occchio. Molto, molto tempo impiegò il filosofo a ripartire una seconda volta gli spazi in base al nuovo numero degli animali ma, alla fine dell’immane fatica, si accorse con orrore che le tartarughe si erano di nuovo addormentate.
Ansimante ancora per lo sforzo, sconsolato, Platone sedette su una pietra e comprese che il suo compito era impossibile. Così per la prima volta nella sua vita dopo la morte di Socrate, pianse, mentre la scacchiera, abbandonata a se stessa, ritornò il berciante serraglio di prima, e !’isola intera risuonava dei versi scomposti e delle strida di quell’irrazionale congresso.
Fu proprio in quel momento che, dal limitare del bosco, emerse una bianca, lucente figura. Un giovane bellissimo, il capo cinto dell’alloro delle muse, il volto splendente simile a quello di un Dio, recava in mano la mistica lira.
Quando Orfeo cominciò a suonare, come per incanto tutto si tacque: e gli animali sulla scacchiera, immobili, e il pianto del filosofo, e persino gli uccelli del cielo e lo scrosciare delle onde sulla scogliera. Placido, divino silenzio, note celestiali, tutti i colori dell’Essere.
Gli animali presero posto nel disegno e la danza ebbe inizio: armoniche ruote gioconde, proprio come la sempiterna festa degli astri.
Allora il filosofo, finalmente, sorrise. Platone si destò riposato – era già l’alba. Ricordò il suo sogno e lo comprese.
Per questo, sebbene fosse stato una, due e tre volte, non credette più suo compito ritornare una quarta volta a Siracusa.

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