Valter Binaghi, La sterminata antichità di Giuseppe Genna
Fin da bambino era ossessionato dall’origine dell’universo, l’istante primigenio che i miti biblici risolvevano con un “fiat” e le moderne cosmologie scientifiche rappresentano con il “Big Bang”, l’invenzione della Luce che fiorisce nella tenebra e la cui forma finale sarà il mondo. Ebbene, egli era inspiegabilmente convinto di avervi assistito, o quanto meno che in lui ne sopravvivesse la traccia come il grumo nascosto di una memoria primordiale. Un evento appreso ma non più immaginabile, intimo al cuore eppure lontanissimo dai campi arati del linguaggio. Un meteorite sprofondato: bisognava dissotterrarlo come un minatore la gemma preziosa, per ripresentarlo finalmente alla luce di una contemplazione piena. Solo allora, ricongiungendo il principio con la fine, il cerchio della sua esistenza si sarebbe chiaramente disegnato, ponendo termine a quel senso di viscerale incompiutezza che lo tormentava.
Meditazioni leopardiane, silenzi monacali, pericolosi esercizi ascetici e inquietanti speculazioni gnostiche si disputarono la sua mente adolescente senza che nessuna di queste cose riuscisse a fornirgli conferme o smentite definitive di quel sentimento così vivo, finchè sembrò trovare pace nell’Advaita Vedanta, il più algido dei sistemi induisti, che proclama l’identità dell’Assoluto e del Finito e di cui la filosofia hegeliana appare più che altro un catechismo illustrato. Si trattava tuttavia di pura certezza teorica, ben lontana dalla visione incandescente a cui lui agognava.
Interruppe gli studi accademici e scrisse, furiosamente scrisse. Thriller venati di un esoterismo spiritistico che non escludeva alleanze con il bieco materialismo del Potere. Gli diedero un successo palpabile e duraturo, e crearono come spesso accade denigratori e seguaci in egual misura. Il suo universo letterario sembrava aperto a influenze medianiche, ma mai così arroganti da sovvertire l’ordine del discorso e la narrazione condivisa della Storia. Tutto era dominato, come accade a molti nati dopo gli anni Cinquanta, da uno scientismo soffuso e indiscusso, d’importazione anglosassone, che gl’imponeva di tradurre le percezioni sottili nei logaritmi delle neuroscienze. Forse per questo a suo tempo fu sedotto da quella che un ricercatore aveva definito boriosamente “la particella di Dio”, più nota come il “bosone di Higgs”, la quale secondo gli astrofisici avrebbe giocato un ruolo fondamentale nella materializzazione dell’universo. Questo entusiasmo fu deluso quando Genna si rese conto che si trattava del solito effetto di percorso che affligge la fisica dopo Galileo: una volta abbandonata la fede negli occhi per il telescopio, l’organo percettivo del sapere è fatto da strumenti d’osservazione che creano da sè i propri oggetti (la cui esistenza infatti presuppone quella degli strumenti medesimi), un circolo vizioso da cui l’unica esperienza universalmente fruibile, quella dei sensi, è esclusa in linea di principio. A questo proposito scrisse su “Vanity Fair” un articolo vagamente irridente nei riguardi della comunità scientifica che gli costò un anatema in forma di corsivo da parte di Giulio Giorello sul “Corriere della Sera” e l’interdizione perpetua dalla pagina culturale del Grande Quotidiano Nazionale.
A tutto ciò rispose con un distaccato silenzio, e un rinnovato fervore speculativo.
Rilesse la “Monadologia”, in cui Leibniz ipotizzava l’esistenza di una pluralità finita di principi elementari, primogeniti della creazione e destinati ad aggregare e governare organismi complessi. Ciascuna di queste Monadi appetisce e percepisce a suo modo l’intero universo, risultandone dunque uno specchio prospettico ma integrale. Lo scrittore si convinse che queste plurime, ancestrali soggettività che la religione popolare chiama “anime” viaggiano nel tempo reincarnandosi in forme sempre diverse ma conservando nel fondo di una memoria inattingibile l’immagine dell’Origine. D’altra parte il loro numero, per quanto elevato, non può accrescersi nè diminuire. Credette perciò che, come le tessere di un mosaico, solo il giorno in cui tutte le anime fossero unite insieme a formare una Mente collettiva il vasto disegno della Creazione si sarebbe compiutamente rivelato. Per qualche tempo simpatizzò per una di quelle forme di socialismo cibernetico o tecnognosi di cui il Web pullulava alla fine del secondo millennio, arruolando in ugual misura consumatori di droghe sintetiche sovraeccitati dal rave party e studenti di filosofia orfani del marxismo occidentale. Del Web italiano, anzi, Genna fu indiscusso pioniere.
Maa una sera incontrò a un concerto di Battiato un tale Mushraim, che affermava di essere un derviscio. Il suo unico colloquio con lui dovette avere grande significato, perchè per diverse settimane seguenti si immerse nello studio dei maestri Sufi. Fu proprio la lettura di un mistico mediovale persiano, a segnare un’ulteriore e decisiva svolta nel suo cammino. Farid Al-Din Attar, ne “Il verbo degli uccelli”, racconta di come tutti gli uccelli di questo mondo, invitati dalla saggia upupa, si misero alla ricerca del loro sovrano, il Simurgh, che nessuno aveva mai visto e dimorava in un luogo sconosciuto. Dopo innumerevoli peripezie e dolorose perdite, gli uccelli giunsero in trenta nel luogo misterioso dove il Simurgh li attendeva, per scoprire l’inattesa, estrema Verità: “Nell’immagine del volto di Simurgh contemplarono il mondo, e dal mondo videro emergere il volto di Simurgh. Osservando più attentamente si accorsero che i trenta uccelli altri non erano che Simurgh, e che Simurgh era i trenta uccelli: infatti volgendo nuovamente lo sguardo verso Simurgh, videro i trenta uccelli, e guardando ancora sè stessi rividero lui”. Ma, e questo è importante, fu proprio Simurgh a svelargli l’esatto significato della visione: “Noi siamo uno specchio grande come il sole e chiunque in esso si guardi vede l’immagine di sè stesso, del corpo e dell’anima. Poichè voi qui arrivaste in trenta, nello specchio apparite trenta, ma se foste di più non temete di mostrarvi! Per quanto siate mutati, vedrete voi stessi, e in verità voi avete visto esattamente voi stessi”(1)
Dunque, realizzò l’ormai non più giovane scrittore, non si trattava di unire le menti singole in una mente collettiva per espandere la consapevolezza, ma semmai del contrario: andare alla radice della propria singolarità, sbarazzandosi di quell’insulsa narrazione cucita e ricucita ogni giorno con tanta fatica che gli altri chiamavano “Giuseppe Genna” per ritrovarsi monade originaria, specchio dell’intero universo allo stato nascente. Questa dolorosa coerenza gli costò la sconfessione da parte di quell’ambiente progressista e consociativo che pure aveva contribuito al suo successo letterario. Valerio Evangelisti scrisse per lui un necrologio su “Carmilla”, Wu Ming1 parlò di incidente in una zona non periferica dell’immaginario di classe, Girolamo De Michele di uno spinozismo malauguratamente capovoltosi. Giuseppe Genna fu dichiarato ormai esterno alla causa rivoluzionaria. Ma a chi importava di Giuseppe Genna, o meglio di quel trascurabile episodio biografico cui lui stesso era abituato a riferirsi come al suo proprio “io”(l””io”, che già qualcuno in passato aveva definito “il più lurido dei pronomi”)? La memoria del mondo, ecco l’unico obiettivo meritevole, la perla evangelica cui ogni altro possesso meritava di essere sacrificato.
Sprofondò di nuovo in quello studio matto e disperatissimo che, ne era convinto, gli avrebbe permesso di risorgere dalla sua storia personale come l’araba fenice dalle sue ceneri. Leggendo l’ultimo dei metafisici d’Occidente, Bergson, capì che coscienza e intelletto concettuale non sono altro che funzioni di adattamento dell’organismo all’ambiente, tutto ciò che le impellenti richieste del presente ci consentono di sviluppare e finisce per costituire la nostra limitata rappresentazione del reale, mentre noi siamo ben altro: nel fondo oscuro dello slancio vitale che ci abita conserviamo tutto il passato non dico dell’individuo o della stirpe, ma della vita stessa, fin dall’istante primordiale. Ed ecco la Monade, specchiata nella regalità del Simorgh, a sua volta specchiarlo.
Lo scrittore immaginò di raggiungere una condizione tale da sopprimere almeno temporaneamente ogni richiamo sensibile e intellettuale che provenisse dalla becera attualità, per inabissarsi in quella antichità sterminata. Studiò vari tipi di dormizione nelle diverse posizioni dell’hatha yoga, sperimentò la camera iperbarica e potenti decotti a base di diaboliche misture messicane. Primi risultati di questo raccoglimento alchemico si videro in quella che a tutt’oggi è la più magniloquente e controversa delle sue opere: il “Dies Irae”. In essa, frammisti a deliri urbani di personaggi verosimili, si svelano alcuni momenti oscuri e finora ignoti della storia del nostro paese, cui l’autore pare aver assistito in proiezione medianica. In seguito scrisse una biografia non romanzata ma testimoniale di Adolf Hitler, del quale pretendeva di svelare dall’interno la tortuosa perversione.
Si è trattato di apparizioni fugaci e imprevedibili o dell’immersione inesorabile e faustiana nel regno delle Madri? Nessuno può dire fin dove arriverà Giuseppe Genna nel suo progetto abissale, e se quel che lo scrittore intravede è il tempo anteriore o la semplice congettura della propria immaginazione vibrante. Sarebbe la differenza tra il mistico e il poeta, ma è anche vero che a volte essi convivono nella stessa persona. E a decidere di che si tratti, se realtà o fantasia, non può essere una ragione esterna di giudice, psicologo o prete, tantomeno di critico letterario.
Nessun viaggio di una Monade è comparabile a quello di un’altra, nè la percezione di ognuna, assolutamente singolare, accetterebbe una riduzione al genere. Ogni vita è una canzone per una voce sola. E forse ognuno di noi vorrebbe semplicemente conoscere il proprio vero nome.
NOTE
Farid al-Din ‘Attār, Il verbo degli uccelli, (a cura di C. Saccone), Milano 1986
Tag: Giuseppe Genna
21 giugno 2013 alle 16:00
doveva esserci un riferimento bibliografico corrispondente con il numero 1 tra parentesi ?
21 giugno 2013 alle 17:34
Infatti c’era. L’ho rimesso. Grazie Manu.
23 giugno 2013 alle 09:20
Ognuno vorrebbe sapere che cosa sia e che evoluzione abbia la sua vita. Vorrebbe addirittura conoscerne lo scopo e il fine.
Cerca nella scienza, nelle filosofie, nelle religioni; nei viaggi, negli amori e nelle passioni; nello stordimento, nelle esperienze, nelle storie antiche, nei riti. Se una delle ricerche ha esito provvisoriamnete positivo, prova a creare (crearsi) una vita in base a quell’esito.
Poi scrive, si racconta (anche parlando di altro o di altri).
Si accorge che, indipendentemente dal giudizio degli altri, quella voce che racconta potrebbe essere effettivamente la sua vita, o almeno la vita che è riuscito a crearsi.
Ma sa che anche questo esito della sua ricerca è provvisorio.
E’ così?
23 giugno 2013 alle 10:18
Sotto la terra, sotto la ghiaia, sotto gli strati geologici dell’oblio e della finzione, ci dev’essere la perla vera, quella che il signore ti ha affidato affidandoti a te stessa, il talento sepolto. Può somigliare ad altre cose preziose o vili ma sarai aiutata a riconoscerla, perchè lo Spirito è il Seminatore stesso. Anche se di nuovo ti verrà la tentazione di confonderla con un gioiello qualsiasi, magari opera della tua abilità, perchè lla voce dello Spirito è coperta dal frastuono di questo mondo. Per questo sta scritto “Vieni nel deserto e parlerò al tuo cuore”(Osea).
23 giugno 2013 alle 13:47
Magari è la perla che per una vita ha voluto darti il colombre, dal quale per una vita sei fuggito…. Vedi che ci torna utile ancora il buon Buzzati?
23 giugno 2013 alle 17:55
Sono molto colpito da questa biografia letteraria ed esistenziale di un autore che ho amato e letto integralmente, ma di cui non ho potuto non cogliere la crisi, proprio tra Dies Irae e Hitler. Definirei lo spirito di questo pezzo come “amorevole ironia”, quasi che il destinatario sia non il pubblico, ma proprio Genna in persona, chiamato a “conoscere – o riconoscere – il suo proprio nome. Sarei tentato di allargare il riferimento a Leibniz fino all’epoca dei thriller: come Leibniz giudicava insufficiente il meccanicismo per rendere conto della ricchezza e il dinamismo del reale, così la storia per Genna, oltre ogni illuminismo e storicismo, presenta i segni di un dramma escatologico privato però della prospettiva della redenzione. Di qui il tema del complotto (Ludlum, il Pynchon dell’Incanto e V., ma anche I Nomi di DeLillo), e il suo successivo abbandono. ( per inciso questa critica al complotto come principio generatore di narrazioni mi sembra uno dei suoi contributi ideologici più notevoli, proprio perché sviluppato a partire da assunti lontani dal neolilluminismo). C’è a mio avviso un nucleo nell’autore, totalmente irriducibile al mainstream degli altri scrittori della sua generazione, sapienziale, lepoardiano, lovecraftiano, che lo ha portato sull’orlo dell’abisso nei testi che ho citato prima: in dies Irae per il carattere insostenibile di quelle rivelazioni “medianiche” esperite le quali, nessuna parola di speranza si può più pronunciare sul lembo di terra che abitiamo; e in Hitler, in cui proprio Genna, uno degli scrittori della sua generazione che più ha riflettuto sullo slittamento autore-narratore, si è misurato nell’esplorazione di quella non-persona che fu il dittatore tedesco. Una discesa agli inferi che deve essere costata molto, e per la quale non potevano essere d’aiuto le elaborazioni, plausibili ma parziali, sul tema del mito tecnicizzato, portate avanti da alcuni sulla scorta di Jesi. E d’altra parte lo stesso Jesi sapeva che in certe avventure l’umanista Kerenyi, rispettabile e borghese, aveva meno speranze dell’impresentabile Eliade. Scusa se mi sono dilungato, ma aspettavo da molto tempo un’intervento come questo.
Antonello