Valter Binaghi, Documento africano
Quello che vediamo all’inizio è una manifestazione celebrativa in un paese africano. Una piazza gremita di gente. Un uomo sul palco, circondato da guardie, che parla in una lingua a noi sconosciuta. L’uomo è alto, ben vestito, sui cinquanta. I capelli crespi tagliati corti, appena brizzolati. Il tono è a tratti accorato, a tratti più aggressivo. Si capisce che promette e minaccia. La qualità della ripresa rivela un piglio amatoriale, e nemmeno tanto esperto. Non solo perchè la mano è incerta, ma anche perchè la ripresa si sposta continuamente dal palco centrale (posto a una trentina di metri dall’operatore) a particolari scarsamente illustrativi della scena: dettagli sulla folla, specialmente su persone di genere femminile, un cagnetto al guinzaglio di una donna bianca (forse una giornalista europea) fino all’inquadratura un po’ troppo insistita su una matrona di colore, non più giovane ma dal seno enorme, gonfio sotto l’abito sgargiante. Poi un improvviso controcampo. Dal viale alberato che porta alla piazza arriva una fila di camionette gremite di soldati. La folla non pare far troppo caso a questo supplemento di sorveglianza. Il discorso sul palco continua, ma l’operatore si allontana definitivamente dallo scenario iniziale. Per qualche altro minuto vediamo sfilare abitazioni borghesi e negozi in quello che dev’essere il quartiere più “occidentale” di una capitale africana, poi la ripresa s’interrompe.
La videocamera viene riaccesa e ci troviamo in un contesto completamente differente. Una specie di bidonville, nella periferia lurida di una città che potrebbe essere la medesima. Una capanna costruita con pali di legno e un tetto di lamiera, rivela all’interno fin troppi abitanti per le dimensioni. Un paio di anziani sdentati, una donna giovane e macilenta, tre bambini di cui uno coperto di croste. La donna sorride mestamente all’operatore, che forse è un parente o addirittura un congiunto. La ripresa si sposta dalla soglia dell’abitazione. Il villaggio è attraversato da una strada sterrata, fino a una grossa pozzanghera dove un gruppo di bambini nudi si diverte a far galleggiare lattine vuote di coca cola. Alcuni ci hanno praticato un buco e infilato uno stecco con una foglia infilzata: l’albero della nave, con tanto di vela. Ad un tratto una voce alle spalle dell’operatore lo apostrofa in francese: – Ti avevo detto di non sprecare batteria con le cazzate –
La videocamera passa di mano, e per un attimo vediamo l’operatore di prima. E’ un ragazzo sui quindici-sedici anni, pantaloni corti troppo largli e una maglietta a righe. Riceve dall’altro un paio di banconote in valuta locale e sfodera un largo sorriso, deturpato dalla solo mancanza di un incisivo superiore.
Poi, di nuovo, la ripresa s’interrompe.
Ora siamo in una camera d’albergo. Due uomini, di fronte al televisore, guardano e commentano le riprese di prima. Entrambi piuttosto giovani, tra i trenta e i quarant’anni, in jeans e camicia, parlano in francese.
– Non c’è male – dice uno (dalla voce, si capisce che è lo stesso di prima) – Abbiamo il trombone sul palco e il lerciume del villaggio. Con l’altra roba che hai girato tu c’è materiale per un buon servizio –
L’altro appare meno sereno, una ruga troppo netta per l’età che ha gli solca la fronte:
– L’altra roba, come la chiami tu, è roba che scotta. Bisognerà vedere se riusciamo a portarla fuori da qui. E quel che è peggio è che quel poliziotto mi ha riconosciuto –
– Colpa tua, che vai in giro a scoparti tutte le vacche che trovi. Con le centinaia di puttane che girano in città, proprio con la sorella di un poliziotto ti dovevi mettere? Comunque, se ti ha riconosciuto e non ti ha fermato significa che ti ha usato dei riguardi –
– …O solo che ha chiesto consiglio ai superiori. Non dimenticarti che ho filmato un’esecuzione a sangue freddo. Un uomo e una donna sparati in bocca nella loro auto, senza nemmeno un interrogatorio. –
I due continuano a discutere di fronte al televisore ormai vuoto d’immagini. A nostra volta, dalla fissità della ripresa che li inquadra, capiamo che deve trattarsi della telecamera a circuito chiuso posta ad altezza media nella camera d’albergo, e di cui presumibilmente i due ignorano la presenza.
Improvvisamente si ode uno scalpiccio nel corridoio, la porta si apre improvvisamente e compare un africano in borghese e pistola in mano. Dietro di lui un altro, che viene verso di noi col braccio teso, ed ecco che la mano aperta si chiude sull’obiettivo. Siamo piombati nel buio, mentre la stanza rimbomba di spari, imprecazioni in lingue diverse, grida di dolore che non hanno lessico riconoscibile. Poi basta.
– Com’è arrivato questo filmato? – chiedo a Rambaldi
– Solito giro. Poliziotti corrotti, o la Concierge che finge di far sparire il materiale per poi rivenderlo ai giornalisti –
– Consegnato a te personalmente? –
– Macchè. Ho pagato in aereoporto uno che non avevo mai visto –
– Quindi non sapremo mai se a liquidare quei due sono stati quelli della polizia governativa o i ribelli di Mbutu. –
– Hai dubbi? –
– Certo. Quelli ficcavano il naso dappertutto, e pagavano ragazzi insospettabili per fare riprese qua e là. Erano freelance e politicamente indifferenti. Cercavano merce da rivendere e basta. Chissà a quanti hanno rotto le scatole. Chiunque poteva avercela con loro –
– Quindi? –
– Quindi trasmettiamo il tutto, e lasciamo che chi guarda si ricostruisca la storia che gli pare più credibile. E’ il massimo di onestà intellettuale che possiamo permetterci, no? –
– Sicuro. Io mi faccio un cicchetto. Ne vuoi? –
– Non a quest’ora. Ma cos’hai? Non mi sembri soddisfatto –
– Bah. Pensavo che le immagini finiscono sempre sul più bello. La realtà resta un mito. E poi pensavo che anche noi adesso, potremmo essere ripresi da qualcuno, e non saperlo. Se costui esistesse, avrebbe un pezzo di pellicola più di noi. Più realtà –
– Certo, e poi un altro che riprende questo, e un altro ancora, su su fino a Dio. Che gigioneggia nell’estrema sala di montaggio, dove si scolpisce la Storia. Lo sai vero, che con pensieri come questi un giornalista si fotte il cervello? –
– Tu cosa consigli per evitarli? –
– Sai cosa diceva Boskov, un vecchio allenatore di calcio? “Rigore è quando arbitro fischia”
– Che cazzo significa, scusa? –
– Il punto ai discorsi, il taglio alle riprese, non si mette da solo. Qualcuno deve mettercelo. La mappa non è il territorio, l’immagine non è la realtà. Eccetera –
– Ho capito. Me ne verso un altro. Sicuro che non ne vuoi? –
Tag: Pezzi facili, Prove di dialogo. L'estrema verità. Documento africano
7 luglio 2013 alle 01:37
Sembra che la staffetta con la funzione di osservatore si muova per tutto il racconto finché, com’era inevitabile, viene consegnata al lettore, quasi in modo ricattatorio. Mi piacciono i testi narrativi in cui le storie non sono vere e proprie storie, ma una lunga rete di indizi che può portare da nessuna parte (me lo ha insegnato Bolaño, e lo ritrovo ad esempio qui e in pochi altri scrittori che leggo, italiani voglio dire, e magari sbaglio ma ho la sensazione che la nostra narrativa, intendo quella italiana sia “chiusa” anche sotto questo aspetto. Di solito tra le righe scritte dagli italiani leggo la volontà di dare un senso alle cose, una conclusione e un fine oltre che una fine alle storie. Il che mi sembra un po’ mortifero, e nei casi estremi mortificante nei riguardi del lettore. L’alternativa alla chiusura formale è, mi pare, la masturbazione con la lingua. In mezzo c’è poco o nulla. Almeno, questa è l’impressione. E io non posso leggere tutti i libri che escono anche perché sono poco abbiente. Chiusa parentesi.)
Credo ci sia un errore, probabilmente un refuso: leggo “un africano in borghese”. Considerato il punto di vista del narratore, forse lì ci andava un “africano in abiti borghesi”.
Insomma, piaciuto.
7 luglio 2013 alle 23:05
Hai ragione sul refuso anche se da qui non riesco a correggere il post.